PREMESSA
Questo libretto, scritto ad appena due anni dall'apertura del Concilio Vaticano II (1962-1965), intendeva arginare quegli errori che già serpeggiavano in certi ambienti cattolici agli inizi degli anni '60, e che di lì a poco si sarebbero manifestati in tutta la loro virulenza con la promulgazione della Dichiarazione conciliare Nostra Ætate, riproponendo magistralmente l'autentica e plurisecolare dottrina cattolica a riguardo del delitto più importante e carico di conseguenze per la Storia dell'umanità. Poggiando sull'autorità della Sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa, di San Tommaso d'Aquino, e di molti esegeti, teologi e scrittori universalmente accettati e riconosciuti come colonne portanti del comune sentire cattolico, l'Autore dimostra in modo incontrovertibile sia la responsabilità ebraica nell'uccisione di Cristo, che la conseguente fine dell'Antica Alleanza. Ad appena quattro anni dalla stampa di questo libretto, uscito con l'Imprimatur di Mons. Carlo Livraghi, Vescovo di Frosinone, i vertici della Chiesa, cedendo alle pressioni del giudaismo internazionale (rappresentato principalmente dall'ebreo francese Jules Marx Isaac, il quale sosteneva la non-storicità dei Vangeli!) avrebbero approvato un documento ufficiale (e quindi facente parte del Magistero ordinario universale) che negava queste immutabili verità scagionando gli ebrei dal delitto di deicidio. Tale nuovissima dottrina, che non poggia né sulla Scrittura, né sulla Tradizione, è stata poi ripresa ed adottata anche dal recente Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato da Giovanni Paolo II, ed è divenuto uno dei punti fermi nel dialogo in atto tra i rappresentanti del Vaticano e quelli della Sinagoga. Facendo dire al Vangelo l'esatto contrario di ciò che esso più volte afferma, si sostiene che Gesù Cristo non sarebbe stato ucciso dagli ebrei (cfr. Nostra Ætate, § 4; Catechismo della Chiesa cattolica, § 598), ma che, in realtà, Egli sarebbe stato materialmente ucciso dai romani e dai nostri peccati. La lettura serena e pacata di questo opuscolo non può non convincere dell'assoluta falsità e gratuità di questa affermazione che scalza alla radice la stessa religione cattolica.
P. ISIDORO DA ALATRI o.f.m.
CHI HA UCCISO GESU' CRISTO?
La responsabilità ebraica nella crocifissione del Signore
«Non dicano i giudei: «Non abbiamo ucciso Cristo»!
Sant'Agostino
(cfr. Enarratio in Psalm. 63)
Nihil obstat quominus imprimatur
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Romæ, die 29 decembris 1960
(Fr. Ioannes Baptista A. Farnese)
Minister Provincialis O. F. M. Cap.
Imprimatur
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Verulis, die 20 novembris 1961
+ Carolus Livraghi
Ep.us Verulan - Frusinaten
INDICE
Dichiarazione - Ringraziamento
«Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli»
Il popolo eletto riprovato perché uccisore di Cristo
La distruzione di Gerusalemme come castigo nazionale
L’uccisione di Cristo negli Atti degli Apostoli
San Lorenzo da Brindisi e la responsabilità ebraica nella morte di Cristo
San Paolo e il ritorno d Israele
Appendice I - Voci di SS. Padri e di illustri esegeti
Appendice II - Documenti ecclesiastici
a) Condanna della Società «Gli Amici d'Israele»
b) Monitum S. Ufficii
Appendice III - Documento storico-apologetico
Appendice IV - Conferma teologica
Il libro di Padre Isidoro da Alatri o.f.m. è uno dei più belli che siano stati scritti sulla questione del deicidio. Ha ricevuto l’Imprimatur del Vescovo di Frosinone nel 1961, ma purtroppo non è stato conosciuto come avrebbe meritato. La presente edizione cercherà di porre rimedio a tale inconveniente. Il libro è scritto con stile chiaro, accessibile a tutti e nello stesso tempo è preciso e profondo sia dal punto di vista esegetico che da quello teologico. Dalle sue pagine risulta provata in maniera inoppugnabile la responsabilità collettiva della religione giudaica post-biblica, del Sinedrio e del popolo che il Venerdì Santo gridò: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». L’autore ci informa che nel 1933 gli ebrei istituirono a Gerusalemme un tribunale ufficioso, affinché riprendesse in esame la sentenza del Sinedrio. Il verdetto fu che la sentenza del Venerdì Santo doveva essere ritrattata, perché l’innocenza dell’imputato era dimostrata. I giudei stessi imprecarono il castigo di Dio sopra sè stessi e sopra i loro figli. Il popolo ebraico con i suoi capi si è condannato da sè ed è stato, conseguentemente, abbandonato e ripudiato da Dio. Tuttavia, molti tra i giudei si pentirono e furono perdonati da Dio, mentre ancor oggi se i figli di tale popolo solidarizzano con i loro padri nel rifiuto e nella condanna di Gesù, attirano sul loro capo la condanna che Dio riserva ad ogni peccatore impenitente. La sentenza «il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli», non fu sentenza di Cristo o della Sua Chiesa, ma dei giudei, come fa notare Tertulliano. Il popolo (una volta) eletto, è stato riprovato e condannato da Dio, perché uccisore di Cristo. Il Regno muterà padrone e dagli ebrei sarà trasferito ai pagani; il popolo eletto diverrà riprovato e le nazioni abbandonate diverranno elette. La colpevolezza è maggiore nei capi, ma sussiste (benché diminuita) nel popolo che aveva vissuto con Gesù e ne aveva visto i miracoli. Se ignoranza vi fu, essa fu voluta e quindi colpevole. L’obiezione recente secondo cui Gesù è morto per i peccatori è confutata con molto buon senso: non si può affermare che tutti i peccatori abbiano ucciso Gesù di loro mano, lo abbiano condotto da Pilato e chiesto la Sua morte. Si può solo asserire che Gesù è morto per salvare tutti gli uomini, che sono causa finale e non efficiente della Sua morte in croce. Cristo perciò fu ucciso e tradito dai capi e dal popolo ebraico vivente all’epoca di Cristo e dai suoi discendenti che continuano a rifiutarLo e a volerne la morte in quanto bestemmiatore. Israele per aver rigettato Cristo veniva rigettato da Dio.
Dio non abbandona (riprova) se prima non è abbandonato, insegna la Chiesa! Oramai non è più il sangue o la razza di Abramo che forma il popolo eletto, ma è la fede in Cristo: «Se voi siete di Cristo, siete seme di Abramo» (Gal 3, 26-29). Con la morte di Gesù il popolo ebraico si scisse in due: un «resto» formato da coloro che credevano in Gesù e si dissociavano dalla Sua condanna, che fu il vero Israele spirituale; e gli altri (la maggior parte, purtroppo) che rifiutando Cristo rimasero l’Israele riprovato da Dio, ossia il giudaismo talmudico anticristiano. Bisogna però tenere per certo - contro l’antisemitismo biologico - che qualunque individuo, di qualsiasi razza, purché accetti Gesù come Dio, può entrare nel nuovo popolo eletto: la Chiesa, in cui «non vi è più giudeo ne greco» (San Paolo) ma solo la fede. La condanna dell’antisemitismo biologico va di pari passo con la condanna degli «Amici d’Israele», che per un falso ecumenismo si allontana dalla dottrina della Chiesa sulla responsabilità del giudaismo religione post-biblica nella morte di Gesù, tale associazione è perciò un vero «precursore» (riprovato dalla Chiesa di Cristo) di Nostra Ætate. Tuttavia, se la condanna accompagna il giudaismo lungo il corso della storia, un giorno cesserà; poiché l’indurimento di Israele ha un termine. è rivelato che il popolo ebraico si convertirà a Cristo e si pentirà del suo peccato e sarà accolto da Dio. Che questo libro possa illuminare le menti dei lettori in una questione così importante che è come il cuore della religione cristiana. Infatti, se Cristo è Dio, il giudaismo post-cristiano è una falsa religione; se invece l’Alleanza Antica non è stata mai revocata, significa che Gesù è un falso profeta (Absit!). Delle due una, entrambi non possono essere vere, per il principio di non contraddizione.
Forse, sono troppo prolisse le citazioni di scrittori antichi e moderni; sicché non sempre si è ottenuta quella snellezza di stile che, giustamente, desidera chiunque legga. Tuttavia, ciò si rese necessario e se ve ne fosse bisogno, ne chiedo venia di fronte ai nuovissimi esegeti, che credono di poter imporre la propria opinione, trascurando, e talora opponendosi, al pensiero di esegeti insigni e, specialmente, dei Santi Padri, che rappresentano la Tradizione cristiana, come poneva in rilievo, anche recentemente, il monito del Sant’Ufficio, da noi riportato in Appendice .
RINGRAZIAMENTO
Nel dare alle stampe questo modesto lavoro, desidero ringraziare, come di fatto ringrazio quanti mi sono stati di aiuto nel prepararlo. In modo particolare, il mio ringraziamento si rivolge a Padre Filippo da Cagliari, Dottore in Teologia e Licenziato in Scienze Bibliche, il quale mi ha indicato Autori e Fonti, che sono stati decisivi nella ricerca delle prove sulla responsabilità ebraica nella morte di Cristo.
Padre Isidoro da Alatri o.f.m.
Da qualche tempo, si vanno dicendo e scrivendo cose inesatte, equivoche ed infondate; anzi, addirittura opposte alle affermazioni del Vangelo e alla Tradizione del pensiero cristiano-cattolico intorno alla responsabilità che grava sopra i giudei, nel chiedere ed esigere, con insistenza e prepotenza inaudita, la morte di croce di Nostro Signore Gesù Cristo 1. È evidente che un tal modo di parlare e di scrivere, minimizzando il terrificante dramma della Passione e Morte di Cristo, non può non ingenerare confusione, errore e perplessità nella mente di coloro che ascoltano e leggono; specie se giovani e non ancora ben formati e consolidati alla scuola del pensiero cattolico, che trova il suo fondamento più saldo ed incrollabile, oltreché nella parola ispirata dei Libri Santi, in tutti i Padri e Maestri di esegesi biblica più illuminati e sicuri. Il presente opuscolo, pertanto, mira a ristabilire, e nel caso a ribadire, l’evangelica e storica verità intorno al delitto orrendo dei capi e del popolo ebraico nel giorno in cui, di fronte a Pilato, che si lava le mani e grida: «Io sono innocente del sangue di questo giusto: pensateci voi»; essi rispondono: «Il suo sangue ricada sopra noi e sopra i nostri figli» (Mt 27, 25). Mi dispiace se, scrivendo, dovrò oppormi al pensiero di altri, che pur stimo e penso che, soltanto in buona fede e con retta intenzione, abbiano potuto dire e pubblicare idee non conformi a quella verità, alla quale ciascuno deve rendere testimonianza e di cui tutti siamo servi. Mi rassicura tuttavia il pensiero che soprattutto in una questione tanto importante debba valere il motto: «Amicus Pilato, sed magis amica veritas». Il qual motto, è quasi superfluo rilevarlo, diviene imperativo divino quando si tratta di Cristo, la cui missione è essenzialmente missione di verità e di vita (Gv 18, 27). Tutto peraltro sia a gloria di Colui dinanzi al quale deve piegare il ginocchio il cielo, la terra e l’inferno (Fil 2, 9). Né posso pensare altrimenti, poiché chiunque parli e scriva da cristiano non può non farlo a maggior gloria di Nostro Signore Gesù Cristo: «Nel nome del Quale conviene che sia fatta e detta ogni cosa» (Col 3, 17), perché infine «non c’è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci d’esser salvati» (At 4, 12), è con i sensi della pietà più viva, pertanto, che mi accingo a riproporre all’attenzione del mondo cristiano ed ebraico il dramma delle pene e della morte di Nostro Signore Gesù Cristo; onde vedere con chiarezza quale sia stata la responsabilità dei capi e del popolo ebraico, in simile circostanza. Unica preoccupazione in un problema così importante: non tradire, anzi dire tutta la verità.
Padre Isidoro da Alatri o.f.m.
Mio Gesù; mi è sembrato sempre tanto difficile scrivere degnamente di Voi, della Vostra vita, della Vostra dottrina e, particolarmente, del mistero della Vostra Incarnazione, dei Vostri dolori e della Vostra morte sulla Croce... Tutto in Voi è mistero ed alto mistero, nonostante la trasparenza della Vostra parola e del Vostro insegnamento, così aderente ai nostri veri bisogni di creature umane, «nate a formare l’angelica farfalla, che vola alla giustizia senza schermi» (Dante Alighieri). Questo, e soltanto questo, pertanto, è stato il motivo che in cinquanta anni di sacerdozio mi ha sconsigliato di usare la penna per illustrare almeno qualche lato della Vostra divina personalità, della Vostra vita e dei Vostri insegnamenti celesti. è vero che molte volte dalla cattedra e dall’altare ho parlato di Voi, come meglio ho saputo e potuto: è vero che, molte volte ho parlato del Vostro dolore e della Vostra morte, ed è vero anche che altre volte ho parlato del Vostro misterioso amore Eucaristico; è vero che in Voi ho sempre visto ed additato «l’unico Maestro necessario all’umanità», l'unico che porti un nome di «salvezza». Ma tutto questo così, di passaggio, e soltanto parlando o tracciando appunti e schemi di predicazione. Mai scrivendo qualche pagina, che dovesse avere l’onore della stampa, e che potesse rimanere, dopo la mia morte, a darVi qualche segno del mio amore, per glorificarVi tra gli uomini anche nel futuro. Sono passati così cinquant’anni. Ma ora, io stesso non posso rendermene conto interamente. Ora pare che la Vostra Provvidenza abbia disposto che io prendessi la mia povera penna, e scrivessi di Voi qualche cosa che avesse vita, anche dopo la mia vita di quaggiù. Ed io l’ho presa, questa umile penna, per scrivere il presente opuscolo, soltanto per amore di Voi e della verità, e Voi siete la Verità; per rimanere io stesso ed indicare agli altri la via, e Voi siete la Via; per attingere e portare alle anime la vita e Voi siete la Vita. Accogliete, perciò, il mio piccolo dono, qualunque esso sia: accoglietelo come segno di gratitudine e di ringraziamento nel cinquantesimo del mio sacerdozio, e perdonatemi tutte le negligenze e le colpe commesse in sì lungo tempo, e concedetemi, se a Voi piace, ancora qualche tempo, per glorificarVi e farVi amare sempre più dagli uomini, che, al pari di me, hanno bisogno soltanto di Voi per esser felici, quanto è possibile sulla terra, e per conquistare quella gioia perfetta nel cielo, «che solo amore e luce ha per confine».
Roma, 31 luglio 1961.
Padre Isidoro da Alatri o.f.m.
Anzitutto, crediamo nostro dovere porre innanzi allo sguardo del lettore le pagine evangeliche in cui viene riferita la scena terrificante di cui ci dobbiamo occupare. Si tratta delle pagine più oscure ed orrende scritte dalla mano tremante degli Evangelisti. In esse, viene ricordata, con semplicità e sobrietà pari a verità, tutta la malignità e l’estrema empietà ebraica nel chiedere ed ottenere la morte di croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Per capirle però e comprenderne, per quanto è possibile, il tragico svolgimento, noi le riferiamo tutt’intere, quali sono narrate dalla penna dei quattro Evangelisti. E, a tale scopo, ci serviamo del Vangelo unificato e tradotto dai testi originali, a cura di Padre Pietro Vanetti s.j. (Editrice Missioni, Venezia 1958).
l Gesù davanti al Governatore
(Mt 27,11; Gv 18, 28-32)
«Condussero dunque Gesù dalla casa di Caifa al pretorio. Era mattino. E Gesù fu posto davanti al Governatore. Ma essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Allora Pilato uscì fuori verso di loro e disse: «Che accusa portate contro quest'uomo»? Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Disse dunque loro Pilato: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge». Gli risposero i giudei: «A noi non è lecito uccidere alcuno». Affinché si adempisse la parola di Gesù, quella che disse significando di qual morte stava per morire».
l Accuse del Sinedrio
(Lc 23, 2)
«E incominciarono ad accusarlo dicendo: «Trovammo costui a perturbare la nostra nazione ed impedire di dare tributi a Cesare, e a dire di essere lui il Cristo re».
l Interrogatorio segreto
(Mt 27, 11; Mc 15, 2; Lc 23, 3; Gv 18, 33-38)
«Pilato dunque entrò nuovamente nel pretorio e chiamò Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei giudei»? Gesù rispose: «Da te stesso tu dici questo o altri te l’hanno detto di me»? Rispose Pilato: «Sono forse io giudeo? La tua nazione e i pontefici ti consegnarono a me: che cosa hai fatto»? Gesù rispose: «Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei sudditi avrebbero lottato perché non fossi consegnato ai giudei. Ora invece il mio regno non è di quaggiù». Pilato allora gli disse: «Dunque tu sei re»? Gesù rispose: «Tu dici che sono re! Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli dice: «Che cos’è la verità»?
l Nuove accuse del Sinedrio
(Mt 27, 12-13; Mc 15, 3-5; Lc 23, 4-7; Gv 18, 38)
«E detto questo; nuovamente uscì verso i giudei e disse ai pontefici e alle folle: «Io non trovo in lui nessuna colpa». E Gesù, quando fu accusato dai pontefici e dagli anziani in molte cose, non rispose nulla. Ma Pilato di nuovo lo interrogava: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano». Ma Gesù non gli rispose nulla affatto, nemmeno ad una parola, di modo che Pilato si meravigliò molto. Ma quelli insistevano dicendo: «Agita il popolo insegnando per tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, fin qua». Avendo udito ciò Pilato domandò se l’uomo fosse galileo; e venuto a conoscenza che era della giurisdizione di Erode, lo rinviò ad Erode che era anche lui a Gerusalemme in quei giorni».
l Gesù di fronte ad erode
(Lc 23, 8-12)
«Erode al vedere Gesù si rallegrò molto. Da molto tempo infatti era desideroso di vederlo perché aveva udito di lui, e sperava vederlo compiere qualche prodigio. Lo interrogava perciò con molte parole, ma egli non gli rispose niente. E stavano lì i pontefici e gli scribi accusandolo con veemenza, ma Erode disprezzatolo con i suoi soldati e fattosene gioco dopo averlo vestito di una veste sgargiante lo rinviò a Pilato. In quello stesso giorno Erode e Pilato divennero amici, poiché prima erano nemici tra loro».
l «Dopo averlo castigato, quindi, lo lascerò libero»
(Lc 23, 13-16)
«Pilato allora, convocati i pontefici e i capi e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come un sovvertitore del popolo; ed ecco, dopo averlo esaminato alla vostra presenza, non no trovato nulla di colpevole in quest’uomo di quanto l’accusate. Anzi neppure Erode; lo rinviò infatti a noi. Ecco dunque egli non ha commesso nulla degno di morte. Dopo averlo castigato, quindi, lo lascerò libero».
l Gesù o Barabba?
(Mt 27, 15-18; Mc 15, 6-10; Lc 23, 17; Gv 18 ,39-40)
«Il Governatore era solito, in ciascuna festa di Pasqua, liberare alla folla un carcerato, quello che volevano. C’era allora un carcerato famoso, chiamato Barabba. Era il detto Barabba incarcerato fra i rivoltosi che nella rivolta avevano commesso omicidio. E la folla salì e cominciò a chiedere a Pilato quello che sempre faceva con loro. Radunatisi, dunque, disse loro Pilato: «è consuetudine per voi che vi liberi uno per la Pasqua. Chi volete che vi liberi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo»? Sapeva infatti che per invidia lo avevano consegnato».
l La moglie di Pilato
(Mt 27, 15)
«Sedendo poi Pilato al banco del tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Nulla (ci sia) fra te e quel giusto; molto infatti ho sofferto oggi in sogno per causa sua».
l Barabba liberato
(Mt 27, 20-25; Mc 15, 11-15; Lc 23, 18; 23, 20-25; Gv 18 ,40)
«Ma i pontefici e gli anziani persuasero le folle a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Prendendo dunque la parola il Governatore disse loro: «Chi dei due volete che vi liberi»? Gridarono tutti insieme dicendo: «Togli via costui, e liberaci Barabba». Ma di nuovo Pilato gridò loro volendo liberare Gesù: «Che debbo fare di quello che chiamate il re dei giudei»? Ma quelli tutti di nuovo gridavano dicendo: «Crocifiggilo»! Ma egli per la terza volta disse loro: «Ma che fece di male costui»? Non ho trovato in lui niente che meriti la morte. Dopo averlo castigato dunque, lo lascerò libero». Ma quelli sempre più insistevano con alte grida, chiedendo che fosse crocifisso, e le loro grida si rinforzavano. Perciò Pilato volendo soddisfare il popolo, deliberò che fosse fatto ciò che chiedevano. Rilasciò colui che per sedizione e omicidio era in carcere: quel Barabba che essi chiedevano».
l Gesù flagellato ed incoronato di spine
(Mt 27, 27-30; Mc 15, 16-19; Gv 19, 13)
«Allora Pilato prese Gesù e lo fece flagellare. I soldati condussero Gesù dentro nel cortile, cioè nel pretorio, e convocarono attorno a lui tutta la coorte composta di circa 500 soldati. E spogliatolo, gli misero addosso una clamide scarlatta; e intrecciata una corona di spine, la posero sul suo capo, e posero una canna nella sua destra. Poi venivano a lui e piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano e cominciarono a salutarlo dicendo: «Ave, re dei giudei», e gli davano schiaffi. E dopo avergli sputato addosso, presero la canna e con quella lo percuotevano sul capo».
l «Ecco l'uomo»!
(Gv 19, 4-7)
«Pilato uscì di nuovo fuori e disse loro: «Ecco, ve lo conduco fuori, affinché conosciate che non trovo in lui nessuno colpa». Uscì fuori dunque Gesù portando la corona di spine e la veste purpurea. E Pilato dice loro: «Ecco l’uomo»! Ma quando lo videro, i pontefici e le guardie gridarono dicendo: «Crocifiggilo, crocifiggilo»! Dice loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io infatti non trovo in lui colpa». I giudei gli risposero: «Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire, perché si fece Figlio di Dio».
l Il maggiore peccato
(Gv 19, 8-11)
«Quando Pilato udì questo discorso, s’impaurì di più; ed entrò di nuovo nel Pretorio, e disse a Gesù: «Da dove vieni»? Ma Gesù non gli diede risposta. Gli dice allora Pilato: «Con me non parli? Non sai che ho potere di liberarti e ho potere di crocifiggerti»? Rispose Gesù: «Non avresti nessun potere contro di me se non ti fosse stato dato dall’alto; perciò chi mi ha consegnato a te, ha maggiore peccato».
l Ultimi tentativi del Governatore
(Gv 19, 12-15)
«Dopo questo, Pilato cercava di liberarlo. Ma i giudei gridarono dicendo: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re, contraddice a Cesare». Pilato, dunque, udite queste parole, condusse fuori Gesù e sedette in tribunale in un luogo detto Lastricato, in ebraico Gabbata. Era la preparazione della Pasqua, verso l’ora sesta; e dice ai giudei: «Ecco il vostro re»! E quelli gridarono: «Via, via, crocifiggilo»! Pilato dice loro: «Crocifiggerò ii vostro re»? Risposero i pontefici : «Non abbiamo altro re che Cesare».
l La sentenza
(Mt 27, 24-26; Mc 15, 15; Lc 23, 25; Gv 19,16-17)
«Ora Pilato, vedendo che non otteneva nulla, anzi che il tumulto si faceva maggiore prendendo dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Sono innocente del sangue di questo giusto. Pensateci voi»! E rispondendo tutto i popolo disse: «Il suo sangue ricada sopra noi e sopra i nostri figli». Allora finalmente consegnò loro Gesù perché fosse crocifisso. E l’abbandonò in loro balia. Presero essi dunque Gesù».
I primi rilievi e le prime constatazioni che si presentano a chiunque abbia letto le pagine evangeliche surriferite sono: 1) la pretesa degli ebrei, per cui il solo fatto di avere condotto Gesù davanti al Governatore romano, questi debba senz'altro ritenerlo malfattore degno di morte. Alla richiesta infatti, di Pilato: «Che accusa portate contro quest'uomo»? Essi rispondono seccamente: «Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo consegnato...»; 2) Dopo alcune accuse dei giudei, Pilato che ha interrogato Gesù, ed ha esaminato le accuse, esce verso i giudei e proclama una prima volta innocente Gesù dinanzi ai pontefici e alle folle (si ponga bene attenzione a questa parola: «dinanzi ai pontefici e alle folle») dicendo: «Io non trovo in lui alcuna colpa». Ma poiché gli ebrei insistono dicendo che agita il popolo, insegnando per tutta la Giudea, come se insegnare sia lo stesso che delinquere; Pilato: 3) manda Gesù ad Erode il quale, pago di disprezzarlo con i suoi soldati, non osa condannarlo o e lo rinvia a Pilato, dichiarandolo, sia pure implicitamente, non degno di morte. 4) Pilato, allora, dopo averlo interrogato ed avere esaminate le nuove accuse fatte dai giudei dichiara innocente Gesù una seconda volta, dinanzi ai capi e al popolo dicendo nuovamente: «Mi avete portato quest’uomo come un sovvertitore del popolo; ed ecco, dopo averlo esaminato alla vostra presenza, non ho trovato nulla di colpevole in quest‘uomo, di quanto l’accusate. Anzi neppure Erode; lo rinviò, infatti, a noi. Ecco, dunque, egli non ha commesso nulla degno di morte». 5) Pilato, quindi, dichiara, quantunque implicitamente, una terza volta innocente Gesù; dopo averlo presentato al popolo insieme con Barabba, dicendo: «Chi volete che vi liberi: Barabba o Gesù chiamato Cristo»? Sapeva infatti, dice il Vangelo, che per invidia lo avevano consegnato. 6) Gesù è ritenuto innocente anche dalla moglie di Pilato, la quale manda a dire al giudice romano: «Nulla (ci sia) fra te e quel giusto». 7) Pilato dichiara nuovamente innocente Gesù. Ed infatti, dopo che gli ebrei hanno chiesto la vita di Barabba, e la morte di Gesù, il Governatore romano replica: «Ma che fece di male costui? Non ho trovato in lui niente che meriti la morte». 8) Dopo gli scherni, i flagelli, gli schiaffi e gli sputi, da parte dei soldati, ecco di nuovo Pilato a dichiarare, per la quinta volta, innocente Gesù: «Pilato - continua a narrare il Vangelo - uscì di nuovo fuori e disse loro: «Ecco ve lo conduco fuori, affinché conosciate che non trovo in lui colpa alcuna...». I pontefici insolentiscono maggiormente dicendo: «Crocifiggilo»!, e Pilato, per la sesta volta: «Io non trovo in lui colpa...». Ma i giudei, con empietà inaudita e insolenza sbalorditiva, esclamano: «Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire, perché si fece Figlio di Dio». Pilato, a questo punto e di fronte a tale affermazione, s’impaurisce e torna ad esaminare l'imbarazzante e pesante questione. Ma, non trovando colpa, neppure questa volta, in Gesù, pensa di prendere i giudei dalla parte del cuore, dicendo: «Ecco il vostro re»! Ma quelli gridano più ostinatamente ancora: «Via via, crocifiggilo»! Dice dunque Pilato: «Crocifiggerò il vostro re»? Risposero i Pontefici: «Non abbiamo altro re che Cesare...». 8) Di fronte a tanta e così empia ostinazione, Pilato, nonostante che avesse proclamato innocente Gesù, per ben sei volte, vedendo che non otteneva nulla, anzi che il tumulto si faceva maggiore, prendendo dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla dicendo: «Io sono innocente del sangue di questo giusto: pensateci voi»! Ma chi non vede che anche questo modo di agire e di dire di Pilato non è altro che una nuova proclamazione dell'innocenza di Gesù? Ed è proprio a quest’ultima proclamazione d’innocenza del dolcissimo Salvatore del mondo che tutto il popolo risponde: «Il suo sangue ricada sopra noi e sopra i nostri figli»!
q Valore e conseguenza di questa frase
Questa frase pronunciata in simile circostanza, e dopo quasi un'intera giornata di lotta tra il giudice Pilato, che proclama Gesù innocente, e gli anziani e il popolo ebraico, che lo vogliono ad ogni costo crocifisso, ha fatto credere a qualcuno che la richiesta non venne dal popolo intero di Gerusalemme, ma appena da «qualche centinaio di persone» ivi presenti, non qualificate e di poca o nessuna autorità. Anzitutto: ma chi ha detto e può affermare che si tratti di «qualche centinaio di persone»? Quando la Scrittura vuole indicare poche persone, lo dice esplicitamente (vedi ad esempio At, 1, 15). Infatti: 1) Il Vangelo parla più volte di folla e di folle; e folla e folle non può dirsi mai che sia sinonimo di «qualche centinaio di persone». 2) Dallo stesso Vangelo apprendiamo che la folla, ossia la moltitudine, era tale da far temere a Pilato un grosso tumulto e una vera sedizione; il quale, proprio perché non otteneva nulla, anzi il tumulto si faceva maggiore, prese dell'acqua e si lavò le mani davanti alla folla. Si rifletta bene: davanti alla folla, e cioè davanti ad una massa di popolo. Per cui, preso da timore e per non essere travolto dalla medesima, nonostante che avesse ai suoi ordini circa 500 soldati 2, si lavò le mani e disse: «Sono innocente del sangue di questo giusto. Pensateci voi»! 3) Che sia stata una moltitudine, una folla imponente e non «qualche centinaio di persone» è anche evidente per chi consideri che si trattava di un giorno vicino alla Pasqua, giorno in cui a Gerusalemme conveniva gente da ogni parte così da considerarsi una vera fiumana di popolo quella che ivi si adunava: come anche per chi consideri che la cattura di Gesù, pochi giorni prima acclamato dal popolo e da numerosi fanciulli, non poteva non aver destato curiosità e meraviglia in tutto il popolo di Gerusalemme. Noi, pertanto, sottoscriviamo ben volentieri ciò che rileva con alto senso di esegeta, il noto Padre Joseph Marie Lagrange o.p. (1855-1938), nel suo volume intitolato L’Evangelo di Gesù Cristo: «Pilato comprese, di fronte all’esclamazione di tutto il popolo, che tutto era finito e che non riusciva a nulla - dice San Matteo - tanto più che il tumulto andava sempre più aumentando e veniva assumendo l'aspetto di una vera sedizione popolare. Fattosi allora portare dell'acqua si lavò le mani alla presenza del popolo, gesto di cui gli ebrei avrebbero compreso assai bene il senso ancorché egli non l’avesse commentato (vedi Dt 21, 6 e ss.): «Io sono innocente di questo sangue; a voi la responsabilità» 3. Di questo parere, del resto, sono altri illustri esegeti che hanno annotato e spiegato il passo che ci interessa. Tra i quali, non possiamo non porre il noto scrittore Igino Giordani, il quale, quantunque di passaggio, ritiene che «una massa stipava la piazza del Pretorio a Gerusalemme e coronava il cocuzzolo del Golgotha durante la crocifissione» 4. Padre Gaetano Maria da Bergamo o.f.m. (1672-1753), nella meditazione nº 207 della sua ben nota opera Pensieri ed affetti sopra la Passione di Gesù Cristo, appoggiato all’autorità di San Bonaventura (1217 ca-1247), scrive che le strade di Gerusalemme erano tutte piene di gente per la «novità dell’avvenimento». Perfino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) scrive: «La morte di Socrate, avvenuta mentre egli filosofava amabilmente con i suoi discepoli, è la più dolce che si possa desiderare; quella di Gesù, che spirò nei tormenti, ingiuriato deriso maledetto da un popolo intero, è la più spaventevole cosa che si possa temere»! (cfr. J.-J. Rousseau, Emil; in Oeuvres, tomo II, Parigi l905, pag. 280). Ma si dirà: come poteva tanto popolo essere contenuto nello spazio antistante al pretorio? Poiché noi crediamo al Vangelo, il quale parla di «folla» e di «folle» prima di accordare il nostro assenso a Padre Giovanni Caprile s.j. e ad altri pochi, lo accordiamo piuttosto a Padre Vincent, uno dei più grandi archeologi in materia di studi palestinesi, il quale non ha lo scrupolo del Caprile e pensa facilmente al popolo ammassato sotto le volte della grande porta occidentale e all’installazione provvisoria della sedia curule nel cortile dell’Antonia dirimpetto alla folla, mentre qualche altro archeologo pensa che Pilato avrà potuto facilmente farsi ascoltare dalla folla da qualche balconata della terrazza occidentale del cortile (cfr. J. Stackys, Lithòstroton, in DBS, s. v.). Se il pretorio è da identificarsi come sembra con l’Antonia, il cui cortile era il lastricato (il «lithostroton» di San Giovanni) messo in luce dai recenti scavi e che sovrastava il Tempio, il fatto evangelico può essere benissimo illustrato e confermato dall’episodio accaduto a San Paolo, alcuni decenni dopo, e riportato accuratamente in At 21, 30 e ss.; 22, 1-25. Del resto, è buona regola di esegesi: prima «cogliere il fatto»; quindi tentarne la spiegazione, con le ipotesi più plausibili. Il fatto è questo: «Tutto il popolo disse: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli». Ora, prima di Caprile e compagni, per quanto ci risulta, nessuno scrisse che l’Evangelista, dicendo «tutto il popolo», volesse indicare soltanto qualche centinaio di persone.
Ma si dice: si tratta di folla senza nome e di nessuna autorità; quindi, non poteva rappresentare la città di Gerusalemme. Questa sì che è una affermazione gratuita, come dicono i filosofi. E perciò si nega senz'altro e con argomento che si impone a chiunque voglia seriamente trovare e rimanere nella verità. Scrive infatti l'eminente esegeta e storico della vita di Gesù Cristo, l’Abate Giuseppe Ricciotti (1890-1964): «Questo augurio o voto che fosse («Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli...») invita ad una breve ed elementare riflessione che del resto non è estranea al processo di Gesù. L’augurio fu espresso concordemente sia dalle guide spirituali del giudaismo, sia da una larga rappresentanza del popolo di Gerusalemme; era dunque veramente una rappresentativa vox populi, un voto strettamente ufficiale, che riassumeva i desideri sia del capo che delle membra, sia del Sinedrio che del popolo. L’augurio o voto fu indirizzato certamente non al procuratore romano, ma ad un Giudice ben più alto? Ossia a quel Giudice tante volte invocato nelle Sacre Scritture d’Israele, il quale solo poteva far sì che quel discusso sangue ricadesse anche sulle teste dei lontani figli. Solo quel sovreminente Giudice poteva mutare la vox populi in vox Dei, accogliendo quel voto e mostrandolo avverato nella Storia. Ora, se tutto ciò sia veramente avvenuto, lo storico odierno riscontrerà per conto suo, rivolgendosi appunto alla Storia, e non soltanto a quella antica, ma anche a quella odierna. E ciò anche perché ai nostri giorni la questione è stata ripresa, e precisamente da quei figli di cui parla il voto. Non esistendo più oggi il Sinedrio che 19 secoli fa condannò Gesù ed espresse il voto che il suo sangue ricadesse sui più lontani figli d'Israele, questi figli nel 1933 istituirono a Gerusalemme un tribunale ufficioso, composto di cinque insigni israeliti, affinché riprendesse in esame l’antica sentenza del Sinedrio. Il verdetto pronunciato da questo tribunale, con 4 voti favorevoli e uno contrario, fu che l’antica sentenza del Sinedrio doveva essere ritrattata, perché l’innocenza dell‘imputato era dimostrata, la sua condanna era stata uno dei più terribili errori che gli uomini hanno commesso, riparando il quale la razza ebraica ne sarebbe onorata» 5. Si può quindi affermare con il dotto esegeta Lagrange: «Il popolo intero gridò: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli»! Israele aveva rigettato il suo Messia, l’aveva dato in balia dei gentili e, per quanto fiero di non ubbidire che a Dio, aveva preferito al Suo paterno dominio il giogo di Cesare. Così pronunciava la propria condanna in quel giorno che era la preparazione alla Pasqua. Erano sei ore circa dopo la levata del sole, cioè dodici ore o mezzogiorno» 6. Alcuni credono di infirmare, o per lo meno di attenuare il valore e le conseguenze della frase che egli chiama incriminata, mentre noi vorremmo chiamare piuttosto criminale stando che quella espressione, in fin dei conti, la riporta soltanto in Mt 27, 25 (vedi a questo proposito Palestra del Clero, nº 39, 1960, pag. 963). Ora, se ciò da una parte è vero, dall’altra è totalmente falso, e mi spiego. è vero che la suddetta frase si trova soltanto in Matteo; ma non è vero che soltanto Matteo parla di «tutto un popolo», di folla, di moltitudine, di sedizione e di tumulto, che fa temere e tremare Pilato. Su ciò, al contrario, sono concordi tutti e tre i Sinottici, come ciascuno può rendersene certo consultandoli. E allora, se tutti e tre i Sinottici (San Matteo, San Marco e San Luca) ci dicono che ivi furoreggiava e tumultuava una folla, una moltitudine, minacciosa e capace di travolgere Pilato con le forze armate poste a sua disposizione (almeno 500-600 soldati), come si può credere che quella folla, quella moltitudine, minacciosa e minacciante, non fosse rappresentata che da qualche centinaio di persone? Sono cose che non crederebbe neppure un bambino (che legga il Vangelo, s’intende), non dico un esegeta, che studi e comprenda, e sia perciò maestro dello stesso Vangelo... Si leggano infatti, senza pregiudizi, specialmente il capitolo 15 di San Marco, il 23 di San Luca, e il 25 di San Matteo. Sono sicuro che a nessuno, dopo averli letti e compresi seriamente, passerà per il cervello l’idea che si tratti dei clamori di poca gente. Molto meno che si tratti, come scrive il Caprile in Palestra del Clero, di appena un qualche numero di servi e di familiari dei caporioni del Sinedrio locale... Per dir ciò - mi si permetta di esprimere tutto il mio pensiero - bisogna credere non a quello che narra il Vangelo, ma a quello che hanno osato scrivere alcuni apologisti della razza ebraica, non tenendo conto né del Vangelo stesso, né della Storia a tutti nota. Iosef Schmid, perciò, con finezza di esegeta, fa la seguente considerazione: «Gli ebrei (l’espressione «tutto il popolo», «tutta la nazione» qui rappresentata dai membri del Gran Consiglio e dalla folla presente è scelta intenzionalmente dall`Evangelista) dichiarano quindi solennemente di assumere su di sè e sui loro successori la responsabilità del sangue, della morte di Gesù (per l`espressione, vedi 2 Re 1, 16; 3, 29;
14, 9; 3 Rg 2, 33; Ger 51 (28), 35; At 18, 6). Così, il popolo ebraico si è maledetto da sé; è infatti il sangue del suo Messia quello di cui esso si assume la responsabilità. Voi avete disprezzato la protezione di Dio. La punizione che colpirà gli abitanti di Gerusalemme per il loro ostinato rifiuto dell'amore divino consisterà nel fatto che la loro casa, ossia la loro città (non il Tempio) sarà da Dio abbandonata a sè stessa. Dio si ritrae da loro. Gesù dice solo che la città sarà abbandonata da Dio - il cui nome viene parafrasato nel passivo - e non anche dai suoi abitanti. La distruzione del Tempio e della città renderà anche esteriormente evidente che essa è stata abbandonata e ripudiata da Dio» 7.
NOI E SUI NOSTRI FIGLI»
(Mt 27,25)
Nonostante queste esplicite testimonianze di uomini dotti e di esegeti esperti, non manca chi ancora vorrebbe ritenere che il grido ebraico surriferito non abbia avuto seguito o effetto alcuno. Ma noi ripetiamo che ci pare più serena ed equilibrata la risposta già data da Giuseppe Ricciotti, e ci pare anche sempre più sereno ed equilibrato il giudizio che della medesima ha dato il Lagrange, di cui pure abbiamo fatto cenno. Ai quali giudizi, se non dispiace, aggiungiamo quello di Mons. Emile Paul Le Camus (1839-1906): «Stupefatto e turbato, il Governatore Pilato, quasi non credesse ai propri occhi, rivolse una seconda volta alla folla la domanda a cui essa già aveva risposto con tanto furore: «Che volete dunque che io faccia del re dei giudei, soprannominato il Cristo»? E tutti a una voce: «Alla croce, crocifiggilo»! La politica di Pilato naufragava. Non osando imporre la sua volontà subì quella del popolo da lui consultato. Nondimeno, l'iniquità che gli si chiedeva era così aperta e ributtante, che si sentì in obbligo di resistere ancora: ma, purtroppo, non lo farà che con una viltà sempre più crescente. Spettacolo strano ! Un pagano difende il Messia contro gli ebrei che lo insultano e l'uccidono! Allora, per la terza volta, riprendendo la causa di Gesù, Pilato domandò: «Ma quale male ha fatto? Io non trovo nulla in Lui che sia degno di morte. Lo farò castigare e lo lascerò libero». E tornava così al secondo espediente, menzionato più sopra, ma non ancora posto in esecuzione. La moltitudine già ebbra per l’odore del sangue, vedendo che il Governatore cedeva, si fece ognora più insistente e terribile nel gridare: «La croce! La croce»! A questa recrudescenza di furore, e alle crescenti indecisioni, Pilato comprese che era perduto. Da quel momento, e con tal vicenda di esitazioni e di tentativi che agli Evangelisti sarebbe stato impossibile inventare, la sua anima divenne il teatro di una lotta accanita tra le sue convinzioni e il suo interesse. Domandò dell’acqua, e, lavandosi le mani innanzi al popolo, disse: «Io sono innocente del sangue di questo giusto: esso è affar vostro». A rendere più intelligibili al popolo i veri sentimenti del suo cuore e rigettare ogni solidarietà in tale delitto, Pilato ricorreva ad un segno simbolico, che ognuno doveva comprendere perfettamente, perché era in uso presso gli ebrei (vedi Dt 21, 6). Dal canto suo, la moltitudine, rivendicando per sé nel suo odio cieco la responsabilità declinata dalromano, gridava: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!» è inutile dire - soggiunge l'eminente scrittore - come la sacrilega bravata sia stata intesa ed esaudita da Dio. Il sangue del giusto pesa ancora sui figli dei colpevoli senza che né il tempo, né la moderna civiltà, né lo scetticismo universale abbia potuto toglierne l’indelebile traccia. Con tutte le sue ricchezze, il suo spirito mercantile, la sua energia vigorosa e instancabile, questo popolo, che è sparso ovunque senza regnare in nessuna parte, che possiede ormai tutto l’oro del mondo e non può comperarsi una patria, vive, passa e muore disprezzato, maltrattato, maledetto, come se ancora sulla sua fronte si leggesse scritta in lettere di sangue, quale ragione della sua sventura, la parola «deicidio» 8. A tutto quello che abbiamo detto sulla scorta di scrittori ineccepibili e di autorità pressoché universale, si potrebbe aggiungere ciò che scrive Giovanni Papini (1881-1956) a proposito de «L'ebreo errante». Amiamo invece rimandare il lettore all’opera dello scrittore fiorentino, poiché qui meglio che altrove, apprenderà, come la sventura del popolo ebraico sia veramente l‘effetto della ferocia che esso compì contro il suo Messia, chiedendone la morte di croce 9. Del medesimo parere del resto è l’autorevole esegeta Padre Giacomo Maria Vostè o.p. (1883-1949), già Consultore e Segretario della Pontificia Commissione Biblica. Ecco le sue parole: «Gli ebrei, davvero accecati, chiedono per sè e per i loro posteri le conseguenze giuridiche dell'uccisione del Messia, che pertanto è un delitto del popolo messianico d'Israele. E tutto il popolo disse: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli», che è come dire: «La responsabilità cada su tutta la nazione». Come questa tremenda imprecazione si sia adempiuta e si adempia lo sanno tutti, e lo testimonia il giudeo errante, senza altare, senza templi, in odio ed infamia di tutti, segnato in fronte della maledizione di Caino. «Questa imprecazione sugli ebrei perdura tutt'oggi ed il sangue del Signore grava ancora su di essi» (San Girolamo) 10. Infine, Padre Alfredo Durand s.j. (1858-1928), un altro esegeta, scrive: «E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli». Sappiamo come Dio abbia raccolto questa sacrilega sfida. La leggenda dell’ebreo errante non è che una espressione simbolica della Storia. Come Caino, Aasvero porta in fronte una macchia di sangue che non è ancora riuscito a cancellare» 11. E Otto Hophan annota: «Allora tutto il popolo gridò: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». E avvennero tutte e due le cose: il sangue del Giusto fu sparso per la nostra salute; ma esso discese paurosamente anche a punizione sul popolo ebraico e sui figli suoi lungo tutti i secoli, sino ai nostri giorni» 12.
«E quel sangue, dai padri imprecato,
sulla misera prole ancor cade.
Che, mutata d’etade in etade,
scosso ancor dal suo capo non l’ha».
(A. Manzoni)
Nonostante tutto ciò, in questi ultimi tempi, c'è chi ha saputo scrivere che la nostra interpretazione è «addirittura empia, se va fino a sostenere che non un uomo, e sarebbe già mostruoso affermarlo, ma un popolo intero per secoli e per quanti ancora ne passeranno, è stato votato da Dio (?) al male e al soffrire, non per sua colpa personale, ma per colpa di alcuni pochi (?), che non ne rappresentavano la volontà. è empio perché nega praticamente la bontà e la misericordia di Dio; nega l’amore che Gesù ha per tutti, anche per i suoi uccisori». Dinanzi a simili affermazioni, o meglio aberrazioni, di pensiero e di giudizio, noi vorremmo soltanto tacere, poiché ci sembra che prima di cercare e trovare l’empietà e la mostruosità nel pensiero e nel giudizio dei Santi Padri, Dottori ed Esegeti cristiani, l’una e l’altra cosa si dovrebbe cercare e trovare altrove, in mezzo ad altri tipi di gente. Tuttavia, una breve risposta non possiamo non darla. Ed affinché essa abbia autorità, ed inviti seriamente alla meditazione ed allo studio, la togliamo di peso dalle pagine di un grande apologeta del secolo III dell'era cristiana. A Marcione (ca 85-160), eretico gnostico di quel secolo, il quale, come pare, si scandalizzava anch’egli per il castigo che era piombato addosso al popolo ebraico, così lanciava un invito il grande Tertulliano (160-220): «Se tu prendi, o Marcione, fra le mani il Vangelo della verità, conoscerai subito di chi sia la frase che trasferisce sui figli il delitto dei padri. è, cioè, di coloro che applicarono a sè stessi ben volentieri questa sentenza: «Il suo sangue cada su di noi e su i nostri figli». La Provvidenza di Dio, dunque, non fece che registrare ciò che aveva ascoltato. Quella sentenza - «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» - non fu sentenza di Cristo, bensì dei giudei, i quali sottomisero sè stessi e i loro figli a tale castigo. Iddio, tuttavia, sottoscrisse la sentenza dei giudei, tale quale l’aveva ascoltata dalla loro bocca; ma non fu Lui a pronunciarla. La Provvidenza divina ratificò soltanto ciò che altri avevano detto. Nessuna pena, nessun castigo viene da Dio. Sono gli uomini che si procurano pene e castighi e se li trascinano dietro» 13. Dunque, a dire il vero, non è Dio che «ha votato - com'è stato scritto - un popolo intero per secoli e per quanti ancora ne saranno, al male e al soffrire»; è, invece, proprio quel popolo che si è votato da sé alla pena e al castigo, commettendo ed assumendosi la responsabilità del delitto orrendo del deicidio. Nell‘economia divina appare quindi come Dio rispetta sempre la libertà di ogni singolo uomo, come di ogni popolo e di ogni nazione nella scelta del proprio destino. Aggiungiamo soltanto che poiché «i figli degli ebrei», non erano sulla piazza di Gerusalemme a decidere del proprio destino, «quantunque tale pena - come osserva San Giovanni Crisostomo (ca 345-407) - fu imprecata dai giudei sopra sè stessi e sopra i figli, tuttavia il misericordiosissimo Iddio mitigò quella sentenza, applicandola soltanto agli increduli, e risparmiando i fedeli». «Il misericordiosissimo Gesù - scrive il santo Dottore - nonostante che i giudei impazzissero sia contro sè stessi che contro i loro figliuoli, non volle condannare tutti, secondo la loro sentenza. E così, sia tra loro che tra i loro figliuoli scelse molti, i quali si pentirono ed ebbero da Lui favori e doni copiosi. Fu, infatti dei loro Paolo, e quelle molte migliaia, che a Gerusalemme accolsero la fede dei quali parlano gli Atti Apostolici» 14. Nessuna empietà dunque, e nessuna mostruosità né in Dio né in altri; purché si comprenda bene la verità e si capisca in qual senso e per qual motivo la giustizia divina punisce il popolo ebraico, il quale da sé si assunse la responsabilità della morte dell’Unigenito del Padre. Furono puniti i giudei, uccisori di Cristo; saranno puniti i loro figli, sui quali i padri invocarono la punizione; ma soltanto se questi figli solidarizzeranno con i medesimi padri e non si convertiranno, e continueranno nella stessa ribellione contro Cristo, pietra angolare del nuovo edificio. Più di questo Dio stesso non poteva fare se è vero che ogni uomo, come ogni popolo e ogni razza, deve rimanere arbitro del proprio destino. E tutto questo e soltanto questo Egli fece e continua a fare nella Sua infinita bontà, che non può tuttavia prescindere mai dalla Sua infinita giustizia. Quindi, in tutta questa complessa e dolorosa vicenda del giusto castigo che pesa sul popolo ebraico, uccisore di Cristo, e sui figli del medesimo, non ha alcuna importanza stabilire - come fa il Caprile in due articoli di Palestra del Clero (settembre-dicembre 1960), se al tempo di Cristo era ancora in vigore la cosiddetta legge della responsabilità collettiva, oppure quella della responsabilità individuale. Infatti, non si dice che i figli degli ebrei nascano maledetti o in peccato, per il semplice motivo che sono di razza ebraica. Si dice soltanto che, ostinandosi di fatto nella stessa cecità degli avi, sintanto che rimangono in questo atteggiamento, cadono nelle stesse pene dei padri. In breve: i figli vengono puniti soltanto, se persistono nell’accecamento e malizia di coloro che si assunsero la responsabilità della morte di Cristo. Che poi, di fatto, la razza ebraica, nel suo insieme, rimanga così ostinata - anche dopo che Cristo ha dato un nuovo corso alla Storia e un nuovo volto al mondo - è un tal mistero che non si riesce facilmente a spiegare. Tuttavia, non pare troppo azzardato vedere in ciò una punizione di quello stesso enorme delitto che i padri commisero e non cessa di pesare sulle spalle dei figli, che in qualche modo hanno affinità con i medesimi. Tutto questo però sfugge evidentemente all’indagine umana, la quale non può che registrare il fatto, e stare contenta «al quia». (cfr. D. Alighieri, Purgatorio, 3, 37).
IL POPOLO ELETTO RIPROVATO PERCHE'
UCCISORE DI CRISTO
Gli argomenti che gli oppositori della nostra tesi portano contro di essa sono di doppio genere: quelli che vorrebbero avere per base la Storia, ossia storici; e quelli che vorrebbero avere per fondamento la Teologia, ossia teologici. I primi argomenti si sogliono addurre ricordando anzitutto che il popolo ebraico ebbe sofferenze anche prima dell'uccisione del Messia, mentre sarebbe ingenuo volere attribuire tutte le sventure del medesimo popolo, dopo quell’uccisione, a tale crimine. Aggiungono pertanto, che non è cosa degna di buoni ragionatori ostinarsi a credere che le stesse sventure dipendono da una maledizione pressoché ipotetica. La risposta a simili insinuazioni non è troppo difficile. Anzitutto, diciamo che non si tratta davvero di una maledizione ipotetica; ma di una maledizione, imprecazione, o voto - come si esprime il Ricciotti - che tutto il popolo e gli anziani, e cioè le guide d’Israele, pronunciarono ufficialmente nell’ora più grave e solenne della loro Storia; questo, se non erriamo, si trova scritto a caratteri ben chiari nel Vangelo. Come abbiamo detto altrove, si tratta di una imprecazione criminale, che un Padre della Chiesa chiama il delitto più orrendo, che potè esser commesso dai padri verso i propri figli. Noi vorremmo perciò che non si trattasse con troppa leggerezza e superficialità una tale questione, che viene riferita dal Vangelo con tanta chiarezza e con la massima precisione. Si tenga presente, per esempio, ciò che pongono in rilievo gli esegeti anche più moderni. Mons. Salvatore Garofalo, per esempio, in Mt 27, 25 annota: «Il suo sangue ricada su di noi sui nostri figli»; così, con un linguaggio tradizionale, gli ebrei si assumono la responsabilità della condanna a morte (di Gesù)». Claudio Zedda, Professore alla Pontificia Università Lateranense, definisce la condanna di Gesù «colpevole ripudio giudaico di Gesù come Messia [...]. L’ostinazione giudaica, dovuta all’incredulità, che impedisce le ulteriori grazie, è causa d’abbandono di Dio» 15. Non neghiamo che Israele ha sofferto anche prima dell’uccisione di Cristo; ma affermiamo, in pari tempo, e senza tema di smentita, con la Sacra Scrittura alla mano, che anche le sofferenze anteriori le ebbe quasi sempre per la sua proverbiale infedeltà e durezza di cuore verso il suo Dio. Per convincersi di ciò, basta leggere i vari Profeti, mandati da Dio a richiamare il popolo israelitico sulla retta via. Su tale argomento però spiccano specialmente tre Profeti: Isaia. Geremia e Sofonia. Basta leggerne i rispettivi moniti, inviati da Dio al popolo ebraico, per mezzo della loro parola. Così, più o meno, si può dire degli altri Profeti. Del resto, chi ha familiarità con i libri del Vecchio Testamento, ed in particolare con il Libro dei Giudici, non stenta molto a riconoscere che Dio, spessissimo, puniva il suo popolo a causa dei suoi peccati e delitti. In quanto alle sofferenze, le quali come si asserisce anche da chi ci contraddice si sono accentuate nei secoli cristiani, diciamo subito che esse, stando ai documenti evangelici e storici, si debbono propriamente attribuire, nel loro insieme, al delitto che fu commesso dai capi e dal popolo ebraico nel chiedere ed esigere la morte di Cristo dal Governatore romano, nonostante che egli più volte ne avesse proclamata l’innocenza. Ciò è decisamente storico. Ed invero, lo stesso Gesù, parlando della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio la fa dipendere dal delitto che gli anziani e il popolo di Gerusalemme stanno per commettere. Ciò è evidente per chi legga con attenzione anche la sola parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21, 33-41; Mc 12, 1-12; Lc 20, 9-16). Dopo aver narrata quella parabola, in cui è detto che i vignaioli omicidi hanno ucciso anche il figlio del padrone della vigna, Gesù domanda: «Che farà il padrone della vigna»?, e conclude: «Il padrone della vigna (cioè Dio, come tutti interpretano) dopo che i vignaioli hanno ucciso il suo figliuolo, verrà e sterminerà i coloni e darà ad altri la vigna». Si legga - se si vuole - la parabola com'è riportata, fra gli altri, da Giuseppe Ricciotti nella sua nota opera Vita di Gesù Cristo (pag. 260, nº 513). Padre Enrico Didon o.p. (1840-1900), a sua volta, scrive: «Gesù, quindi, si volse verso il popolo e come se giudicasse i grandi indegni di intendere la verità, raccontò a tutti con una nuova parabola: ciò che egli era, da dove veniva, qual’era il suo ufficio e quale sarebbe il suo destino. I grandi ascoltavano. «Un uomo, un padre di famiglia, piantò una vigna, la circondò d’una siepe, vi scavò uno strettoio e vi costruì una torre; poi, allogatala ad alcuni vignaioli, partì per un viaggio lontano. E al tempo della vendemmia mandò uno dei suoi servitori per ricevere dai vignaioli la sua parte di frutto; ma essi, afferratolo lo batterono e lo rimandarono a mani vuote. Mandò loro un altro servo. Lo percossero, lo ferirono nel capo, e caricandolo d’oltraggi lo rimandarono a mani vuote. Ancora ne inviò un altro; ed essi l’uccisero. Poi molti altri, ed essi batterono gli uni e uccisero gli altri. E il padrone della vigna disse: «Che farò io»? Avendo un figlio che gli era carissimo, lo mandò a loro per ultimo, dicendo: «Forse, vedendo mio figlio, lo rispetteranno». Ma i vignaioli si dissero l’un l’altro: «Ecco l’erede! Venite, ammazziamolo, e l’eredità sarà nostra». Che farà dunque il padrone della vigna? Verrà, ucciderà questi vignaioli, e darà la vigna ad altri, che gli daranno la sua parte di fruttato a suo tempo». A tali parole quelli, che si sentirono presi di ira gridarono: «A Dio non piaccia»! Come per scacciare questo sinistro presagio. Gesù li guardò facendo un viso severo e minaccioso. «A Dio non piaccia, voi dite? Che vuol dir dunque questa parola del Libro? Non l’avete letta? La pietra gettata via dagli edificanti è divenuta la sommità dell’angolo. Ecco l’opera del Signore; ed è mirabile agli occhi nostri» (Sl 118, 23). Poi disse in termini propri queste parole che illustrano tutta la parabola: «Sì, il Regno di Dio sarà tolto a voi e dato a un popolo che ne produrrà i frutti». E tornando all’immagine della pietra profetica, aggiunse: «Chi cadrà su questa pietra, si fiaccherà; e colui su cui essa cadrà sarà stritolato». Gesù - continua a scrivere lo stesso autore - non poteva esprimere più chiaramente chi Egli fosse e da chi tenesse i suoi diritti. La vigna piantata dal Padre di famiglia, la siepe che la circonda, lo strettoio scavato, la torre di guardia innalzata in mezzo, è Israele, la nazione eletta da Dio con la Legge che la protegge, col suo Tempio ed il suo culto. I vignaioli sono la gerarchia. I servitori inviati alla stagione dei frutti e succedentisi l’uno dopo l’altro, sono i Profeti. Qual destino è il loro! Lo spirito di Dio li riempie e i padroni temporali della vigna invece di accoglierli, di rispondere al loro mandato e di portare ai loro piedi una parte della vendemmia, li prendono, li battono, li feriscono e li rimandano a mani vuote. Il Figlio del Padre di famiglia è Gesù stesso. Egli è al di sopra di tutti i Profeti; il suo titolo è unico e il suo diritto assoluto. Ed Egli viene umile e mite, senz’altra aureola che la divinità velata dall’amore; e ciononostante Egli è il più oltraggiosamente trattato, viene buttato fuori della vigna ed ucciso, come erano stati perseguitati e torturati quanti l’hanno preceduto. Sventura ai vignaioli, infedeli e malvagi! Sventura alla gerarchia colpevole! Poiché ella respinge, perseguita ed uccide quelli che vengono da parte di Dio, poiché non risparmia neppure il Figlio, Dio sta per vendicarsi. Il Regno muterà padrone, e dai giudei sarà trasferito ai pagani: il popolo eletto diverrà il popolo riprovato e le nazioni abbandonate diverranno le nazioni elette» 16.
COME CASTIGO NAZIONALE
L’altra pagina evangelica in cui è descritto ciò che sarebbe avvenuto del popolo deicida, è quella in cui il Maestro divino piange su Gerusalemme e ne annunzia la rovina, proprio perché si è rifiutata di conoscere il giorno in cui Egli l'ha visitata. Ma forse non è superfluo riportare tutt’intera quella pagina, in cui la distruzione di Gerusalemme non solo viene predetta, come vorrebbero i novissimi «esegeti», ma è anche motivata ed annunciata come castigo. Infatti, vi è detto: «Quando fu vicino alla città, la guardò e pianse su di lei dicendo: «O se conoscessi anche tu e proprio in questo giorno quel che giova alla tua pace! Invece ora sono cose rimaste nascoste ai tuoi occhi. Poiché verranno per te giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti circonderanno e ti stringeranno d’assedio da ogni parte, e distruggeranno te e i tuoi figliuoli che sono in te, e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il momento nel quale sei stata visitata» (Lc 19, 41-44). Ed ancora: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli, come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e tu non l’hai voluto. La vostra casa sarà lasciata deserta. Ed io vi dico che non mi vedrete più finché non verrà il giorno in cui direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Lc 13, 34-35). Chi non vede che qui la «domus vestra deserta» non è che il Tempio e la città di Gerusalemme, distrutti per castigo di non aver accolto la visita di Cristo? Di ciò sono convinti tutti gli esegeti. Tra i quali Ricciotti, Padre Didons, Padre Lagrange e lo stesso Giovanni Papini, il quale ne parla lungamente nella nota sua Storia di Cristo. Ecco le sue parole: «Io vi dico che questa generazione non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute». Era l'anno 70 d. C. e la sua generazione non era tutta discesa nelle sepolture, quando queste cose accadevano. Almeno uno di quelli che ascoltavano sul monte degli Ulivi - Giovanni - fu testimone del castigo di Gerusalemme e della rovina del Tempio. Entro il tempo destinato, le parole di Gesù furono ricalcate, sillaba per sillaba, con atroce esattezza, da una storia di sangue e di fuoco. La prima fine, la fine parziale, locale, la fine del popolo deicida è avvenuta. Conformemente alla sentenza di Cristo, le pietre del Tempio sono disseminate tra le macerie e i fedeli delTempio sono morti nei supplizi o dispersi tra le nazioni» 17. Tuttavia, si insiste dicendo che semmai il castigo deve riguardare soltanto i rappresentanti del popolo e non tutta la massa del medesimo; dev'essersi compiuto solo contro coloro che si opposero alla novità apportata da Cristo, e che rappresentavano l’economia religiosa del Patto Antico. Al che è facile rispondere: 1) Tutti quelli che gridarono «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» si opposero, semmai, alla novità - chiamiamola così - rappresentata da Cristo, e perciò tutti vennero anche compresi nel castigo della distruzione di Gerusalemme. 2) Il Vangelo non parla della rovina di pochi (Lc 19, 41) rappresentanti del popolo di Dio, ma addirittura della distruzione totale della città e del Tempio e dei figli di detta città: «Distruggeranno te e i figli con te». D’altra parte, è la Storia che parla: la carestia era tale che - narra Giuseppe ebreo - furono viste le madri uccidere i figli per mangiarli (cfr. G. Papini, op. cit., pag. 404). Ma, meglio di quanti testimoni ed esegeti possiamo ascoltare, ci parla con chiarezza solare, ancora una volta, il Vangelo: «Quando vedrete Gerusalemme circondata d’eserciti, allora sappiate che ormai è giunta la sua devastazione. Quando poi vedrete la desolante abominazione, quella detta da Daniele il Profeta, stare là dove non deve, nel luogo santo (chi legge intenda!), allora quelli che sono nella Giudea fuggano verso le montagne, chi in mezzo ad essa (Gerusalemme) vada in campagna; e chi è nelle campagne, non rientri in essa. Chi sta sulla terrazza non scenda, nè entri a prendere qualcosa dalla sua casa; e chi è nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello. (in queste parole Gesù ammonisce i suoi seguaci). Perché quelli sono giorni di vendetta in adempimento di tutto ciò che fu scritto. Guai alle donne incinte e alle allattanti in quei giorni. Pregate poiché la vostra fuga (parla ai cristiani) non avvenga d’inverno, nè di sabato. Quei giorni saranno infatti di tribolazione grande quale non avvenne simile dal principio della creazione del mondo che Dio creò fino ad ora, ne vi sarà. Sarà grande la carestia sulla terra e l'ira su questo popolo, e cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani, finché non siano compiuti i tempi delle nazioni» (vedi P. Vanetti, op. cit., pag. 248, n. 245). Come è evidente, il Vangelo non si riferisce soltanto ad un castigo parziale dei capi, ma all’ira, alla vendetta e al castigo che sarà fatto di tutto un popolo (cfr. Mt 24, 15-20; Mc 13, 14-23; Lc 21, 20-24). Intorno alla a distruzione di Gerusalemme, come castigo del popolo di quella città e della nazione ebraica, ecco perciò quanto scrive l'esegeta Mons. Francesco Spadafora: «Nella giornata del martedì santo, Gesù ha concluso la sua condanna contro i farisei (Mt cap. 23) con la minacciosa profezia: «Ecco, vi si lascia la vostra casa deserta» (Mt 23 3); punizione severa, espressa chiaramente due giorni prima, nel suo ingresso trionfale in Gerusalemme (Lc 19, 41-44; Lc 13-34 e ss.} e si realizzerà su quella stessa generazione» (Mt 23, 36). E altrove: «In quel castigo, tutti riconoscono la manifestazione della giustizia e della potenza divina del Messia (Mt 30-6; Mc 26, 11; Lc cap. 27), e sarà un lutto generale per la gente giudaica che dovrà riconoscere di essere stata colpita per la crocifissione di Cristo (Mt cap. 30). La distruzione di Gerusalemme e la fine della nazione ebraica sarà un bene per la Chiesa nascente. Essa verrà liberata dalla fanatica e perseverante persecuzione della Sinagoga (Lc cap. 28) e si diffonderà mirabilmente per tutto l’impero romano e per tutta la terra» (Mt 31; Mc 27, 4; Lc 31) 18. Nota perciò giustamente Ferdinando Prosperini: «Alcune volte, la sensazione collettiva che colpisce un delitto collettivo è così chiara e così pronta che per negarla bisogna chiudere gli occhi innanzi all’evidenza. è il caso in cui si riferisce il brano evangelico della scorsa Domenica, ultima dopo la Pentecoste: il rifiuto di Israele che aveva chiamato sopra il suo capo il Sangue dell'Innocente fu il delitto di un popolo; l‘epilogo spaventoso che travolse nelle rovine fumanti del Tempio ogni resto di libertà e l’esistenza stessa Israele come nazione, fu il castigo di un popolo; sanzione più evidente, quanto più chiaramente annunciata» 19. «Gesù - scrive infine Padre Enrico di Rovasenda - piange su Gerusalemme, perché della città santa che aveva conservato nel Tempio il culto del vero Dio non rimarrà pietra su pietra. La distruzione di Gerusalemme fu una delle azioni più violente accadute nella Storia, una delle azioni in cui è più evidente il contenuto di un tremendo giudizio spirituale. Quella distruzione fu come un preannuncio della fine del mondo, il monito esemplare di un giudizio che sterminerà il peccato ovunque si annida, anche nelle tracce che lascia fra pietra e pietra. Gesù annunciò il motivo della giustizia: «[...] perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta». Dio aveva visitato la città santa con i Profeti e da ultimo l’aveva visitata con il Suo Figlio incarnato; ma i giudei, dopo aver ucciso i servi del Signore, ora si preparavano a crocifiggere il Figlio. I giudei commisero il peccato che contiene tutti gli altri: il rifiuto di Gesù Cristo. Chi respinge Gesù commette il massimo affronto a Dio, e prepara ogni peccato, perché chi si pone contro Gesù, non può che bestemmiare ed avversare ogni bene» 20. Giunti a tale conclusione, potremmo ben dire: «Satis de hac quaæstione» («e di ciò si è detto abbastanza») poiché nessun dubbio può sussistere nella mente di chi voglia tener conto della Storia, prima annunciata e quindi compiuta, in conformità precisa alla parola di Cristo, sulla distruzione di Gerusalemme e sui motivi della medesima. Tuttavia, non riusciamo a sottrarci alla tentazione di registrare ciò che è scritto in proposito nel Dizionario Biblico diretto dallo stesso Mons. Spadafora alla parola «Escatologia»: «Tenendo presenti le immagini adoperate dai Profeti per indicare il «giorno del Signore» o la manifestazione della giustizia divina contro i nemici del suo regno, si spiegano con facilità Mt 10, 23; 26, 63 e ss.; Lc 22, 69; e finalmente Mt 24, 3 (parusia); essi parlano della «venuta di Cristo» per punire la Sinagoga persecutrice, i giudei deicidi. Si tratta della distruzione di Gerusalemme, la manifestazione più clamorosa del Messia Giudice e supremo vindice dei suoi fedeli» (cfr. P. G. Lagrange, Evangile selon S. Mt., 4ª ed., 1927, pagg. 205, 207 e ss.; Prat, Iésus Christ, II, pag. 349). In Mt 16, 27 e ss. si parla dell’affermazione o dello stabilirsi della Chiesa, con l’immagine adoperata da Dn 7, 13 e ss., «venuta del Figliuolo dell’uomo»; «venuta del regno di Dio», Lc 9, 26 e ss., come organizzazione esterna, definitivamente distinta dalla Sinagoga (P. G. Lagrange, S. Mt., pag. 233; Ev. selon S. Lc., 269 e ss.; v. dimostrazione in F. Spadafora, Gesù e la Fine di Gerusalemme, pagg. 17 e ss, 25 e ss.). Quindi, da una parte il castigo dei giudei, specialmente nella distruzione di Gerusalemme (Dio interviene per punire), e dall’altra, protezione e trionfo della Chiesa (intervento a favore). Questi due aspetti della «venuta del Signore», sono congiunti nei due grandi vaticinî sulla fine di Gerusalemme: Lc 17, 20-18; Mt cap. 24; Mc cap. 13; Lc cap. 21. In Lc cap. 17, Gesù preannuncia ai discepoli le persecuzioni che li attendono dopo la sua morte. Essi allora invocheranno l’intervento del Salvatore («Verrà il tempo quando desidererete vedere uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo...» v. 22), che dimostra senza dubbio trattarsi di interventi di Gesù per punire i persecutori e liberare i suoi fedeli. Ebbene, il Signore interverrà, e in modo particolare «nel suo giorno», nel grande giorno (la distruzione di Gerusalemme) su cui qui si ferma (17, 25-30), e sul quale ritornerà nell’altro discorso (Mt cap. 24 e passi paralleli). Agli Apostoli che chiedono dove s’abbatterà il castigo, Gesù risponde con una frase proverbiale (Gb 29, 30): la preda è Gerusalemme su cui si abbatteranno gli avvoltoi (ossia le legioni di Roma; cfr. Mt. 24, 28; cfr. L. Tondelli, Gesù, Torino, 1936, pagg. 364-368). In Mt cap. 24 e passi paral., il divin Redentore inizia col predire la totale distruzione del Tempio e pertanto della capitale. I discepoli chiedono quando essa avverrà e quali segni la precederanno. è la fine di un mondo, quello ebraico, l’era del Vecchio Testamento e non la fine del mondo» 21. Ecco, pertanto, come riassume tutta la scena terrificante del ben noto grido blasfemo in sé e nelle sue estreme e rovinose conseguenze, un insigne esegeta: «Finalmente, Pilato, vedendo che nulla guadagnava presso quei cuori di macigno e che il tumulto andava ingrossando, prese dell’acqua e lavandosi le mani in pubblico, protestò che egli era innocente del sangue di quel giusto e che ne lasciava loro la responsabilità (Mt 28, 24). La turba a tale proposta prese a urlare: «Il suo sangue cada su di noi e sui figli nostri» («Respondens universus populus dixit: «Sanguis eius super nos et super filios nostros» v. 25). Pilato, allora, messo in libertà Barabba e fatto flagellare Gesù Cristo lo consegnò loro perché lo crocifiggessero: «Iesum autem flagellatum tradidit eis ut crucifigetur» (v. 26). I ciechi giudei gridano: «Il suo sangue cada sul nostro capo e sul capo dei nostri figli» («Sanguis eius super nos et super filios nostros»), ed ecco ormai duemila anni, dacché il sangue di Gesù Cristo, sparso per la salvezza del mondo, imprime sulla fronte dei giudei l’obbrobrio e la maledizione. Gerusalemme giace distrutta; la nazione ebraica è senza Re e senza capitale, non ha più nè legge nè tempio, nè sacrifici nè profeti, nè leviti; i suoi figli errano dispersi per l’universo, oggetto di scherno e di abominazione a tutti i popoli; portano sempre e dovunque l’impronta di Caino; curvano la testa sotto la riprovazione di Dio e la maledizione degli uomini; somigliano ad un corpo slogato, fatto a pezzi e disperso. Mostrano a tutte le famiglie del genere umano e a tutti i secoli, il loro deicidio, il castigo che ne fu la conseguenza e la vendetta che Dio ha preso della morte del Figliuolo suo. O giudei, voi gridaste: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli»! I vostri voti inspirati da un furore infernale si compiono... All’assedio di Gerusalemme, gli ebrei spinti dalla fame, fuggivano da una città che diventava la loro tomba; per ritenerveli e costringerli a sottomettersi, Tito ne mandava al supplizio della croce più di cinquecento al giorno, di maniera che, dice lo storico Giuseppe, mancarono ai Romani e le croci e lo spazio dove innalzarle. Chi non ravviserà in questo fatto un giusto castigo della crocifissione di Gesù Cristo? Voi gridaste, o giudei: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli»! Orbene, che cosa sei tu divenuto, o popolo, che altre volte eri il popolo di Dio e la nazione santa? Tu, da cui erano usciti i Patriarchi e i Profeti; tu che vedesti tanti miracoli e che possedevi le tavole della Legge, l’arca dell’alleanza il tempio del vero Dio; tu, nel cui seno nacquero Maria, Gesù, gli Apostoli, dove ti trovi ora? Che ne è di te? Vedi l’enormità del tuo delitto e l’espiazione che ti fu imposta!... Ascolta, o disgraziato quello che Davide, uno dei tuoi Re, ha predetto: «Si oscurino i loro occhi affinché non vedano; curva, o Signore, il loro dorso sotto una servitù perpetua» («Obscurentur oculi eorum ne videant, et dorsum eorum semper incurva»; Sl 68, 24). Versa su di loro la tua collera, e il furore della tua ira li investa; la loro dimora sia deserta, non vi sia chi abiti sotto il loro tetto. Permetti che aggiungano iniquità a iniquità, e non divengano mai giusti agli occhi tuoi. Siano i nomi loro cancellati dal libro della vita e non ottengano posto in mezzo ai giusti. Perché perseguitarono Colui che tu hai percosso, e aumentarono il dolore delle sue piaghe» (Sl 68, 25-29). Ascolta o popolo indurito, quello che dice Daniele, uno dei tuoi più grandi profeti: «Il Cristo sarà messo a morte e il popolo che deve rinnegarlo non sarà più suo popolo. Verrà un popolo con a capo un duce il quale distruggerà la città e il tempio e terminerà la sua opera col mettere ogni cosa a ferro e fuoco; dopo la guerra succederà la desolazione che è stata stabilita. L’oblazione ed il sacrificio cesseranno: l’abominazione della desolazione sarà nel Tempio, e vi rimarrà fino alla consumazione e alla fine» (Dn 9, 26-27). Ascoltate ancora Osea, anch’egli tra i vostri Profeti: «I figli d’Israele resteranno lunghi giorni senza Re e senza principi, senza sacrificio e senza altare, senza ephod e senza teraphim» (Os 3, 4). «Il mio Dio li rigetterà perché non l'hanno ascoltato e saranno dispersi in mezzo alle nazioni» («Abiiciet eos Deus meus, quia non audierunt eum, et erunt vagi in nationibus»; Os 9, 17). Né meno chiaro è quello che disse il Salvatore; narra infatti San Luca che Gesù avvicinandosi a Gerusalemme, appena la vide ruppe in pianto e disse: «Ah se tu conoscessi almeno quest’oggi quello che conforterebbe alla tua pace! Ma ora queste cose stanno nascoste ai tuoi occhi. Verranno giorni su di te, nei quali i tuoi nemici ti cingeranno di assedio e tutt’intorno ti stringeranno in modo da chiuderti ogni sbocco, e ti getteranno a terra insieme con i tuoi figli che saranno nelle tue mura e non lasceranno di te pietra sopra pietra perché non hai conosciuto il tempo in cui ti ho visitata» (Lc 19, 41-44). Gridate ora o deicidi: «Il suo sangue cada sopra il nostro capo e sul capo dei nostri figli»!... Ugo da San Vittore fa parlare così il popolo ebreo: «Noi gli abbiamo volto le spalle. Egli non ci ha fatto altro che del bene e mentre pregava per noi l‘abbiamo crocifisso. Noi abbiamo udite le sue parole e siamo stati colmati dei suoi benefici; abbiamo assistito da testimoni ai grandi e numerosi prodigi da lui pubblicamente fatti; ma abbiamo calpestato i suoi avvertimenti, ci siamo dimostrati ingrati ai suoi benefici e beffati dei suoi avvertimenti, ci siamo dimostrati ingrati ai suoi benefici e beffati dei suoi miracoli. Lo abbiamo inteso allorché ci istruiva sul monte, ma siamo passati turandoci le orecchie; di qui le disgrazie che soffriamo. Lo abbiamo veduto nutrire la folla che lo seguiva, ma ce ne siamo risi; di qui la triste nostra condizione. L’abbiamo veduto confitto in croce, ma l'abbiamo bestemmiato e maledetto; di qui il nostro terrore e la nostra rovina. Abbiamo inteso la sua dottrina e sappiamo che essa portava la vita, ma noi abbiamo scelto la morte. Le sue istruzioni dissipavano le nostre tenebre, ma noi abbiamo scelto la morte. Le sue istruzioni dissipavano le nostre tenebre ma noi abbiamo ricusato di prenderle per guida. Egli ci offriva la salute e la vita, e noi ci siamo rifiutati all’una e all’altra. La sua morte ha risuscitato i gentili; ma a noi, che eravamo il suo popolo, questa morte, opera nostra, ha impresso indelebile il marchio della riprovazione» (De Anima). «Ah sì - dice San Girolamo - l'imprecazione ha avuto il suo effetto: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli»: lo ha ora e lo avrà fino alla fine. Il Sangue del Signore scorrerà sempre su di loro. Questo Sangue, come dice il Re Profeta, fa pesare sopra di essi un obbrobrio eterno: «Opprobrium sempiternum dedit eis» (In Daniel)» 22.
Oltre al fondamento storico, di cui abbiamo parlato, gli oppositori della verità che ritiene certo il castigo nel caso della distruzione di Gerusalemme, si professano convinti che non vi è neppure un fondamento teologico; poiché, altrimenti si dovrebbe ammettere che Gesù, il quale ha comandato ai Suoi seguaci di perdonare ai nemici, Egli stesso non avrebbe posto in pratica questo comandamento (Mt 6, 12; 14, 15). Se ciò fosse - aggiungiamo noi - sarebbe veramente grave. Ma soltanto sospettarlo, a noi, appare sacrilego. Che Gesù, dal canto Suo, abbia perdonato, non vi è dubbio alcuno; anzi, noi sappiamo che oltre al perdono, Egli ha invocato per i Suoi nemici persino una scusante, chiamandoli ignoranti e inconsapevoli del loro atroce delitto (Lc 23, 34). E Padre Gaetano Maria da Bergamo o.f.m. (1672-1753) nel suo notissimo lavoro dal titolo Pensieri ed affetti sulla la Passione di Cristo per ogni giorno dell'anno, impiega ben tre meditazioni su questo argomento (nn. 333-335), nelle quali rileva, con profondità di pensiero e nella luce di testi biblici e patristici abbondanti, come Gesù in tal caso, esercitò eroicamente la Sua carità verso i propri nemici. Quindi, Cristo, non solo ha osservato ciò che ha comandato ai Suoi seguaci, ma l’ha osservato in modo tale che soltanto Egli poteva farlo: eroicamente, cioè, divinamente 23. Non è quindi il perdono di Cristo che è mancato e di cui si possa discutere. Si tratta, al contrario, del pentimento e del ravvedimento dei Suoi nemici, i quali, scelsero liberamente il delitto del deicidio, di cui mai, come popolo e nazione, chiesero perdono tornando a quel Cristo che pure si è immolato per l'universo intero, e perciò anche per essi. E tutti sanno che per cancellare il peccato e sfuggire al castigo che al medesimo inesorabilmente si deve, non basta la clemenza e la bontà infinita di Cristo e di Dio Padre; è necessario che la volontà umana si converta alla volontà divina, e, con dolore e pentimento adeguato alla gravità della colpa, ne chieda perdono. Ora, ciò non solo non avvenne sotto la croce, ove i nemici di Cristo continuarono a gridargli: «Se vuole che crediamo in Lui scenda dalla croce» (Mc cap. 15), ma neppure dopo, quando seppero che Egli era veramente risorto; poiché allora più che mai si ostinarono nel loro peccato e, aggiungendo delitto a delitto, si misero a perseguitare gli Apostoli e quanti in Cristo mostrarono di credere, flagellandoli nelle loro sinagoghe, come Cristo stesso aveva predetto, e proibendo loro di parlare di Colui che essi avevano crocifisso, con la pretesa di toglierlo per sempre dalla terra dei viventi come aveva già previsto il Profeta. Così lapidarono Stefano, il quale pure, mentre pregava affinché fossero perdonati, non mancò di rimproverarli come uomini di dura cervice e sempre ostinati contro le mozioni dello Spirito Santo (At 7, 1-59). Ed allora chi non sa che perdonare non si può a chi non si pente - direbbe Dante - «per la contraddizion che nol consente?» 24. Ancora un'osservazione. Per negare che le persecuzioni del popolo israelitico e principalmente la distruzione di Gerusalemme abbiano carattere punitivo e siano un meritato castigo, dovuto al peccato del deicidio, si afferma che «anche i cristiani sono stati sempre perseguitati e lo sono ancora, purtroppo, ora qua ora là, con forme diverse, ma sempre crudeli e costanti; e tuttavia nessuno dice che essi sono maledetti da Dio...». Ma è ovvio rispondere a tale insinuazione, facendo osservare che è propriamente Cristo che prevede le persecuzioni dei cristiani e ne adduce la causa dicendo che esse si devono alla fedeltà che gli stessi cristiani terranno al Suo nome («propter nomen meum»; Lc 21, 19), mentre è ancora lo stesso Gesù, il quale, parlando della distruzione di Gerusalemme dice: «Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi i mandati a te, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali, e non hai voluto! Ecco vi sarà lasciata deserta la vostra casa» (Mt 23, 37-38), «perché non conoscesti il tempo della tua visita» (Lc 19, 44).
In questa preghiera di Cristo vi è la prova più evidente, come abbiamo rilevato, che Gesù ha pregato affinché i Suoi nemici fossero perdonati dal Padre celeste. Ma non è altrettanto certo che essi abbiano ottenuto il perdono, chiedendolo e pentendosi del loro orrendo peccato. Dinanzi a questa preghiera di Cristo si convertì anche uno dei ladroni crocifisso alla Sua destra; ma non quello giustiziato alla Sua sinistra... Prendendo occasione dalle parole «perdona loro perché non sanno quello che fanno», vi è chi ferma l’attenzione sulla frase «non sanno», e si domanda: «Chi è che non sa»? E pare a lui che nessuno o quasi nessuno di coloro che erano intorno alla croce seppero chi fosse veramente Cristo. E perciò tutti o quasi tutti ignoranti, e quindi scusabili e inconsapevoli del loro delitto. Infatti, Cristo non fu conosciuto dai soldati romani, «inconsci esecutori di ordini ricevuti». Non lo conobbe Pilato, il quale aveva appena sentito parlare di Cristo e delle Sue colpe e, pur ritenendolo giusto ed onesto, forse lo scambiò per un qualsiasi ebreo ricercatore di verità. Non lo conobbe la folla, che era intorno alla croce e che aveva chiesto, invocando su di sé il Suo Sangue, la crocifissione di Cristo; e non lo conobbero neppure i capi del popolo; i quali, appunto per la Sua affermazione di essere Figlio di Dio, ne avevano chiesto la morte dinanzi al giudice Pilato. E così tutti ignoranti e, diciamolo pure: tutti innocenti! Se si dovesse accedere a tale ipotesi, ci sarebbe subito da domandarsi: ma allora la preghiera di Gesù che valore avrebbe dovuto avere? E quale eroismo sarebbe stato quello di un morente nel chiedere il perdono per i suoi uccisori innocenti? La verità quindi dev’essere ben altra. Che Cristo non l’abbiano conosciuto perfettamente i soldati romani, passi...; che non l’abbia conosciuto perfettamente Pilato, quantunque sentisse che qualche cosa di divino si doveva nascondere in quel misterioso Giusto di cui lo avvertì anche sua moglie, Claudia Procula, passi pure; che non l’avesse conosciuto la folla dubito assai, poiché si tratta di quella folla, di quel popolo in mezzo al quale Egli visse e predicò per tre anni. Si tratta di quella folla e di quel popolo, di cui guarì molti infermi e sfamò per ben due volte col prodigio della moltiplicazione dei pani; si tratta di quella folla e di quel popolo, che pochi giorni prima lo aveva acclamato Messia, insieme ai suoi fanciulli, e a molti convenuti a Gerusalemme nell’imminenza della Pasqua... Che non lo conoscessero, o meglio, che Cristo non si sia fatto conoscere sufficientemente e luminosamente ai capi religiosi d’Israele, deve assolutamente negarsi. Più volte, infatti, Cristo aveva affermato la Sua messianità e divinità dinanzi a loro. E non l’aveva affermata soltanto con parole. L’aveva affermata implicitamente con i Suoi prodigi inauditi, come, per esempio nella guarigione del cieco-nato e nella resurrezione di Lazzaro. Ma vi è ancora di più: poiché essi si ostinavano a chiudere gli occhi dinanzi alla luce del sole, Cristo, vista la loro malvagia ostinazione, disse chiaramente, di essere il Messia e il Figlio di Dio. Tuttavia, affinché su questo punto non si abbia alcun dubbio, è opportuno riferire per intero quello che avvenne tra Gesù e i giudei. Poiché gli contestavano che Egli fosse Dio, gli si fecero d’attorno e gli chiesero: «Fino a quando terrai sospeso il nostro animo? Se tu sei il Cristo, dillo a noi chiaramente». Gesù rispose loro: «Ve lo dico e voi non credete; le opere che faccio nel nome del Padre mio rendono testimonianza. Ma voi non credete, perché non siete delle mie pecorelle. Le mie pecorelle ascoltano la mia voce; io dò loro la vita eterna; esse non periranno in eterno e nessuno me le strapperà di mano. Ciò che il Padre mio mi ha dato, è da più di ogni cosa e nessuno può rapirlo dalle mani del Padre mio. Io ed il Padre siamo uno». I giudei presero allora delle pietre per lapidarlo. Gesù disse loro: «Io vi ho fatto vedere molte opere buone del Padre mio; per quale di queste opere mi volete lapidare»? I giudei risposero: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia, e perché essendo tu un uomo, ti fai Dio». Gesù replicò loro: «Non è forse scritto nella vostra legge: «Io ho detto voi siete dèi»? Ora, se essa chiama dèi coloro ai quali la parola di Dio è stata diretta e la Scrittura non può essere annullata, a quello che il Padre santificò e inviò nel mondo, voi dite: «bestemmi»! Perché ho detto: «sono Figlio di Dio»? Se non faccio le opere del Padre mio, non credete in me, ma se le faccio e non volete credere a me, credete alle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre» (Gv 10, 24-38). Ed è tanto evidente questa dimostrazione della divinità, che Gesù fece di Sé, che molti vennero a Lui e dicevano: «Giovanni non fece alcun prodigio. Ma tutto quanto Giovanni ha detto di costui, era vero. E molti credettero in lui» (Gv 10, 42).
Forse perché qualcuno può chiudere gli occhi dinanzi al sole si potrà dire che egli ignori la luce di quel mirabile e luminoso astro? Gli ebrei rimasero bensì nelle tenebre; seppure vi rimasero; ma certamente per colpa e ostinazione loro personale e perché, come dice lo stesso divin Maestro: «Amarono più le tenebre che la luce per nascondere la malvagità delle loro opere» (Gv 3, 19). Dunque, chi mai potrebbe scusare tale ignoranza ostinatamente voluta? D'altra parte, se si giungesse a dire che nessuno conobbe Gesù, quale veramente Egli era, incolpevolmente, sarebbe lo stesso che dire: Egli non provò mai sufficientemente né la Sua messianità, né la Sua divinità; e giustamente perciò fu ucciso da chi ignorava ciò che egli soltanto temerariamente avrebbe affermato. Sarebbe enorme e vacillerebbe lo stesso fonciamento di tutta l’apologetica cristiana. Si deve dire, invece, che Egli mostrò, come abbiamo visto col Vangelo alla mano, chi Egli era: il Figlio di Dio, cioè in tutto uguale, come si espresse, al Padre che è nei cieli 25. Ma i giudei chiusero gli occhi, perché l‘invidia, come rilevò più volte Pilato, e le altre passioni li resero ciechi volontariamente dinanzi alla luce. Su ciò sono d’accordo tutti, con a capo San Tommaso d'Aquino (1225-1274), il quale scrive: «Omnia enim signa videbant in eo quae dixerunt futura Prophetae [...] videbant enim evidentia signa divinitatis ipsius, sed ex odio et invidia Christi ea pervertebant; et verbis ejus quibus se Dei Filium fatebatur, credere noluerunt» (cfr. Summa Theologiæ, 3 p., qu. 47, art. 5). A questo proposito, si potrebbe anche consultare il nostro Padre da Bergamo, (op. cit., pag. 234), nella quale è chiaramente rilevato come gli ebrei furono ciechi per colpa loro. Per questo i moralisti conoscono ed insegnano che esiste una duplice ignoranza: una invincibile, e quindi incolpevole; l’altra vincibile e perciò colpevole, grassa, supina o, come dicono, affettata. Ma è evidente che i giudei erano ignoranti come afferma lo stesso San Tommaso, soltanto per ignoranza vincibile, supina, grassa affettata, e perciò colpevole. Quindi, non si fa loro nessuna ingiuria, se vengono chiamati deicidi, poiché hanno ucciso Colui che si era dichiarato ed aveva dimostrato di essere vero Dio e vero uomo (vedi i moralisti e rileggi il Vangelo in proposito; cfr. Le Camus, Vita di Gesù Cristo, vol. 3 pagg. 270-271; G. Papini, Storia di Cristo, vol. pagg. 404-405, ed altri che hanno scritto su tale questione). Il paragone infine che si fa dicendo che i giudei hanno ucciso Gesù, come i greci uccisero Socrate, gli americani Abramo Lincoln, gli italiani Umberto I di Savoia 26, è del tutto ridicolo e senza alcuna consistenza logica. Prescindendo infatti che l’autore di simile ravvicinamento e confronto ha soltanto il merito minimo invero di aver copiato e ampliato quanto aveva già scritto l'ebreo J. Klausner, cristianamente compatito da Padre Vosté (op. cit., pagg. 141-142 n. 1), né il popolo greco fu promotore della morte di Socrate, nè G. Booth uccise Lincoln chiedendone il permesso agli americani, né Bresci si mise in combutta con gli italiani per uccidere il «Re buono». è vero, invece, proprio il contrario: e cioè che Booth a causa del suo delitto fu fucilato e Bresci condannato all’ergastolo, con pieno plauso del popolo americano e italiano. Come perciò si siano potuti arzigogolare simili raffronti non si riuscirà mai a capire pienamente. Del resto, né Socrate, né Lincoln, né Umberto I di Savoia sono in alcun modo paragonabili a Cristo, il quale, oltre ad essere stato preannunciato al popolo ebraico molto tempo prima per mezzo dei Profeti, provò con schiacciante evidenza la Sua missione divina di Messia e la Sua infinita dignità di Figlio di Dio venuto tra gli uomini per redimerli dal peccato e dalla schiavitù di Satana. A tale scopo, Egli più volte, come abbiamo rilevato, invitò i Suoi nemici a rileggere e meditare quelle stesse Sacre Scritture, nelle quali essi riponevano tutta la loro speranza e salvezza. Diceva infatti, come riferisce San Giovanni: «Voi scrutate le Scritture, perché pensate di trovare in esse la vita eterna; ora, esse mi rendono testimonianza, eppure voi non volete venire a me per avere la vita» (Gv 5, 39-40). «Se non fossi venuto e non avessi parlato, non avrebbero colpa; invece non hanno scusa al loro peccato. Chi odia me, odia il Padre mio. Se non avessi fatto fra loro opere che nessun altro ha fatto, non avrebbero colpa; ma ora le hanno vedute, e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo è avvenuto perché si adempisse la parola scritta nella loro legge: «Mi hanno odiato senza ragione» (Gv 15, 22-25).
CHI HA, DUNQUE, UCCISO CRISTO?
Per noi non esiste nè può esistere dubbio alcuno: Cristo lo hanno ucciso i giudei. Ma i nostri oppositori, poiché Gesù nell’orto del Getsemani disse: «Ecco, è giunta l’ora e il Figlio dell’Uomo è consegnato nelle mani dei peccatori» (Mc 14, 41), credono di potersela cavare affermando: «Poiché siamo tutti peccatori, l’abbiamo ucciso tutti». Ma qui, d’un tratto, si passa dall’ordine storico a quello morale e mistico. è vero che tutti siamo peccatori e che, come tali, abbiamo partecipato alla morte di Cristo, il quale è venuto sulla terra propriamente per salvare i peccatori, ed è morto per i peccatori, non può dubitarsi; ma non può affermarsi neppure che tutti i peccatori lo hanno ucciso di propria mano o lo hanno condotto a Pilato e ne hanno chiesto con insistenza la morte. Ed infatti, una cosa è dire che Cristo è morto per salvare tutti i peccatori; un'altra è dire che tutti i peccatori l’hanno ucciso, spingendo forsennatamente Pilato a condannarlo a morte e a rilasciarlo nelle loro mani, ed in balìa della loro volontà perversa, prepotente e sanguinaria, la quale più volte ne richiese il supplizio della croce... Che sia morto per i peccatori, è una verità così comune nella fede dei cristiani, che non vale neppure la pena di provarla con i testi biblici, ben noti, del Profeta Isaia (Is 53, 4-5), e con l’autorità di San Paolo (Rm 5, 5-8), e con altre testimonianze, che abbondano nei Libri Santi e in tutta la letteratura cristiana dogmatica e morale e ascetico-mistica. Ma la questione, come abbiamo accennato, è ben altra, e bisogna che venga posta così: chi ha procurato storicamente, sollecitandola con ogni mezzo e ricorrendo perfino alla minaccia di accusare Pilato davanti all’Imperatore e movendo la sedizione popolare, la morte di Cristo? Posta in tal modo, la domanda, non può avere che una risposta: soltanto i giudei sono stati causa della morte di Gesù. E difatti, furono essi a perseguitarlo e ad insidiarlo in ogni modo, durante tutta la Sua vita, interpretando diabolicamente i Suoi prodigi più strepitosi; furono essi che si ostinarono a non vedere la luce che emanava dalla parola e dalla vita di Cristo. Furono essi che si servirono di Giuda per catturarlo nell’orto di Getsemani; furono essi ad inviare la sbirraglia nella notte fatale. Essi lo condussero attraverso i tribunali; essi ne chiesero ripetutamente ed insistentemente la morte, sollevando il popolo contro di Lui e minacciando il giudice Pilato. Tutto questo è storico e s’impone come un assioma matematico a chiunque legga e non voglia rifiutare il Vangelo. In quanto al testo al quale si appoggiano i nostri oppositori («Ecco, è giunta l’ora e il Figlio dell’Uomo è consegnato nelle mani dei peccatori») anch'esso, se ben si consideri, non ha che lo stesso senso ed equivale alle parole: «Ecco, è giunta l'ora, e il Figlio dell’Uomo è consegnato - come di fatto fu consegnato - nelle mani dei giudei, cioè del Sinedrio, e del popolo ebraico, che poi lo condusse innanzi ai giudici, e ne chiese pubblicamente insistentemente e minacciosamente la morte, che ottenne soltanto al grido: «il suo sangue cada sopra di noi e sui nostri figli»! Basta leggere tutto il cap. 14 di San Marco. E basta rivedere la triplice predizione della medesima Passione e Morte di Gesù (prima predizione: Lc 9, 32; Mc 8, 31-33; Mt 16, 21-23: seconda predizione: Lc 9, 43-45; Mc 9, 30-35; Mt 17, 22-23; terza predizione: Lc 18, 31-34; Mc 10 32-34, Mt 20 17-19). Scrive perciò Sant'Agostino, evidentemente nella luce dei testi evangelici: «I giudei volevano volgere tutta l'iniquità di quel delitto in un giudice uomo; ma potevano forse ingannare il Giudice Dio? Pilato, facendo quel che fece, fu certo partecipe del male, ma, in cofronto a loro, molto meno reo. Insistette per verità, come poté per liberare Gesù dalle loro mani, e con questo medesimo intendimento lo lasciò flagellare. Non per perseguitare il Signore lo flagellò, ma come per saturare il furore giudaico, sperando che a quella vista cedessero le ire, e non volessero più uccidere chi vedevano flagellato. Ma, perseverando coloro, egli si lavò le mani, dichiarandosi mondo della Sua morte. Nondimeno, lo condannò. Ora, se è reo colui che lo condannò invito, sono forse innocenti quelli che lo sforzarono perché lo condannasse? Nient'affatto! Ma egli proferì contro Gesù la sentenza e comandando che fosse crocifisso, quasi egli stesso lo uccise. E voi, o giudei, altresì lo uccideste. Come lo uccideste? Con la spada della lingua. Aguzzaste difatto le vostre lingue, e lo uccideste gridando: «Crocifiggilo, crocifiggilo»! 27. Parrebbe superfluo aggiungere altre parole a questa recisa affermazione di Sant'Agostino, il quale, del resto, non è che la voce di tutti i Padri e Dottori dei secoli cristiani. Tuttavia, non vogliamo rinunciare ad un'ultima considerazione: se gli ebrei, capi e popolo, non avessero davvero ucciso Cristo, quale senso potrebbe avere quella selva ben nota di improperi che si pronunciano nella Liturgia del Venerdì Santo, in cui è Dio stesso che rimprovera al popolo ebraico tutte le sue ingratitudini e scelleratezze e l’empio delitto di averlo appeso sopra una croce dopo tanti benefici ricevuti attraverso i secoli della storia ebraica?
Preghiamo i nostri lettori a rileggerli e meditarli alla luce dei fatti, e non dei sogni più o meno pietosi verso il popolo ebraico; poiché come è stato rilevato proprio in quest’anno 1960: «La massima responsabilità morale dell’iniquo processo e del nefando deicidio è del popolo eletto. I suoi capi presero l'iniziativa, macchinarono e tramarono; il popolo l'assecondò» 28.
ATTI DEGLI APOSTOLI
Gli Atti degli Apostoli sono il libro ispirato in cui più esplicitamente e pubblicamente viene presentata la morte violenta di Cristo come il più iniquo ed orrendo delitto dei capi e del popolo ebraico. Basta scorrerne alcuni capitoli, dove la tragica vicenda del Calvario viene ricordata con la più chiara espressione da parte specialmente degli Apostoli Pietro e Paolo e dal primo martire, Santo Stefano. Prima però di iniziarne la rassegna, notiamo che tutte le volte che si parla della morte di Cristo, viene anche ricordato come Egli trionfò della medesima nella Sua Risurrezione gloriosa, vincendo la morte stessa e tutte le insidie dei Suoi nemici. Ecco pertanto, come parla San Pietro, nel giorno della Pentecoste: «Uomini d’Israele, ascoltate queste parole. Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio presso di voi con opere, prodigi e potenti segni che Dio fece tra voi per suo mezzo, come voi stessi sapete, voi lo avete trafitto per mano d’empi, e ucciso, dopo che per determinata volontà e prescienza di Dio fu tradito; Dio l’ha risuscitato, avendo infranto i legami della morte, siccome era impossibile che ne fosse ritenuto» (At 2, 22-24). Ed ancora: «Sappia dunque indubitatamente tutta la famiglia d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo questo stesso Gesù che voi avete crocifisso» (At 2, 36). La stessa cosa ripete il primo Apostolo e primo Papa, dopo la guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme:« Israeliti, perché vi meravigliate voi di questo, e perché tenete gli occhi su noi, come se per potenza e bontà nostra avessimo fatto sì che costui cammini? Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei Padri nostri ha glorificato il suo Figlio Gesù che voi avete tradito e rinnegato davanti a Pilato, benché lui fosse risoluto di liberarlo. Ma voi rinnegaste il Santo e il Giusto e chiedeste che vi fosse graziato un assassino; e uccideste l’Autore della vita che Dio resuscitò da morte, cosa di cui noi siamo testimoni» (At 2, 12-15). «Allora Pietro, ripieno di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, ascoltate: giacché oggi siamo interrogati sul beneficio fatto ad un uomo ammalato, per sapere in qual modo questo sia stato risanato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele come in nome del Signor Nostro Gesù Cristo Nazareno che voi crocifiggeste e Dio risuscitò dai morti, in virtù di questo nome costui sta sano innanzi a voi. Questa è la pietra rigettata dai voi costruttori, la quale è divenuta testata d’angolo» (At 4, 8-11). Pietro e gli Apostoli presero a rispondere: «Bisogna ubbidire piuttosto a Dio, che agli uomini. Il Dio dei padri nostri ha risuscitato Gesù che voi uccideste appendendolo ad un patibolo» (At 5, 29-30). Ed ora è la volta di Santo Stefano, il quale rimprovera ai giudei l'uccisione di Cristo, come degli antichi Profeti che lo avevano annunciato. Ecco come egli parla ai suoi lapidatori: «Voi pure siete come i vostri padri. Quale dei Profeti i vostri padri non perseguitarono? Uccisero persino coloro che predicavano la venuta del Giusto, di cui voi siete stati adesso i traditori e gli assassini» (At 7, 51-52). Dopo, il Protomartire, torna a parlarci dell'uccisione di Cristo da parte degli ebrei ancora il primo Apostolo e primo Papa: «Voi sapete - egli dice ai giudei - quello che è avvenuto per tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il Battesimo predicato da Giovanni, come Dio unse di Spirito Santo e di potenza Gesù di Nazaret. Egli andò ovunque, facendo del bene e sanando tutti gli oppressi dal diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose che egli fece nel paese dei giudei e in Gerusalemme; ma l’uccisero, avendolo appeso ad una croce. Dio però lo risuscitò il terzo giorno» (At 10, 27-41). A tutte queste testimonianze ultra-convincenti, noi aggiungiamo soltanto quella dell’Apostolo Paolo: «Giacché voi, fratelli, siete stati imitatori delle Chiese di Dio, che sono per la Giudea in Cristo Gesù; perché le medesime cose avete sofferte anche voi dai vostri connazionali come anche quelli dai giudei, i quali ed uccisero il Signore Gesù e i Profeti, e ci hanno perseguitato, e non piacciono a Dio, e sono avversi a tutti gli uomini; i quali proibiscono a noi il parlare alle genti perché si salvino, per andare sempre colmando la misura dei loro peccati; poiché è venuta sopra di essi l’ira di Dio sino alla fine» (1 Ts 2, 14-16). Chi uccise dunque Cristo? La parola di San Pietro di San Paolo e di Santo Stefano, è unanime, e credo debba essere sufficiente a convincere chiunque voglia o abbia pensato il contrario: Cristo fu tradito, ucciso crocifisso dai capi e dal popolo ebraico. La testimonianza qui riportata degli Atti degli Apostoli s’impone, com’è evidente, più di qualunque altra. Essa è veramente decisiva, assoluta e irrefragabile intorno all’uccisione di Cristo da parte dei giudei. Non è soltanto una testimonianza ispirata; porta con sé la certezza storica 29, e perciò esige l’assenso di tutti: credenti e non credenti, cristiani ed ebrei, purché non si dimentichino né le persone qualificate, né le diverse circostanze in cui venne affermata. è resa, infatti, da testi di primo piano che proclamano, con ogni sicurezza, sulla piazza e nel tempio di Gerusalemme, e alla presenza di varie migliaia di persone ed innanzi agli stessi capi della nazione il delitto enorme del deicidio. Eppure, nessuno degli uditori reagisce, nessuno nega il fatto così atroce, dell’uccisione del Messia, della crocifissione di Gesù che Pietro chiama senza timore «Autore della vita»! (At 3, 15). Anzi, al sentire Pietro, che accusa tutta la casa di Israele di aver crocifisso Gesù, gli ascoltatori non si rivoltano contro di lui; ma, convinti del loro enorme peccato, sono «compunti» e chiedono allo stesso Pietro e agli altri Apostoli: «Fratelli che dobbiamo fare? E Pietro a loro: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo a remissione dei vostri peccati. E [...] salvatevi di mezzo a questa generazione perversa». E in quel giorno il numero dei fedeli aumentò di circa tremila persone» (At 2, passim.). In questi ed altri fatti consimili due cose appaiono, quindi, ben certe: 1) Pietro parla innanzi alla folla del popolo, e l’accusa di avere ucciso l’Autore della vita (cioè Gesù Uomo-Dio); 2) la folla e i capi non negano il fatto, ma chiedono che cosa debbono fare per sfuggire alla vendetta divina. Questo comportamento da parte del popolo e delle guide spirituali del medesimo, conferma con ogni evidenza ciò che Pietro va affermando intorno alla responsabilità dei giudei nella crocifissione e morte di Cristo. Ciò è chiaro e non ci vuole molto per capirlo. Eppure oggi vi è chi si chiede: «Perché il popolo giudaico viene chiamato «popolo deicida»? (cfr. in Palestra del Clero, art. cit., pag. 975; P. Mariano, op. cit.). La risposta a questa insistente domanda degli ebrei e non ebrei dei nostri tempi è ovvia: se lo chiamò così San Pietro, primo Apostolo e primo Papa, senza che il popolo e i loro capi negassero la sua affermazione, quando vedendo la gran folla parlò e, tra l`altro, disse: «Uomini israeliti [...] il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri ha glorificato il servo suo Gesù, che voi metteste in mano di Pilato e rinnegaste in faccia a lui, mentr’egli aveva deciso di liberarlo. Sì, voi rinnegaste il Santo e il Giusto, e chiedeste vi fosse graziato un omicida. Voi uccideste l’Autore della vita» (e uccidere l’Autore della vita è lo stesso, qui, che uccidere Gesù Uomo-Dio; N.d.R.), perché meravigliarsi che questa stessa affermazione sia stata ripetuta attraverso la Storia? (At 3, 12-15) Si potrà forse discutere se sia opportuno o meno rinfacciare in questa o in quella circostanza al popolo ebraico l’enorme delitto del deicidio, ma in nessun modo e da nessuno si potrà affermare e molto meno scrivere che tale delitto non fu mai commesso dal popolo ebraico. La carità può suggerire, qualche volta, di tacere, ma la verità comanda a tutti di non essere tradita ogni qualvolta è necessario parlare o scrivere di questo, come di qualunque altro argomento.
Gli oppositori della nostra tesi continuano a ripetere che, nonostante l’uccisione di Cristo, il popolo ebraico non è stato rigettato da Dio, e che la stessa distruzione di Gerusalemme e del Tempio non fu una punizione da parte di Dio per l’orrendo deicidio del Suo Figlio, inviato alla casa di Israele per salvarla, ma soltanto una previsione da parte di Gesù, come è stato detto. Noi già abbiamo dimostrato il contrario, specialmente nei due capitoli intitolati «Valore e conseguenza della frase «Il suo sangue sia sopra di noi e dei nostri figli» e «Il popolo ebraico riprovato da Dio», riferendo ed annotando ciò che è detto nel Vangelo, e quello che esegeti antichi e moderni hanno scritto intorno alla medesima frase. Quindi, ci pare che sarebbe inutile insistere ancora sullo stesso argomento. Piuttosto, ci sembra più utile cercare di conoscere come mai sia potuto avvenire che il popolo ebraico abbia rifiutato Cristo, e, a sua volta, esso sia stato rifiutato da Dio come popolo o razza eletta. A questa domanda ecco come risponde Mons. E. Le Camus: «Israele sognava un Messia terreno; voleva una rivoluzione politica e non una trasformazione religiosa. Nulla importavagli di quanto si riferiva solamente all’anima. Avendo collocato il suo ideale messianico nell’apparizione di un Re conquistatore, che dovesse regnare sull’universo, era incapace di riconoscerlo come fondatore pacifico di una religione novella; tanto più che questa religione, come la verità, era universale, e non esclusiva per il popolo ebraico, il quale nel suo egoismo, aspettava un salvatore unicamente per sé. Un Messia più umanitario che nazionale, che apportasse al popolo beni di un ordine puramente invisibile e completamente spirituale, non poteva essere il Messia; tale era il ragionamento che si faceva a Gerusalemme. Di fronte a simili pregiudizi, le opere, le parole, l’onnipotenza e la santità di Gesù erano nulla e non dimostravano nulla. Per tal modo si correva fatalmente alla conclusione segnalata più sopra: Israele per aver rigettato Cristo, veniva rigettato a sua volta; per averlo ucciso, si preparava ad essere a sua volta sterminato». Ed ancora: «Niente, infatti, mancò al delitto di costoro per essere inescusabile; né da parte dei colpevoli la malizia, né da parte di Dio la bontà paziente e benigna. Per mettercene sotto gli occhi la prova, San Giovanni riassume le dichiarazioni formali che Gesù era venuto loro facendo. Esse erano complete e per chiarezza e per autorità. Gesù aveva dichiarato a voce abbastanza alta per farsi capire: «Chi crede in me, crede veramente non in me, ma in Colui che mi ha mandato, e chi mi guarda, guarda Colui che mi ha inviato» 30. «Poiché, come abbiamo osservato più volte, Gesù aveva provato con i miracoli di essere la Sua causa quella di Dio, e Lui non essere che una cosa col Padre. Fuori di Lui, Dottore inviato dal cielo agli uomini, non vi erano che tenebre. Uno sguardo solo gettato sul mondo bastava a dimostrarlo... Guai quindi a chi si è ostinato a non riconoscere il divin Maestro e a chiudere gli occhi davanti alla Sua gloriosa manifestazione. Gli increduli hanno appreso dalla Sua stessa bocca la sorte che li attende: «Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva - ha detto - non io lo giudicherò, poiché io non sono venuto a giudicare il mondo, ma a salvarlo. Chi respinge me e non accoglie i miei discepoli ha già il suo giudice: la parola che io annuncio sarà quella che giudicherà nell’ultimo giorno...». Ad onta di tutto ciò, Israele restò insensibile, ostinato e contrario. Invano, secondo la profezia di Isaia, invocata da San Paolo, Dio gli ha steso in ogni ora le braccia durante il tempo del ministero del Figlio. Non ne provocò che l'incredulità e l'opposizione. Stanco di incalzarlo, la grazia l’abbandonò finalmente a suoi istinti pervertiti, e noi lo vedremo commettere a sangue freddo l’eccesso dell'ingratitudine, il delitto più odioso, il sacrilegio più esecrabile che mai abbia macchiato la memoria di un popolo. Per tal maniera, il castigo divino, per quanto terribile, resterà ancora al di sotto della colpa» 31. Dunque, nessun dubbio che il popolo ebraico sia stato ormai rigettato, come popolo, da Dio, avendo essi prima rigettato l’Inviato del medesimo Dio. Un altro popolo, quindi, è nato, e si è messo al suo posto: il popolo degli eletti o, meglio, dei figli di Dio. I quali, come scrive San Giovanni, sono divenuti tali non a motivo del «sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo», ma perché hanno accolto e creduto nel Figlio di Dio, e perciò essi stessi «sono nati da Dio» (Gv 1, 12-13). E quindi sì è formato il nuovo popolo eletto, popolo di acquisto e di conquista da parte di Cristo, al quale potranno appartenere tutti, giudei e gentili, purché lo accolgano ed ascoltino la Sua parola, entrando a far parte del Suo ovile, di cui Egli è il Pastore eterno, e sopra del quale pose quale Maestro e Moderatore supremo e Pastore visibile che conduca gli agnelli e le pecore ai pascoli della vita, Pietro e i suoi successori. Questo è il nuovo popolo eletto, di cui possono esser partecipi tutti gli uomini a qualunque razza appartengano e di qualunque colore sia la loro pelle, giacché ormai, come scrive San Paolo, «non vi è distinzione di giudeo e greco. è lo stesso il Signore di tutti, ricco per tutti quelli che lo invocano. Poiché chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (Rm 10, 12,13). Continua, pertanto l’Apostolo: «Siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non vi è più giudeo, né greco, non vi è schiavo, né libero, non maschio o femmina; ma tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù. E se voi siete di Cristo, siete seme di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3, 26-29). Non la razza o il sangue di Abramo, dunque, forma ormai il popolo eletto, bensì l’appartenenza a Cristo per mezzo del Battesimo, e il Suo Spirito rende veri figli di Abramo ed eredi, «secondo la promessa». Questa è la logica paolina da cui non è lecito sfuggire. In breve: «Con la caduta della città santa e del suo Tempio, l’ebraismo terminava la sua missione di unica vera religione rivelata da Dio, e cedeva il passo alla nuova religione, il cristianesimo» 32. Nota pertanto il citato Mons. Le Camus: «Del resto, tutto Israele non rigettò il Messia, e l’Evangelista si compiace di riconoscere che, anche tra i capi del popolo, parecchi credettero in Lui [...]. Dopo la Pentecoste, infatti, arditi e coraggiosi come tanti leoni, questi uomini pusillanimi ed esitanti, ma che avevano internamente riconosciuto la missione divina di Gesù, si levarono, e strappando, per così dire, dalle mani dei carnefici la croce fumante ancora di sangue, percorsero tutto l’universo ripetendo la parola del centurione: «Sì, questo crocifisso era veramente il Figlio di Dio». Il gruppo che formarono e che divenne la Chiesa, fu il vero Israele delle divine promesse; gli altri, come se l’erano ben meritato, rimasero l'Israele della riprovazione» 33. Intorno a questa questione della riprovazione d'Israele e del nuovo popolo eletto, merita di essere letto lo studio di D. Iudant intitolato Les deux Israël, da noi riportato nella Bibliografia. Sono pregevolissimi specialmente il cap. III («Israël et Jesus»); il VI («L’église a hérité des privilèges d'Israël»); il VII («Israël a perdu ses privilèges»), e l'VIII («La trasformation de l’Alliance»; pag. 33 e ss.; 111 e ss.; 151 e ss.).
E LA RESPONSABILITA'
EBRAICA NELLA MORTE DI CRISTO
San Lorenzo da Brindisi (1559-1619), in più punti dell’Opera omnia torna a parlare della morte di Cristo e dei giudei, in quanto ne furono i principali attori 34. Noi, però, ci serviremo soltanto di quello che egli asserisce nel V volume (parte I-II e III della medesima opera). In questo volume, egli afferma chiaramente che gli ebrei, pure ammirando la dottrina di Cristo (II, 356-357), si perdettero a causa della loro ambizione ed avarizia (I, 341; II, 61). Accecati, pertanto, per giusta punizione di Dio, non credettero in Cristo (I, 71; II, 240, 359, 390), nonostante i tanti miracoli visti. Disprezzarono, anzi, lo stesso Cristo (III, 140), e l’odiarono (I, 492, 515), e vollero perfino ucciderlo (II, 43). A causa della loro durezza di cuore, derisero e calunniarono i Suoi miracoli (I, 335; II, 136, 364, 390). Sicché giunsero all'incredibile e inaudita follia di chiedere la liberazione di Barabba e la morte di Cristo (III, 302). Giustamente, quindi, furono condannati da Dio (II, 53); e, in pena della loro empietà, perirono nell’eccidio di Gerusalemme (I, 55), avvenuto quarant’anni dopo la morte di Cristo (III, 359). Anzi, per punizione dello stesso delitto, furono condotti in schiavitù perpetua (II, 392; III, 292), peggiore assai della schiavitù babilonese, come quella babilonese fu peggiore di quella d'Egitto (1, 337). Gli ebrei odiarono Cristo perché Egli denunciò e condannò i loro vizi (III, 1). Essi erano ambiziosi ed avari (III, 168, 180). Cercarono di lapidare Cristo (III, 7, 272). Erano pieni di spirito diabolico (III, 32, 70, 122). Avevano una volontà depravata (III, 180). Ignorando la Sua divinità (III, 14), non Gli credettero e l’uccisero (III, 37, 104, 123, 176, 267), per suggestione dei demoni (II, 332), temendo l’avvento del Suo regno (II, 361). Ma poiché Cristo non solo disse di essere Dio e vero Figlio di Dio, ma confermò, con l'evidenza delle Sue opere prodigiose, la Sua affermazione (III, 104), l’ignoranza, da parte dei giudei, della Sua divinità, non fu di pura negazione, bensì di prava affezione, e cioè ebbe origine dalla loro volontà depravata e perversa (I, 342). La quale ignoranza di prava affezione, afferma il Santo Dottore, mentre è «causa di tutti i mali», fu anche causa di rovina per i giudei e li trattiene tuttora fuori della Chiesa, nella quale soltanto si può sperare salvezza. In altre parole: l'ignoranza degli ebrei nel chiedere ed imporre a Pilato la morte di Cristo, fu pienamente colpevole. «Molti, infatti - dice San Lorenzo - soltanto per il depravato affetto della mente o volontà, non vogliono intendere la verità. Così, lo scostumato non vuole capire il decoro della castità, l’ambizioso non vuol capire la gloria dell'umiltà. Perciò Cristo disse ai giudei: «Come voi potete credere, se vi date gloria a vicenda e non cercate la gloria che viene da Dio»? (Gv 5, 44) «Dunque - conclude il Santo Dottore - avendo depravato l’intelletto dall’avarizia e dall’ambizione, non conobbero Cristo, e quindi, giustamente, furono puniti. Questo è ciò che disse Isaia: «Israele non mi conobbe [...], il mio popolo non ha avuto intelligenza. Oh gente peccatrice...». Così il Profeta predice la misera schiavitù in cui oggi si trova l’infelice Sinagoga: «Perciò, il mio popolo è condotto in schiavitù, per la sua sconsideratezza» (Is 5, 13); poiché non conobbe Cristo. Quindi, Cristo medesimo, predicendo l’eccidio di Gerusalemme, dice: «Poiché non hai riconosciuto il momento nel quale sei stata visitata. Oh se conoscessi anche tu, proprio in questo giorno, quel che giova alla tua pace»! (Lc 13, 44) (I, 341, 342). Ma poiché, come si è detto, questa ignoranza, non fu di pura negazione, ma di perversa affezione, nessuna scusa può addursi per attenuare la colpa ebraica nella morte di Cristo. L’uccisero temendo il Suo regno, e così perdettero il proprio regno (III 170, 176 178). Ciononostante, «anche ora si mostrano perfidi ed increduli» (III, 62). Per tutte queste ragioni, ed altre che qui omettiamo, dice il Santo Dottore, la misera ed infelice Sinagoga fu condannata e riprovata da Dio, e, al suo posto, fu eletta un’altra gente che forma la Chiesa in cui entrerà il popolo delle nazioni gentili (I, 338). «La legge di Mosè fu data soltanto al popolo ebraico, il quale era il popolo eletto di Dio, e per questo Dio lo aveva separato la tutte le altre nazioni. Ma allorché Gesù Cristo commosse tutta la città, diede la legge a tutti i popoli: «Predicate il Vangelo ad ogni creatura», cioè ad ogni uomo; poiché Egli disse: «La mia casa è casa di orazione per tutte le nazioni» (I, 313, 314). Dunque, il popolo ebraico, una volta fu il popolo eletto, ma ora non è più tale, poiché al suo posto sono state chiamate tutte le nazioni, alle quali è stato inviato, il messaggio evangelico per mezzo degli Apostoli e di coloro che ai medesimi succedono nei secoli, e ne continuano la missione. Nel quale popolo nuovo, eletto per la fede che riceve in Cristo, può inserirsi qualunque individuo, anche del popolo ebraico, purché accetti lo stesso messaggio e riconosca che Cristo è il vero Messia, e che soltanto in Lui si può avere salute e salvezza, come disse già San Pietro dinanzi al popolo ebraico che lo ascoltava a Gerusalemme (At 4, 12).
SAN PAOLO E IL RITORNO D'ISRAELE
Nonostante il delitto del deicidio commesso dai capi e dal popolo d’Israele, Dio è sempre pronto, nella Sua infinita bontà, a perdonare a chiunque torni a Lui, come perdonò a San Paolo e a molti altri giudei attraverso i secoli. Tuttavia, trattandosi del popolo intero, di tutta la massa e razza ebraica, dobbiamo ritenere, con San Paolo, che soltanto alla fine dei secoli, e cioè dopo l’entrata nel regno di Dio della totalità - moralmente intesa - dei gentili, il popolo ebraico, di fatto, tornerà a Dio e al suo Messia, acclamandolo, come Gesù stesso disse, con le parole enfatiche con cui già un giorno l’aveva acclamato, dicendo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». San Paolo, infatti, nei capitoli, IX, X, XI della sua Lettera ai Romani, mentre è dolente che i giudei non giungono alla salvezza, insegna: 1) La salvezza non dipende dalla discendenza, ma è un dono di Dio, «perché non tutti quelli i che vengono da Israele sono israeliti; né i nati dalla stirpe di Abramo, sono tutti figli». 2) Dio non è ingiusto a salvare chi vuole, perché egli dice a Mosé: «Avrò misericordia (ogni salvezza è misericordia di Dio) di colui al quale mi piacerà usare misericordia, e avrò compassione di colui con il quale vorrò essere compassionevole» (Rm 15, 3). 3) Le genti entrano a far parte del regno di Dio, mentre molti ebrei vengono esclusi dal medesimo. Si legge, infatti, in Osea: «Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo» (Rm 9, 25). 4) Israele commise una colpa: si ostinò a non credere alla predicazione del Vangelo; alla quale, invece, prestò fede il popolo gentile. «Israele, che seguiva la legge e la giustizia, non ha raggiunto la legge della giustizia. E perché la cercò non nella fede, ma come se venisse dalle opere; così urtò nella pietra d’inciampo (Cristo) secondo quello che è scritto: «Ecco io pongo in Sion una pietra d’inciampo, una pietra di scandalo; ma chi crede in Lui, non resterà confuso» (vv. 30-33) Quindi, San Paolo è addolorato, perché i giudei non hanno conosciuto Cristo, fine della legge, e hanno rigettato la fede, unica via di salvezza. 5) L’ignoranza degli ebrei è inescusabile. Dice infatti l’Apostolo: «Nonostante che la predicazione evangelica sia giunta ovunque, nonostante che Dio sia stato trovato dai gentili, non è stato trovato da Israele, di cui Dio si lamenta per mezzo di Isaia, dicendo: «Tutto il giorno stesi le mie mani verso un popolo incredulo e ribelle». (Is 10, 21). Tuttavia: 6) Due cose sono chiare: a) che Israele nella sua totalità, e cioè come popolo, non ha conseguito quello che cercava, cioè la sua salvezza; b) ciò non toglie che la parte eletta di esso abbia conseguito e, perciò può conseguire, la sua salvezza. Ciò pare evidente nelle parole di San Paolo, il quale scrive: «Cos'è dunque successo? Che Israele non ha conseguito quello che cercava; ma l’ha conseguito la parte eletta; mentre gli altri sono stati accecati, secondo quello che sta scritto: «Dio diede loro lo spirito di stordimento, occhi da non vedere, orecchi da non sentire, fino al giorno d’oggi». E Davide dice: «La loro mensa sia per essi un laccio, un cappio, un inciampo e giusta punizione; siano oscurati i loro occhi da non vederci più, e la loro schiena incurvata del tutto» (Rm 11. 7-10). 7) Finalmente, dopo essere stati gli israeliti di giovamento alla stessa conversione dei gentili entrati che siano tutti (cosa già predetta da Isaia, al quale peraltro fa esplicita allusione lo stesso Gesù, quando dice che i giudei non lo vedranno più fin quando non lo acclameranno: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»; Mt 24, 15), anche il popolo Israelitico rientrerà. E così si compirà, anche in ciò, quello che disse Gesù: «Verranno dall’Oriente e dall`Occidente [...] e i figli del regno saranno cacciati fuori [...] e i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi» (Mt 8, 11-12; Lc 13, 29-30). Quest’ultima affermazione viene chiaramente insegnata dalle parole dell’Apostolo, il quale così pone termine al capitolo XI della sua Lettera ai Romani: «Poiché io non voglio, o fratelli, che ignoriate questo mistero affinché non siate dentro di voi orgogliosi, che è avvenuto un induramento in una parte d’Israele, e ciò finché non sia entrata la totalità dei gentili; allora tutto Israele si salverà, conforme sta scritto: «Verrà da Sion il Liberatore e allontanerà l’empietà di Giacobbe», e «questo sarà il mio patto con loro, quando io abbia cancellato i loro peccati». Riguardo al Vangelo sono nemici per via di voi, ma rispetto all’elezione sono amati per via dei Padri; i doni e la vocazione di Dio non sono cose che soggiacciono a pentimento». Egli non dice che Israele è anche ora il popolo eletto, come è stato affermato (cfr. P. Marzano, Il Sangue di Lui). Dice soltanto che Dio, per via dei Padri, continua ad amare e ad offrire anche ai figli del popolo ebraico la sua misericordia affinché si convertano, e cioè, finalmente, riconoscano Cristo quale Messia, ne accettino il messaggio divino, ed abbiano la vita eterna (Gv 17, 3). «Come voi avete in passato disobbedito a Dio, ora invece avete ottenuto misericordia per la loro incredulità, così anche essi non hanno ora creduto per la misericordia che è nell'incredulità per usare a tutti misericordia. O profondità della ricchezza e sapienza e conoscenza di Dio! Come sono imperscrutabilità i suoi giudizi e non intracciabili le sue vie! Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? E chi gli fu consigliere? O chi diede a Lui per primo da averne il contraccambio? Poiché da Lui e per Lui e a Lui ogni cosa; a Lui gloria nei secoli, così sia» (Rm 11, 25-35). Rimane dunque stabilito che, di fatto, ora Israele è nell’indurimento; ma verrà un giorno, come dice San Paolo, e cioè dopo l’entrata totale dei gentili, che esso si salverà per la misericordia e i giudizi imperscrutabili di Dio. Del medesimo parere è Giuseppe Ricciotti nella sua ben nota opera. Parlando dell’annunzio da parte di Gesù di tutte le sciagure che sarebbero venute sopra il popolo ebraico per averlo rifiutato, scrive: «All’annuncio che i farisei hanno colmato la misura dei loro padri, segue la deplorazione, come nella procedura forense alla dimostrazione del delitto seguiva la pena; è la terza parte del discorso: «Serpenti, razza di vipere, come avverrà che sfuggiate al giudizio di condanna della geenna? Per questo, ecco, io invio a voi profeti e sapienti e scribi: di essi ucciderete e crocifiggerete e di essi flagellerete nelle vostre sinagoghe e perseguiterete di città in città, affinché venga su voi il sangue giusto versato sulla terra dal sangue di Abele il giusto, fino al sangue di Zaccaria figlio di Barachia, che uccideste fra il santuario e l’altare. In verità vi dico: verranno tutte queste cose su questa generazione! Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidie gli inviati a te! Quante volte volli radunare insieme i tuoi figli, come una gallina raduna i pulcini sotto le ali, e voi non voleste! Ecco, è lasciata la vostra casa deserta. Vi dico infatti, non sarà che mi vediate da adesso fino a che diciate: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»! «Quest'ultima parte - commenta il Ricciotti - più che una minaccia è in realtà una deplorazione. Gesù deplora che i suoi reiterati tentativi di salvare città e nazione siano stati frustrati e che l’intero edificio costruito man mano da Dio per la salvezza d’Israele venga demolito man mano dalla pervicacia degli uomini; ciò che è avvenuto al tempo della legge quando i Profeti di Jahvé finivano lapidati, avverrà anche al tempo del Messia, i cui inviati finiranno in maniera analoga. Ma in tal modo, tutto il peso dei delitti anche più antichi graverà su quelli che compiono l’ultimo delitto, perché costoro scalzano le ultime fondamenta dell‘edificio di Dio, e, colmando la misura, attireranno su se stessi la vendetta totale. è dunque una minaccia salutare, un supremo angoscioso grido affinché le guide cieche della nazione eletta s’arrestino sull’estremo orlo dell’abisso. Ma con quest’appello angoscioso e minaccioso i tentativi di Gesù finiscono. Quando sia avvenuta l’ultima ripulsa e consumato l’ultimo delitto, la loro casa sarà abbandonata ad essi deserta, priva dell’aiuto di Colui che hanno respinto. Né essi rivedranno mai più Lui, se non in tempi d’un futuro remotissimo, allorché l’aberrante nazione si sarà ravveduta del suo errore e cercherà il respinto: «Una voce sulle nude colline, si ode il pianto supplichevole dei figli d’Israele: poiché aberrarono dalla loro via, dimenticarono Jahvè loro Dio; saranno giorni, quelli in cui non si esclamerà più oltre: «O Arca dell’alleanza di Jahvè»!, non starà (più) a cuore, non si penserà ad essa, non sarà rimpianta nè costruita più oltre; e agli aberranti sarà rivolto un invito: «Ritornate, o figli ribelli, guarirò io le vostre ribellioni»! Ed essi risponderanno: «Eccoci, noi veniamo a te, perché tu sei Jahvé nostro Dio! [...] Davvero, in Jahvè nostro Dio sta la salvezza d’Israele»! (Ger 3, 16-23, con inversioni) «Questa visione dell'antico Profeta - conclude il Ricciotti - è contemplata nuovamente da Gesù, sullo sfondo d’un tempo del tutto nuovo ed ancora più remoto, quello della parusia; allora Israele, riconciliato col già respinto Messia, potrà nuovamente vederlo, perché gli andrà incontro rivolgendogli l’acclamazione già rivoltagli nel breve trionfo di due giorni prima: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»! Qualche anno più tardi, il fariseo Paolo di Tarso, divenuto «schiavo» di Cristo Gesù, contemplerà anch’egli il remotissimo tempo in cui i suoi connazionali, presentemente accecati, riacquisteranno la vista e così l'intero Israele sarà salvato» (vedi Rm 11, 25-26) 35.
Riassumendo quanto è stato detto in questo opuscolo, è evidente: 1) Che a premere sulla volontà di Pilato non fu un piccolo numero di persone e molto meno si trattò di un gruppo anonimo e non qualificato. Si trattò, invece, delle «guide spirituali del giudaismo e di una larga rappresentanza del popolo di Gerusalemme» (G. Ricciotti, op. cit.) 2) Quelle «guide spirituali» e quella «larga rappresentanza del popolo di Gerusalemme», sono i veri responsabili del delitto di deicidio, commesso contro la divina Persona di Cristo Uomo-Dio. 3) Il grido blasfemo ed empio delle guide spirituali dell'ebraismo e di una larga rappresentanza del popolo di Gerusalemme, mentre strappò dalle mani di Pilato la sentenza di morte di Cristo - poiché quello stesso grido fu pronunziato da una «rappresentativa vox populi, e fu un voto strettamente ufficiale che riassumeva i desideri sia dei capi che delle membra, sia del Sinedrio che del popolo» - ottenne anche che venisse accolto da Dio «mostrandolo avverato nella Storia» (G. Ricciotti, op. cit.). Questi i fatti, purtroppo dolorosi, deplorevoli, ed altrettanto misteriosi, se si pensa chi è Cristo e quel che fece per il Suo popolo, e come questo popolo si sia deciso a rifiutarlo chiedendone la morte di croce... Da una parte, dunque, un popolo che chiede, dall’altra Dio che accoglie la richiesta di quel popolo; la quale richiesta non soltanto sarà una punizione per esso ivi presente, ma anche per i loro figli lontani, poiché anche per essi il popolo e le guide si sono assunti la responsabilità del «suo Sangue» (Mt 27, 25). Tutto questo - dicevamo - è vero ed è altamente misterioso e doloroso. Ma in che senso dobbiamo e possiamo spiegare i fatti, i quali sono altrettanto eloquenti quanto innegabili per chiunque stia al Vangelo e alla Storia? Forse nel senso che Dio, dopo quell'infelice ed empia imprecazione, privi gli ebrei e i loro figli della libertà e della grazia per cui sia loro impedito di fare penitenza ed evitare la richiesta punizione? Forse nel senso che gli ebrei e i loro figli siano e rimangano maledetti, senza che essi continuino a cooperare liberamente e a rimanere nella loro ostinata negazione e ribellione? No, certamente. Dopo quell'invocazione, o presa di posizione responsabile da parte degli ebrei, per sé e per i loro figli, questi rimangono sempre liberi, e Dio, nella Sua infinita benignità, non nega loro la grazia, che suole concedere liberamente, a tutti, secondo i Suoi altissimi disegni. A proposito di ciò che andiamo affermando, Jean Daniélou fa la seguente riflessione: «La verità è che il piano di Dio, in certi momenti, può colpire una razza i cui individui potranno salvarsi o no, individualmente, secondo la loro personale corrispondenza alla grazia. Ci sono degli ebrei la cui responsabilità nella condanna di Cristo è estremamente grave, ma nell’insieme certamente «essi non sanno quello che fanno», come disse Gesù. Non si vuol perciò affermare che c’è una condanna individuale dei giudei, ma che era nel piano di Dio che quel popolo, in quanto tale venisse messo da parte per qualche tempo» 36. Tuttavia, è tale e così enorme il delitto commesso dagli ebrei, da farli rimanere accecati e nel loro «indurimento» (San Paolo), anche sotto la pioggia della grazia di Dio; e, pur potendo cooperare alla medesima, non cooperano - come popolo - non entrano nell'unica ovile di salvezza. E così, di fatto, rimanendo nel loro accecamento, per propria colpa, essi e i loro figli rimangono sotto quella maledizione che invocarono per ottenere la morte del Figlio di Dio. In realtà, Dio avrebbe potuto accogliere, anche in senso assoluto, l’invocazione o imprecazione dei giudei, sicché nessuno di essi e dei loro figli ne rimanesse immune; tuttavia, come nota un eminente esegeta, seguendo in ciò il pensiero di San Giovanni Crisostomo (ca 345-407), il Signore misericordiosissimo mitigò quella sentenza, applicandola soltanto a coloro che persistono nella loro incredulità e negazione di Cristo. Ecco le sue parole: «In secondo luogo, si deve notare che, quantunque tale pena fu imprecata dai giudei sopra sè stessi, e sopra i propri figli, tuttavia il misericordiosissimo Dio mitigò quella sentenza, applicandola soltanto agli increduli, e risparmiando i fedeli, come ebbe a notare San Giovanni Crisostomo (cfr. Hom. 87, in Matth.). «Il misericordiosissimo Gesù - dice il santo Dottore - nonostante che i giudei impazzissero sia contro sè stessi, sia contro i loro figli, tuttavia Egli non volle condannare tutti, secondo la loro sentenza. E così, sia tra essi, e sia tra i loro figli scelse molti, i quali si pentirono ed ebbero da Lui favori e doni copiosi. Fu, infatti, dei loro Paolo, e quelle molte migliaia, che a Gerusalemme accolsero la fede, dei quali parlano gli Atti degli Apostoli (21, 20). Di essi, infatti, San Giacomo dice a Paolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di giudei si sono convertiti alla fede». La stessa cosa insegna il medesimo Dottore in un’altra omelia (cfr. Hom. de Cruce ac latraone, in fine tertii tomi), confermando la sua tesi con l’esempio della fornace di Babilonia (Dn 3, 4). Dice, dunque, egli: «Il sangue di Cristo non è meno efficace del fuoco della fornace di Babilonia. Ora, quel fuoco seppe onorare e salvare i corpi dei santi, e bruciare i corpi dei caldei. Dunque, il sangue preziosissimo di Cristo saprà ben salvare i credenti, e bruciare gli increduli. In terzo luogo, va notato che il grido dei giudei ferì profondamente il Cuore di Cristo, come molte anime pie ebbero il privilegio di contemplare. Vide, cioè, Gesù con grande dolore che il Suo popolo, così gridando, sottometteva sè stesso e i propri figli a dure e gravi pene; mentre Egli veniva giudicato degno di morte dal Suo popolo, il quale invocava su sè stesso e sopra i suoi figli la pena e il castigo dello spargimento del Suo sangue divino» 37. Lo stesso pensiero esprime San Paolo nella sua Lettera ai Romani, dove scrive: «E anche quelli, cioè i giudei, se non rimarranno ostinati nella incredulità, saranno innestati; poiché Dio è potente a innestarli di nuovo. Poiché, se tu (una volta pagano) sei stato tagliato dall’olivo per sua natura selvatico, e contro natura sei stato innestato nell’olivo buono, quanto più saranno essi (ebrei) naturalmente innestati nel loro proprio olivo»! (Rm 11, 22-24). Come si vede, tutto dipende dalla corrispondenza alla grazia, nel ricevere liberamente, ancora una volta, l’innesto nel proprio olivo, tornando, cioè, a quella fede dei Patriarchi che videro già in Cristo il futuro Messia, Figlio di Dio «ucciso dai giudei, ma da Dio risuscitato da morte» (At 2, 23-24; 3,15). Tornare a questa fede, significa convertirsi, e perciò sfuggire a quella maledizione che i giudei invocarono sopra di sé e sopra i loro figli. è questo, credo, uno dei tanti motivi che dovrebbero indurre gli ebrei a ristudiare serenamente la vita, i miracoli e la dottrina di Cristo, per potere gioire di Lui e con Lui, come di Lui, con Lui e per Lui gioì lo stesso Abramo, il quale, come disse Gesù: «Vidit diem meum et gavisus est» («Vide il mio giorno e si rallegrò»; Gv 8, 26). Ma se «i figli» dei lontani padri, su cui certamente grava la responsabilità dell’uccisione di Cristo, se i figli - dicevo - di fatto rimangono ostinati nel loro indurimento ed accecamento e nella loro costante opposizione ed ostilità contro Cristo e la Sua Chiesa, e se nonostante la prova più evidente di Cristo e la Sua Chiesa, e la prova più evidente di Cristo risorto e del nuovo popolo (i gentili) entrato a far parte del regno di Dio, dopo il colpevole ripudio ebraico di Gesù Messia, continuano l’opera e l’atteggiamento dei padri, e non si decidono ad entrare, come tanti hanno fatto, nel regno di Dio, è ovvio che cadano nello stesso abbandono in cui caddero i padri, i quali ripudiarono Cristo, Figlio di Dio. Quando, perciò, come fa l'articolista di Palestra del Clero, si dice che uno solo, secondo la teologia cattolica, è il peccato che si tramanda alla discendenza dei colpevoli, e questo peccato non l’hanno commesso gli Ebrei - è quello di Adamo ed Eva - si afferma senz’altro una verità indiscutibile, ma non perciò tale da infirmare ciò che noi abbiamo affermato e dimostrato. Poiché noi non diciamo che sui figli degli ebrei pesa il peccato del deicidio, sic et simpliciter, come se l’avessero commesso essi stessi; diciamo soltanto che, di fatto, come mostra la Storia, quei figli, come gruppo etnico, o popolo ebraico, rifiutano il Messia e continuano nel loro accecamento, e, peggio ancora, rifiutano e combattono Cristo e la Sua Chiesa, oggi (come ieri i loro padri), e perciò è giusto che abbiano con essi una comune sorte, ed una stessa pena. Quale meraviglia, in breve, che su di essi cada la maledizione invocata dai padri, e dai figli non spezzata o, per lo meno, non rifiutata, aderendo alla verità la quale anche a testimonianza di una ebrea convertita, (Edith Stein), non si trova che in Cristo? Se, cioè, i figli dei lontani giudei uccisori di Cristo, di fatto rimangono ostinati attraverso i secoli nel loro indurimento, già denunciato da San Paolo, e se continuano a combattere Cristo nei Suoi seguaci, si ricordino le parole che Cristo rivolse a San Paolo sulla via di Damasco: «Saule, Saule, quid me persequeris»? (At 9, 4-5); e se, nonostante la prova più evidente di Cristo risorto e del miracolo della Sua Chiesa sempre combattuta e mai vinta, essi permangono nella ribellione a tutto ciò che ha nome da Cristo, quale meraviglia - ripeto - che siano anch'essi coinvolti in quello stesso abbandono e in quelle stesse sventure che vennero sui loro padri deicidi, i quali, peraltro, le invocarono anche per i loro figli? Tutto considerato, perciò, non può non valere anche per questi, ciò che Cristo disse al termine della parabola dei vignaioli ribelli. Cristo parlò ai padri, ma se i figli non si sottraggono alla mentalità di essi, ed anzi sono solidali con essi, quelle parole non possono non applicarsi anche a loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: «La pietra rigettata dai costruttori è quella che è divenuta la pietra angolare; dal Signore è stato fatto questo ed è cosa meravigliosa ai nostri occhi»? Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare. E chi cadrà su questa pietra, sarà sfracellato, ed essa stritolerà colui sul quale cadrà. I principi dei sacerdoti e gli scribi udite le sue parole capirono che parlava di loro e volevano impadronirsi di lui; ma avevano paura del popolo che l’aveva in conto di profeta» (Mt 21, 41-45). Capirono, e tuttavia si ostinarono, e così perirono e furono ripudiati... e stritolati... C’è da pensare che, dopo tanti secoli di cristianesimo abbiano a capire meglio i figli, e così riescano a sottrarsi a quella maledizione, procurata ai medesimi dai padri, persecutori ed uccisori di Cristo.
Quantunque sia certo che il popolo ebraico di fatto, come «gruppo etnico», rimarrà nel suo accecamento, o stordimento - come dice San Paolo - sino all’entrata nel regno di Dio di tutte le genti, poiché soltanto allora Israele come popolo o «insieme etnico» si convertirà, ed entrerà nell’unico ovile, fuori del quale non c’è salvezza (Rm 11, 25 e ss.); tuttavia - come è stato detto - non fu mai affermato, né si potrà affermare che i singoli ebrei, le persone singolarmente prese, non possano convertirsi anche prima, corrispondendo alle sollecitazioni della grazia, come è sempre avvenuto durante i secoli della storia cristiana. Sono ebrei convertiti, infatti, gli Apostoli, ed è ebreo convertito lo stesso San Paolo, e furono con ogni certezza tutti ebrei prima i 3.000 e poi i 5.000 che si convertirono alla parola di San Pietro e degli Apostoli (At 2, 41; 4, 4). Altrettanto avvenne attraverso tutti i tempi, quanto più e quanto meno, sino ai nostri giorni. Di ebrei che accettarono la fede cristiana se ne ebbero in ogni epoca e in ogni luogo: e furono ebrei spesso illustri e profondi conoscitori delle divine scritture, sino al Prof. Eugenio Zolli. Tutto ciò indica chiaramente che l’atteggiamento del cristiano cattolico di fronte al problema ebraico, non può essere che atteggiamento di verità e di carità. Atteggiamento di verità, che illumina e libera dall’errore; atteggiamento di carità che conforta ed invita ad accettare la verità. Questo l’atteggiamento di Cristo, che non cessò mai di insegnare la verità per illuminare e liberare dall’errore i giudei del Suo tempo... Questo l’atteggiamento degli Apostoli, e specialmente di San Paolo, nelle sue Lettere ai Romani e agli stessi Ebrei. Questo l’atteggiamento degli altri grandi Apostoli del cristianesimo, tra i quali amiamo porre San Lorenzo da Brindisi, il novello Dottore della Chiesa universale, il quale tra le alte missioni affidategli dai Sommi Pontefici, ebbe anche quella di predicare agli ebrei, cosa che egli adempì con grande plauso e soddisfazione dei medesimi, i quali, specie per la perizia nella lingua ebraica che mostrava nei sermoni, lo reputavano quasi uno della loro gente. Portiamo dunque anche noi agli Ebrei verità e carità. Anzitutto, però, la verità, poiché senza di questa non si potrebbe avere che una carità soltanto apparente, o peggio, equivoca e ingannatrice, e perciò favorevole ad accrescere negli stessi ebrei quell’accecamento da cui, invece, bisogna ad ogni costo liberarli per farli entrare nella luce che viene soltanto da Cristo, «Via, Verità e Vita». Ho nominato il Prof. Eugenio Zolli. Questo il nome di cui si volle onorare dal giorno della sua conversione al cattolicesimo. Prima si chiamava Israel Zolli, ed era Rabbino Capo di Roma. Nel ricevere il battesimo, il 13 febbraio 1945, in omaggio a Pio XII (1876-1958) chiese di essere chiamato Eugenio. A quanti mi hanno letto o mi leggeranno, addito questa figura di eminente studioso della Sacra Bibbia. E vorrei che tutti fossero animati dagli stessi sentimenti di lui, che in Cristo finalmente trovò la luce e la vita. La trovò, come egli narra, attraverso la lettura e la meditazione del Vangelo. «Leggevo - egli scrive - spesso all’aperto in campagna da me stesso il Vangelo. Lo studiavo a casa con i dotti commenti di Padre Lagrange e qualche volta con altri commenti fatti per esso con intenti scientifici; ma d’estate, in qualche campagna solitaria, io lo leggevo per mio diletto e ammaestramento. E il sacro testo mi diveniva sempre più caro, sempre più l’amavo. Da anni e anni, prima di prendere sonno; medito qualche testo biblico, antico e neotestamentario. Negli ultimi tempi meditavo pacatamente sui dogmi. Non mi ero mai proposto di ingaggiare una lotta per risolvere un problema. Tutto si sviluppava e maturava lentamente. Non ho chiesto l’aiuto di nessuno, non già per orgoglio, perché non saprei di che cosa avrei potuto andare orgoglioso io, un poveretto qualunque, ma perché mi pareva di bastare a me stesso. Quando ho visto che la mia anima traboccava di cristianesimo, pur conservando molta, infinita carità per le sofferenze del mio popolo, mi sono convinto che sarebbe stato disonesto proseguire in una via che non era più la mia. Ho rinunciato a tutto, ho ringraziato tutti di tutto per poter poi adire la via che per me era ed è l’unica» 38. Ecco un uomo che ha saputo unire insieme la verità con la carità. Non ha tradito la prima per la seconda, come spesso suole avvenire in certi spiriti deboli e poco equilibrati. Ha abbracciato la prima, l’ha detto francamente; ha praticato la seconda, «conservando - come dice - molta, infinita carità», per il suo popolo. Ed ora, volendo porre termine a queste pagine con una parola che esprima tutto il mio pensiero e che sia in pari tempo voce di verità e di carità, non posso che raccogliere e riproporre alla meditazione degli ebrei dei nostri giorni, ciò che San Paolo Apostolo disse ai suoi connazionali nel discorso che tenne innanzi a loro in Antiochia di Pisidia. Dopo aver riassunto la storia del popolo d'Israele dalla sua dimora in Egitto, sino alla testimonianza che Dio rese a Re Davide, egli così parlò agli anziani e al popolo ebraico di quella città: «Dalla sua progenie (di Davide) Dio, secondo la sua promessa, ha suscitato il Salvatore per Israele: Gesù; avendo Giovanni, che andò avanti a Lui nella sua venuta, predicato il battesimo della penitenza a tutto il popolo di Israele; e presso a compiere la missione della sua vita, Giovanni diceva: «Chi credete che io sia? Non sono io quello; ma, ecco, viene dopo di me uno, del quale io non son degno di sciogliere dai piedi i calzari. Fratelli, figliuoli della stirpe di Abramo e quanti tra voi temono Dio, sappiate che la parola di questa salvezza è già venuta. Infatti, gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi, non avendo cognizione di Lui né delle voci dei profeti, che si leggono ogni sabato, condannandolo, le adempirono; pur non trovando in Lui causa di morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso; e dopo che ebbero finito di fare tutto quello ch’era stato scritto di Lui, depostolo dal legno, lo posero nel sepolcro. Ma Dio lo risuscitò da morte il terzo giorno, e fu visto per molti giorni da coloro che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e che ora sono suoi testimoni presso il popolo. E noi pure vi rechiamo la buona novella, che la promessa fatta ai nostri padri, Dio l’ha adempita con i nostri figli risuscitando Gesù come sta scritto anche nel salmo secondo: «Mio Figlio sei tu; oggi io ti ho generato» (At 13, 15-33). Se qualcuno, almeno qualcuno, ebreo o non ebreo poco importa, rileggendo e meditando questa pagina paolina, sentisse il bisogno di essere annoverato tra le membra del nuovo popolo eletto, divenendo figlio di Dio e coerede di Cristo, nel suo regno, sarei ben felice del mio non lieve lavoro, nel presentare, nella carità, la sola verità intorno alla morte di Cristo, divenuto pietra di scandalo per i negatori della Sua divinità; mentre, per coloro che credono in Lui, e Lo invocano, diveniva salvezza temporale ed eterna.
I
Voci di SS. Padri e di illustri esegeti
l Testo evangelico
«Pilato, visto che non approdava a nulla e che anzi il tumulto si faceva maggiore, prese un catino e si lavò le mani innanzi ai popolo, dicendo: «Io sono innocente del sangue di questo giusto; pensateci voi». E tutto il popolo replicò: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli»! Allora rilasciò loro Barabba e dopo aver fatto flagellare Gesù, lo diede nelle loro mani per essere crocifisso» (Mt 27, 24-26).
l Commento di Giovanni da Sylveira
n Pilato cerca in cinque modi di liberare Gesù
«Pilato, visto che non approdava a nulla...», considerando, cioè, che niente gli giovava ossia, nulla gli era propizio a placare la sommossa popolare, né la dichiarazione dell’innocenza di Gesù («Io non trovo nulla in Lui che lo renda meritevole di condanna»), né di averlo mandato ad Erode, né la promessa di castigarlo per indi rilasciarlo libero, né la proposta di liberarlo in occasione della Pasqua invece di Barabba, mentre vede che aumenta sempre più il furore popolare dopo aver dichiarato innocente Cristo più volte con le parole, ora dichiara la stessa innocenza di Lui, lavandosi le mani. Presa dell’acqua si lava le mani innanzi al popolo, servendosi - scrive a questo proposito Origene (Hom. 35) di uso giudaico, volendo placare il popolo, non soltanto con le parole, ma ancora con un fatto si lava le mani. Era costume infatti tra i giudei che trovandosi qualcuno ucciso, venivano gli Anziani al luogo in cui giaceva il cadavere, e si lavavano le mani a testimonianza della loro innocenza come era prescritto nel Deuteromio (Dt 21, 1-6). Perciò Pilato, quantunque romano e gentile si servì dell‘uso giudaico, e di esso si servì anche forse, perché la sua voce, che andava affermando l’innocenza di Gesù, difficilmente poteva udirsi in mezzo al grande tumulto del popolo (l’altoparlante doveva attender ancora molti secoli, per apparire sulle piazze!). E perciò, alla voce volle aggiungere un segno simbolico, affinché anche quelli più distanti potessero capire che egli rigettava tutta la responsabilità di quella condanna sopra i giudei. «Voi - dunque voleva dire il Preside - esaminate più esattamente questo delitto dell'uccisione di questo Giusto e considerate seriamente ciò che state per fare».
n La stoltezza di Pilato
Giustamente tutti i SS. Padri, in tal caso, disapprovano la condotta di Pilato. Egli infatti si lavò le mani, ma con questo atto non riuscì a lavarsi la coscienza che macchiò anzi enormemente condannando a morte il Giusto e il Santo; mostrandosi così stolto, timido, cieco e vile, non sapendo resistere e piuttosto assecondando l’ingiustizia. «Non cercare di divenire giudice se non hai forza di sradicare le ingiustizie», è detto nell'Ecclesiastico (7, 6), poiché è dovere del giudice comprimere e calmare il popolo sedizioso, servendosi se è necessario, anche delle forze armate come, d‘altra parte egli fece in circostanze analoghe come afferma Giuseppe Flavio (37 ca-103; Ant., lib. XVIII, cap. 4). E perché anche ora non si comporta allo stesso modo, ed invece condanna alla morte Gesù a causa del popolo sedizioso? San Pascasio (sec. V; Lib. XII in Mt) scrive: «Lava le sue mani, ma non lava la sua coscienza dalla colpa, poiché il giudice non deve cedere al timore, né ad altri impulsi degli avversari condannando il sangue innocente, dinanzi dichiarato giusto». La stessa cosa affermano Sant'Agostino (354-430; Serm. 118 De Tempore), San Leone Magno (m. 461; Serm. De Passione) San Giovanni Crisostomo (345 ca.-407; in cap. 23 Lc, n. 20) da cui il Bostrense ed altri prendono occasione per chiamare Pilato debole, vile e privo di animo virile.
n Il vero senso
E rispondendo tutto il popolo giudaico, il quale era ivi presente in gran numero, disse: «Il suo sangue cada su di noi». La frase è ebraica, e si trova spesso nella Sacra Scrittura. Nel Levitico (20, 9) si legge: «Il sangue suo sopra di lui»; in Giosuè (2, 19): «Il sangue di esso sia sopra il suo capo», e nel 2º libro di Samuele (3, 29): «Il sangue di Abner venga sopra il capo di Gioab». E similmente in altri luoghi. Il senso dunque di questa frase è: «Il suo sangue - cioè la colpa e la vendetta che s’incorre spargendo questo sangue e uccidendo questo uomo - venga imputata a noi, sia richiesta da noi. Prendiamo su noi stessi quella colpa, a noi venga imputata la sua morte e a noi e ai nostri figli venga imposta la pena che a tal delitto conviene».
n Imprecazione inumana e crudele
I giudei, gridando «Il suo sangue cada su di noi e sopra i nostri figli», affermano: «Se in questo affare vi è qualche colpa e se da essa dovrà seguire qualche vendetta che tu, o Pilato, temi, essa sia trasferita da Dio su di noi e sui nostri figli e noi e i nostri figli la sconteremo». Questa somma empietà dei giudei, pose in rilievo San Massimo (580 ca-662; Hom. III de Passione). «Empietà crudele ed inumana è quella dei giudei - dice il Santo - con la quale essi uccidono, non soltanto i figli presenti, ma anche quelli che dovranno ancora nascere! Quanto crudele ed inumana quella mano che lancia il sangue di Cristo contro gli stessi figli non nati, cosicché siano prima condannati che nati! Tale pena i giudei lasciarono in eredità ai loro figli». San Girolamo (347 ca-420) così commenta: «Questa imprecazione continua sino ad oggi sopra i giudei, e il sangue del Signore non cesserà di pesare su di loro, poiché, come predisse il profeta Daniele (9, 27): «Cesserà l‘offerta e il sacrificio, e nel Tempio vi sarà l’abominazione della desolazione, e fino alla consumazione, e al termine perdurerà la desolazione»! E, come soggiungono ancora San Girolamo e San Pascasio: «Tale eredità i giudei lasciarono ai loro figli; cioè il portare sulle loro spalle per tante generazioni, il peso del delitto dello spargimento del sangue del Signore». Quale nemico avrebbe mai potuto colpire gli ebrei con sciagura così enorme che peserà su di essi per serie così lunga di generazioni? «Purtroppo, quella sciagura che non seppero inventare i più fieri nemici - nota Arnoldo Carnot (Tract. I de verbis Domini) - seppero invece crearsi da se stessi i giudei. Osserva - scrive il citato autore - per quale errore, per quale sventura e perfidia dei principi sia stato ingannato il popolo, e quanta ruggine gli sia stata attaccata dall’autorità sacerdotale! Non temono di essere tacciati di omicidio in perpetuo, anzi hanno accusato su di sé e rovesciano sui propri figli il peso di così grande delitto, sottoscrivendo ben volentieri il decreto della propria condanna».
n Peccato che il tempo non distrugge
Di così grave peccato di effusione del sangue di Cristo - peccato che dopo mille anni appare ancora recente - San Giovanni Crisostomo (Hom. IV de Passione) scrive: «Senz’altro, enorme la gravità di un delitto, che non si cancella, né si dimentica, né, per trascorrere dei secoli, scompare.
Tale il delitto dello spargimento del sangue di Cristo, che macchia ancora i colpevoli [...]. Quale spada, quale scure non arrugginisce, né si consuma col passare del tempo? Soltanto la scure del peccato non cede al tempo, né teme di essere consumata dal medesimo».
n Dio mitigò la sentenza
In secondo luogo, si deve notare che, quantunque tale pena fu imprecata dagli ebrei sopra sè stessi, e sopra i propri figli, tuttavia il misericordiosissimo Dio mitigò quella sentenza applicandola soltanto agli increduli, e risparmiando i fedeli, come ebbe a notare San Giovanni Crisostomo (Hom. 87 in Mt): «Il misericordiosissimo Gesù - dice il santo Dottore - nonostante che i giudei impazzissero, sia contro sè stessi, che contro i loro figlioli, tuttavia Egli non volle condannare tutti, secondo la loro sentenza. E così, sia tra loro, che tra i loro figlioli scelse molti, i quali si pentirono, ed ebbero da Lui favori e doni copiosi. Fu infatti, dei loro Paolo e quelle molte migliaia che a Gerusalemme accolsero la fede, dei quali parlano gli Atti Apostolici (21, 29). In essi, infatti, San Giacomo dice a Paolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di giudei si sono convertiti alla fede». La stessa cosa insegna il medesimo Dottore in un’altra omelia (Hom. de Cruce ac latrone), confermando la sua tesi con l’esempio della fornace di Babilonia (Dn 3, 4). Dice dunque egli: «Il sangue di Cristo non è meno efficace del fuoco della fornace di Babilonia. Ora, quel fuoco seppe onorare e salvare i corpi dei santi, e bruciare i corpi de caldei. Dunque, il sangue preziosissimo di Cristo saprà ben salvare i credenti, e bruciare gli increduli. In terzo luogo va notato che il grido dei giudei ferì profondamente il Cuore di Cristo, come molte anime pie ebbero il privilegio di contemplare. Vide, cioè, Gesù, con grande dolore, come il Suo popolo, così gridando, sottometteva sè stesso e i propri figli a dure e gravi pene; mentre Egli veniva giudicato degno di morte dal Suo popolo, il quale invocava su sè stesso e sopra i suoi figli la pena e il castigo dello spargimento del suo sangue divino» (cfr. P.R.F. J. De Sylveira, Commentariorum in testum Evangelicum, Tom. V, Venezia 1728, pagg. 389-390, n. 36-46).
n Testo evangelico
«Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27, 25).
n Commento di Padre Agostino Calmet o.s.b. (1672-1757)
«Gli ebrei sentono ancora la forza di questa formidabile imprecazione pronunciata contro sè stessi, e la sentiranno sino alla consumazione dei secoli, come afferma San Girolamo. Il loro delitto è certamente più grave di quello di Pilato» (cfr. Padre A. Calmet os.b., Commentarius litteralis in omnes libros Veteris et Novi Testamenti, vol. VII, Augustæ Vindelicorum, 1760, pag 254. col. II).
n Commento di Padre Cornelio A Lapide s.j. (1567-1637)
«Tanto la colpa, come la vendetta del sangue di Gesù, che tu temi, o Pilato, da te sia trasferita su di noi e sui nostri figlioli, affinché se vi è colpa la scontiamo noi e i nostri posteri, nel giudizio di Dio vindice. Non riconosciamo colpa alcuna, noi, in questo affare, né perciò temiamo alcuna vendetta, e senza alcun timore l’assumiamo su noi stessi». Così essi divenuti ciechi e furiosi, posero sè stessi e i propri figli sotto l’impero della vendetta divina. Vendetta che ha pesato su di essi sino ad oggi, per 1600 anni. Cosicché, dopo la distruzione del popolo e della città di Gerusalemme, essi vanno raminghi per il mondo, senza città, senza Tempio, senza sacrificio, senza sacerdozio, senza Re, servi ovunque dei principi e di ogni gente. Per cui l’imperatore Tito, a castigo della crocifissione di Cristo, nell’assedio di Gerusalemme, mentre i giudei uscivano a torme in cerca di cibo, comandò che fossero crocifissi ogni giorno in numero di cinquecento, al punto di non esservi né spazio sufficiente per le croci, né croci sufficienti, per appendervi i corpi, come scrive Giuseppe Flavio (6, Belli c. 12). Continua - dice San Girolamo - questa imprecazione sui giudei sino ai nostri giorni, e il sangue del Signore non sarà tolto ai medesimi, perché, come predisse il profeta Daniele (9, 27), la desolazione durerà fino alla consumazione» (cfr. P. C. A Lapide s.j., Commentaria in quattuor Evangelia, Venezia 1661, pag. 372, col. 1).
II
DOCUMENTI ECCLESIASTICI
n A) Condanna della società «Gli amici d'Israele»
«Gli Acta Apostolicæ Sedis, del 2 aprile 1928 pubblicavano il seguente decreto che reca la data del 25 marzo: «Essendo stato sottoposta al giudizio di questa Suprema Sacra Congregazione del Santo Ufficio la natura e il fine della società detta «Gli Amici d'Israele» e il libro intitolato Pax super Israel, pubblicato e largamente diffuso dai capi della società, appunto perché ne fosse pubblicamente conosciuta l’indole e il metodo, gli E.mi Padri preposti alla tutela della fede e dei costumi, in sulle prime riconobbero in essa il lodevole intento di esortare i fedeli a pregare Dio e a lavorare per la conversione degli israeliti al regno di Cristo. Non è dunque meraviglia se, badando unicamente a questo fine, da principio, non solo molti fedeli e sacerdoti, ma anche non pochi Vescovi e Cardinali aderirono a tale società. Infatti, la Chiesa cattolica fu sempre solita pregare per il popolo giudaico depositario, fino alla venuta di Gesù Cristo, delle divine promesse, nonostante il susseguente suo accecamento, anzi appunto per questo spirito di carità la Sede Apostolica protesse il medesimo popolo contro le ingiuste vessazioni e, come riprova tutti gli odii e le animosità tra i popoli, così massimamente condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell'odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi col nome di «antisemitismo». Tuttavia, avvertendo e considerando che col tempo la società «Gli Amici d'Israele» aveva adottato un modo di operare e di parlare alieno dal senso della Chiesa, dalla mente dei SS. Padri e dalla stessa sacra Liturgia, gli E.mi Padri, udito il voto dei Consultori, nella Congregazione plenaria tenuta il mercoledì 21 marzo 1928, decretarono l’abolizione della società «Gli Amici d'Israele» e la dichiararono abolita di fatto, e ordinarono che nessuno in avvenire scriva o pubblichi libri od opuscoli che in qualsivoglia maniera favoriscano queste erronee iniziative. E nel giovedì seguente, 22 dello stesso mese ed anno, il SS.mo Signor Nostro Pio XI, nella solita udienza concessa all’Assessore del Santo Ufficio, udita la relazione della deliberazione presa, l'approvò la confermò e ordino di pubblicarla» (cfr. La Civiltà Cattolica, anno 79 [1928], vol. II, pagg. 171-172).
A proposito del citato decreto del Santo Ufficio, La Civiltà Cattolica nota, in un suo articolo, anzitutto che «[...] il testo del documento è tanto chiaro [...] e così precisamente determinato e circoscritto il senso della condanna, che non occorrono davvero commenti. Tuttavia, poiché [...] alcuni vi cercano cavilli per una parte o per altra, è bene siano fatte alcune osservazioni. Le quali possono ridursi alle seguenti: 1) la società «Amici d'Israele» all’inizio nacque sotto ottimi auspici ed ebbe sinceri intenti di apostolato: conversione dei giudei, particolarmente per mezzo della preghiera. 2) Perciò aderirono a quella società non soltanto ottimi fedeli, ma anche Vescovi e Cardinali fra i più eminenti. 3) Ben presto, però, si ebbero esagerazioni e deviazioni apparse sopra tutto in un opuscolo o piuttosto serie di opuscoli dal titolo Pax super Israel. 4) Da ciò, prima le disapprovazioni, ed infine l’autorevole condanna del Santo Ufficio. 5) Il quale, però, condannando la società «Amici d'Israele», non intese tuttavia condannare lo spirito di carità e di apostolato da cui ebbe origine; poiché la Sede Apostolica protesse il medesimo popolo giudaico contro le ingiuste vessazioni, e, come riprova tutti gli odii e le animosità tra i popoli, così, massimamente condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi col nome di «antisemitismo». La Chiesa cattolica, infatti, fu sempre solita pregare per il popola giudaico, depositario sino alla venuta di Gesù Cristo delle divine promesse, nonostante il susseguente suo accecamento, anzi per questo, e cioè per liberarlo dal medesimo. Dalla stessa condanna, quindi, emergono due punti ben certi: a) L’esempio della Chiesa che prega per i giudei, e la raccomandazione ai fedeli di fare altrettanto per i medesimi come più bisognosi di essere aiutati per uscire dal loro accecamento. b) La condanna speciale dell’odio contro il popolo giudaico, in particolare; non perché innocente, o più meritevole di altri del pari lontani dal cristianesimo, ma perché più degli altri popoli esposto all'odio per le sue malefatte. Così, è condannato nominatamente l’«antisemitismo», ma è condannato, come ben s'intende nella sua forma e nello spirito anticristiano. Senonché, una tale benignità della Chiesa e la doppia sua raccomandazione, sopra accennata contro l’«antisemitismo», non deve farci dimenticare o chiudere gli occhi a quella che è la triste realtà, come parve succedere ad alcuni fra i principali dirigenti e propagatori della società degli «Amici d'Israele». Ora, su questo particolare per l`appunto, insiste richiamandovi l’attenzione dei fedeli il decreto citato. E denuncia tutto l’inconveniente che ne deriva: quel modo di operare e di parlare alieno dal senso della Chiesa, dalla mente dei SS. Padri e dalla stessa sacra Liturgia che induce a decretare l'abolizione della società «Gli Amici d'Israele» e ad ordinare che nessuno in avvenire pubblichi libri od opuscoli che in qualsivoglia maniera favoriscano queste erronee inziative». Infine, la stessa Civiltà Cattolica rileva come, in realtà tornando al punto, a cui ci richiama il documento, al pericolo giudaico, esso minaccia il mondo intero per le sue perniciose infiltrazioni o ingerenze nefaste, particolarmente nei popoli cristiani, e più specialmente ancora nei cattolici e nei latini, dove la cecità del vecchio liberalismo ha maggiormente favorito gli ebrei, mentre perseguitava i cattolici e religiosi soprattutto. Resta il pericolo incalzante ogni giorno più, e se ne hanno «buone prove di ragione e di fatti, la frequente e innegabile alleanza con la Massoneria la Carboneria o altre sétte e congreghe, camuffate in apparenza di patriottiche, ma in verità fluttuanti o intese di proposito al sovvertimento, quantunque non mai confessato, della società contemporanea, religiosa e civile» (cfr. La Civiltà Cattolica, anno 79 [1928], vol. II, pagg. 335 e ss.).
n B) Monitum Sancti Ufficii
«Biblicarum disciplinarum studio laudabiliter fervente, in variis regionibus sententiæ et opiniones circumferuntur, quæ in discrirnen adducunt germanam veritatem historicam et obiectivam Scripturae Sacrae non modo Veteris Testamenti (sicut Summus Pontifex Pius XII in Litteris Encyclicis Humani generis iam deploraverat, cfr. A.A.S., XLII, 576), verum et Novi, etiam quoad dicta et facta Christi Iesu. Cum autem huiusmodi sententiæ et opiniones anxios faciant et Pastores et christifideles. Em.mi Patres fidei morumque doctrinæ tutandæ præpositi, omnes qui de Sacris Libris sive scripto slve verbo agunt, monendos censuerunt ut semper debita cum prudentia ac reverentia tantum argumentum pertractent, et præ oculis semper habeant SS. Patrum doctrinam atque Ecclesiæ sensum ac Magisterium, ne fidelium conscientæ perturbentur neve fidei veritates lædantur. (N. B.: Hoc Monitum editur consentientibus etiam Em.mis Patribus Pontificiæ Cornmissionis Biblicæ. Daturn Romæ, ex Aedibus S. Officii, die 20 iunii 1961. Sebastianus Masala, Notarius» (cfr. Osservatore Romano, del 22 giugno 1961, pag. 1).
n Traduzione
«Con il lodevole rifiorire dello studio delle discipline bibliche, in varie regioni circolano, però, sentenze ed opinioni che mettono in dubbio l'autentica verità storica e obiettiva della Sacra Scrittura, non solo del Vecchio Testamento (come il sommo Pontefice Pio XII già aveva deplorato nelle lettere dell'enciclica Humani generis; cfr. A.A.S. XLII 576), ma anche del Nuovo Testamento, perfino quanto riguarda i detti e i fatti di Nostro Signore Gesù Cristo. Poiché simili sentenze ed opinioni turbano Pastori e fedeli, gli Eminentissimi Padri preposti alla difesa della fede e dei costumi, ritennero di ammonire tutti coloro che si occupano, per iscritto o a voce, di libri sacri, affinché trattino un sì importante argomento con la debita prudenza e riverenza, ed abbiano sempre davanti agli occhi la dottrina dei Santi Padri, il pensiero e il Magistero della Chiesa, affinché le coscienze dei fedeli non siano turbate, né lese le verità della fede». (N.B.: Questo monito è stato emesso col consenso anche degli Eminentissimi Padri della Pontificia Commissione Biblica. Dato a Roma, dalla Sede del Sant'Uffizio, il 20 giugno 1961. Sebastiano Masala, Notaio.
Parodia del Vangelo o presa in giro di certi esegeti (!?!) moderni? A proposito di articoli di riviste, dobbiamo notare, non senza meraviglia e sorpresa, ciò che fu scritto su Luce e amore, organo del movimento apostolico ciechi (anno XI, nº 1, gennaio 1961, Lodi Milano). Pur riferendo, infatti, il brano evangelico di San Matteo (27, 21-26), con un candore che pare sfiori l’idiozia, l’autore dell’articolo - che si onora del titolo «La colonna di P. Marzano» - deplora, anzitutto, che la frase «criminale» dei capi, o guide spirituali (come scrive il Ricciotti) e del popolo ebraico «il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli» sia stata cotanto incriminata dalla tradizione cristiana e perciò da uomini come San Girolamo, San Giovanni Crisostomo ed altri della stessa misura... Si passa, quindi, con pari passo e... candore all’affermazione che «tutto il popolo» di cui parla San Matteo, non può indicare che qualche «centinaio di persone, più o meno anonime, facili all’entusiasmo, e perciò talmente scusabili» che non tocca a noi giudicarle... Non vi pare che si tratti anche qui di un saggio esegetico intoccabile e cioè non giudicabile da noi, miseri mortali? Senonché, a noi pare che non si tratta di un nostro giudizio, bensì di quello che ne fece Cristo stesso, il quale ebbe ad affermare - se non erriamo - che il rifiuto di Lui sarebbe stato pagato con l’abbandono da parte di Dio e con la distruzione della città deicida: «Gerusalemme Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte volli adunare i tuoi figliuoli come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali, e non hai voluto! Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta, poiché io vi dico che non mi vedrete d’ora in poi finché non diciate: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23, 37-39; Lc 13, 34-35). «Quando fu vicino alla città la guardò e pianse su di lei dicendo: «Oh! Se avessi riconosciuto anche tu in questo giorno, quel che giova alla tua pace! Ma ormai è rimasto nascosto ai tuoi occhi»! (Lc 19, 41-42). Che farà Dio di coloro che hanno ucciso il suo Figlio? «Egli colpirà senza pietà quei malfattori e affiderà la vigna ad altri vignaioli che gli renderanno frutto a suo tempo» (Mt 21, 2l-40 e ss). «Perciò io vi dico - è Gesù che continua a parlare - che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare. E chi cadrà su questa pietra si sfracellerà, ed essa stritolerà colui sul quale cadrà» (Mt 21, 43-44). Poco prima, infatti, citando la Sacra Scrittura (Sl 118, 22 e ss; Is 28, 16) Gesù ha applicato a sé: «La pietra che hanno scartato i costruttori, questa è diventata capo d’angolo; questa è la opera del Signore ed è meravigliosa ai nostri occhi» (Mt 21, 42; At. 4, 11; 1 Pt 2, 4). «I principi dei sacerdoti e gli scribi, udite le sue parabole, capirono che parlava di loro e volevano impadronirsi di lui; ma avevano paura del popolo che l’aveva in conto di profeta» (Mt 21, 45-46). Capirono «gli scribi», di allora... Non capiscono o fingono di non capire «gli scribi» di oggi... Eppure, oggi, attraverso la Storia - che non ha mai smentito, ma ha piuttosto confermato il Vangelo - il Vangelo si dovrebbe capire più facilmente, che non capissero gli scribi e farisei del tempo di Gesù... Il colmo poi di certi scrittori moderni è che si cita il Vangelo, magari con esattezza, e poi se ne dà un'interpretazione tutta opposta a quella che ne diedero i Padri e Dottori e gli esegeti più insigni. Ma anche Lutero e i protestanti di ogni tempo hanno fatto e fanno metodicamente così. Ci vuole veramente del coraggio a scrivere in tal modo... I romani si domanderebbero se mai tali scrittori vadano per «micchi», e se per trovarli più facilmente abbiano scelto proprio l’ombra della «Colonna di P. Mariano», levata alta sulle pagine di Luce ed amore. Altre affermazioni soltanto fantastiche, e senza alcun fondamento storico e teologico, si fanno all’ombra della stessa «Colonna». Ma noi, poiché tutto ciò che ivi viene ripetuto lo abbiamo già largamente confutato attraverso le pagine del nostro opuscolo, ci asteniamo dal procedere oltre nell’enumerare le svariate inesattezze ivi asserite e soltanto ci domandiamo: si tratta forse, di parodiare il Vangelo, in codesta esegesi di nuovissimo conio, oppure si tratta di prendere in giro gli autori di certe peregrine novità, dal gusto molto discutibile? Se fosse vero, infatti, ciò che è stato scritto in questi ultimi tempi in un certo opuscolo dal titolo Il Sangue di Lui e ciò che ripetono, senza darsi cura di un minimo controllo critico, alcune riviste e giornaletti, come Palestra del Clero, Digest-religioso e Luce e amore per i ciechi, bisognerebbe riformare tutti i testi di religione, da quelli più elementari a quelli universitari; tutti i trattati di Storia, sacra e profana, che parlano della morte di Cristo, e dei giudei, autori della medesima. Bisognerebbe infine correggere la Divina Commedia di Dante Alighieri, il quale (povero ingenuo anche lui) nel Purgatorio (21, 82-84), e nell’Inferno (23, 109-123) ritiene i giudei responsabili della morte di Cristo, e perciò bolla di santa ragione Caifa, loro capo e ispiratore, nel chiederne la crocifissione.
III
DOCUMENTO STORICO APOLOGETICO
n Profezie di Gesù circa la catastrofe dell'anno 70
Al principio dell’ultima settimana, gli Apostoli contemplano ammirati la facciata esterna del Tempio. «Maestro, guarda che pietre, che fabbrica»!, dice uno di essi. Ma Cristo risponde: «Vedi tu questi grandi edifici? Non rimarrà pietra su pietra che non sia diroccata» (Mc 13, 1-2; Mt 24, 1-2). I dodici, stupiti, chiedono spiegazione: «Dicci, quando avverranno queste cose»? E Gesù allora enumera i segni precursori della grande catastrofe. Sorgeranno falsi Cristi e sedurrano molti (Mt 24, 5; Mc 13, 6; Lc 21, 9). La Palestina e le regioni circostanti saranno desolate dalla guerra e vi saranno terremoti, pestilenze e carestie (Mt 34, 7; Mc 13, 8; Lc 21.10-11). I seguaci di Gesù subiranno persecuzioni da parte della Sinagoga, ancora ricordata accanto ai tribunali dei gentili (Mt 24, 9-10; Mc 13, 9-13; Lc 21, 12). E vi saranno fenomeni spaventevoli e grandi segni nel cielo (Lc 21, 11). Poi, alla fine della «tribolazione» di quei giorni, Gerusalemme sarà circondata da eserciti, gli ebrei in gran parte passati a fil di spada, mentre gli altri, fatti prigionieri andranno a rifornire i mercati di schiavi. Gerusalemme sarà calpestata dai gentili finché i tempi dei gentili non siano compiuti, e poi si vedrà ciò che assomma e sorpassa tutti gli obbrobri: l'abominazione della desolazione predetta dal Profeta Daniele, ossia il culto idolatrico impiantato nel luogo santo (Mt 24, 15; Mc 13, 14; Lc 21-20-24; 19,43-44). E c’è anche la determinazione del tempo: «In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mt 24, 34; Mc 13, 30; Lc 21, 32). La profezia si è avverata alla lettera nei quarant'anni che seguirono la predizione di Gesù. Quali segni precursori della catastrofe finale, Cristo aveva predetto carestie, pestilenze e terremoti, persecuzioni, guerre. Tutto questo è attestato dal libro dello storico ebreo Flavio Giuseppe, La Guerra giudaica, e dai vari autori pagani. La carestia imperversò in Gerusalemme nel 44 (At 11, 27-30); in Roma nel 51 (Tacito, Annali, XII, 43); in Italia, nel 69, in seguito alle guerre civili. Vi furono terremoti in Italia nel 51 (ivi XII, 93), in Laodicea nel 60 (ivi, XIV 27), in Pompei nel 63 (ivi, XV, 22). Nel 65, malattie contagiose devastano la Campania. Nella sola città di Roma, in pochi mesi si hanno 30.000 morti (ivi. XVI, 13). Le persecuzioni sono note. Prima del 70, quasi tutti gli Apostoli avevano subito il martirio; da Roma le violenze ordinate da Nerone si erano estese a tutto l’impero. Contemporaneamente, nella Palestina e nell’impero romano scoppiano torbidi e guerre in gran numero (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 17, 10; 18, 1-8). Secondo le profezie dovevano sorgere falsi Messia. Flavio Giuseppe afferma che parecchi impostori vennero successivamente ad ingannare il popolo; tra gli altri, cita Teuda nel 40, sotto Claudio, e un certo Egiziano che radunò circa 30.000 uomini sul monte Oliveto. Gesù aveva predetto dei prodigi (Lc 21, 11). Lo stesso storico ne cita alcuni, che taluni interpretavano come segni di disgrazie, altri come promessa di salvezza. Una cometa che aveva forma di spada è ricordata da Flavio Giuseppe e fu visibile a Gerusalemme un anno intero. E nella notte fonda per una mezz’ora un gran chiarore simile al giorno apparve attorno all’altare e al Tempio. E la porta del Santuario, che appena venti uomini avrebbero potuto muovere, si aprì da sé. E nell’aria furono veduti carri pieni di soldati, che irrompevano attraverso le nubi e si accingevano a circondare la città. In una notte di Pentecoste, i sacrificatori udirono uno strano rumore e poi più volte una voce ripetere: «Uscite di qui! Uscite di qui»! Durante sette anni, un rozzo campagnolo chiamato Gesù non lasciava di percorrere le strade ripetendo: «Voce da Oriente, voce da Occidente, voci su Gerusalemme e sul Tempio», sino al giorno in cui la città fu assediata; allora egli aggiunse alle maledizioni abituali un «Guai anche a me»! E, colpito da una pietra, spirò. (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI, 7, 3). Tutto questo prima del grande sconvolgimento. Nel 66 scoppia una rivolta, provocata, dice Giuseppe, dal Procuratore Floro. Cestio Gallo, Proconsole di Siria, marcia contro la città ribelle e penetra tra le sue mura; ma presto è costretto ad una ritirata disastrosa. Roma non poteva restare sotto questa onta; quindi, doveva seguire una guerra micidiale. Allora i cristiani si ricordano dei consigli di Gesù (Mt 24, 15-20; Mc 13,1 14-16; Lc 21, 20-21), ripetuti da un veggente, e in fretta si rifugiano al di là del Giordano, a Pella (Eusebio, Hist. eccl., 1. III, c. 5). Infatti, nell’aprile del 70 le armate di Roma, comandate da Tito, ricompaiono davanti a Gerusalemme e comincia il terribile assedio. In breve la città è ridotta agli estremi e la fame vi impera così orribilmente che si vedono madri sgozzare e divorare i loro bambini. Finalmente avviene l’ultimo assalto. Se si crede a Flavio Giuseppe, nella sola città di Gerusalemme perirono 1.100.000 uomini e in tutta la Giudea 1.300.000 sono sottoposti ai più spietati supplizi o venduti schiavi. Nel giro di circa tre giorni la città è rasa ai suolo. Nonostante l’ordine contrario di Tito, anche il Tempio è incendiato. Un soldato romano, «spinto da forza divina», scrive Flavio Giuseppe, prese un tizzone ardente e lo scagliò nel Tempio dall’apertura di una finestra. Ben presto l’incendio divampo furioso e si propagò in modo incredibile, nonostante gli sforzi più disperati per domarlo; e in breve del Tempio non rimasero che ceneri e macerie. E proprio là dove stava il Santo dei Santi, i legionari piantarono le loro aquile e offrirono ai numi tutelari delle legioni i loro abominevoli sacrifici (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, V. 3, VI, 34; VI, 9-3; Tacito, Ann., II, 17). «è la fine tanto della vita nazionale quanto della vita religiosa di Israele; il sacrificio è cessato per sempre. Gerusalemme come città del Gran Re non esiste più, e molti secoli passeranno sulla tomba dell’antico popolo di Dio» (Lepin, Jésus Messie et Fils de Dieu, pag. 383). Nel 362, Giuliano L’Apostata volle dare una smentita alle profezie di Cristo e ordinò di riedificare il Tempio. La demolizione delle antiche fondamenta era quasi ultimata e si stava per passare alla posa della prima pietra del nuovo edificio, quando, secondo la testimonianza di Ammiano Marcellino, storico pagano e ufficiale dell’esercito imperiale, «spaventevoli globi di fuoco improvvisamente lampeggiarono a più riprese in mezzo agli operai e ne uccisero un gran numero e resero il luogo inaccessibile. Poiché tutti gli elementi parevano sfavorevoli, si dovette abbandonare l’impresa» (Ammiano Marcellino, Rerum gest., 1 23, c. 1). E ciò confessa l’imperatore stesso in una lettera che ci è pervenuta (Pinard, Il taumaturgo e il profeta, pag. 172, nota nº 19). Così la profezia riguardante il Tempio ricevette un'ulteriore e solenne conferma. Il castigo perdura tuttora ed è pur sempre vera la parola di Gesù: «Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, finché i tempi dei gentili non siano compiuti» (Lc 21, 24).
n Profezie circa la riprovazione della
sinagoga e la dispersione degli ebrei
A causa della loro ostinazione nel male, gli ebrei saranno esclusi dal regno spirituale fondato dal Messia, e il loro posto preso dai gentili. Ciò è così chiaramente indicato nelle parabole dei vignaioli perfidi (Mt e Lc 14, 1-25), che gli interessati capirono al volo. E i principi dei Sacerdoti e dei Farisei compresero che parlava di loro (Mt 21, 45). Dice loro Gesù: «Non avete ma letto nelle Scritture: la pietra che gli edificatori hanno riprovata è divenuta pietra angolare? Ciò è stato fatto dal Signore ed è meraviglioso ai nostri occhi (Sl 117). Per questo vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e dato a gente che ne produca i frutti» (Mt 21, 42-43). Gli ebrei non soltanto non faranno parte della Chiesa di Cristo, ma cesseranno anche di esistere come popolo, secondo l’affermazione delle profezie sulla rovina di Gerusalemme e sulla distruzione del Tempio già esaminate. «Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, finché i tempi dei gentili non siano compiuti» (Lc 21, 24). L’avveramento di questa profezia è di evidenza solare. Tutta la storia della Chiesa è lì ad attestarlo. Gli ebrei attendono ancora il Messia, rimanendo così esclusi dalla salvezza evangelica.
n La dispersione degli ebrei è attestata dalla storia profana
Quelli che scamparono dalla rovina della città, in parte furono disseminati nelle province dell’impero, in parte lasciati nella Giudea. Questi ultimi tentarono di sollevarsi sotto Adriano, che per farla finita una volta per sempre ne fece uccidere 6.000 e dispersi i rimanenti. Gli ebrei, però, benché come popolo siano cancellati dalla carta della terra, continuano a sussistere come razza, in eccezione alle leggi che reggono l’esistenza dei popoli, costituendo così una testimonianza perenne del compimento delle profezie e della maledizione che grava sul deicidio (cfr. Joseph Falcon, Manuale di Apologetica, 3ª ed., ed. Paoline, Alba 1954, pagg. 261-264). L’avveramento della profezia della catastrofe del 70 e della riprovazione della Sinagoga e la dispersione degli ebrei suggerisce al medesimo autore questa riflessione: «Si può dire anzi che (le predizioni del Salvatore) sono un argomento più forte di quello dei miracoli evangelici, perché alcune perdurano tuttora e noi possiamo constatarne l’adempimento coi nostri propri occhi» (ibid., pag. 267). Ma se la dispersione degli ebrei non fosse un castigo, meritato dai medesimi, per l’uccisione di Cristo, e gridando «il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli» - come ritiene qualcuno - quale valore avrebbero le parole riferite dello scrittore da noi citato? Vi pensino seriamente coloro che si associano agli scrittori ebrei nello scusare i medesimi dal delitto del deicidio...
IV
CONFERMA TEOLOGICA
Era già in corso di stampa questo modesto lavoro quando mi è capitata sotto lo sguardo una pagina del celebre teologo tedesco Michael Schmaus dal suo libro intitolato Le ultime realtà (ed. Paoline, 1960, pag. 152). Poiché mi è sembrato che riassuma egregiamente quanto ho scritto nel presente opuscolo, non ho saputo resistere alla tentazione di trascriverla. Chissà che non faccia un po’ di bene a quanti si oppongono al mio pensiero sulla responsabilità ebraica nella morte di Cristo: «Per il popolo ebraico è stata pronunciata una profezia affatto singolare» 39. L‘esistenza di questo popolo, i cui membri vivono dispersi fra tutti gli altri popoli, ai quali tuttavia non si assimilano, ma conservano la loro fisionomia particolare, rimane un enigma, finché si misura col metro che si applica alla Storia ordinaria. L’enigma si può sciogliere solo se si vede nella storia di questo popolo una speciale disposizione divina. Quando Federico II (1194-1250) domandò al suo medico personale svizzero Zimmerman se fosse in grado di dargli una prova convincente dell’esistenza di Dio, quello rispose: «Ma certo: il popolo ebraico». Il senso che la sopravvivenza del popolo ebraico ha nei consigli divini viene chiarito nella lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani. Paolo sofferse in modo acutissimo per il destino del suo popolo. Esso era il popolo eletto da Dio, aveva la figliolanza, la gloria, l’alleanza, la legge e le promesse. Da esso discendeva la natura umana di Cristo (Rm 9, 1-5). Purtroppo, i suoi politici e i suoi teologi disconobbero le promesse e consegnarono alla morte Colui che aveva avuto dal Padre il compito di adempierle. Perciò, secondo San Marco, l’ultima parola che Gesù rivolse pubblicamente al popolo ebraico è una parala di giudizio (Mc 12, 40). La massa, in antitesi con le sfere dirigenti, ostili fin da principio, tributò a Cristo per molto tempo affezione e onore, pur non intendendo il senso più profondo della Sua opera. L'opinione pubblica gli era in così alta misura favorevole, che i sommi sacerdoti non ardivano di arrestarlo e giustiziarlo in pubblico, per timore di una sollevazione popolare (Mc 11 18-32; 14, 11; Lc 22, 1; Mt 26, 5). Essi vedevano il pericolo che sotto l’influsso dei suoi prodigi tutti credessero in Lui, si piegassero alle Sue pretese messianiche e si sottraessero alle loro guide tradizionali. Quindi Egli doveva morire (Gv 11, 46-50). Ma prima di poterlo giustiziare bisognò cambiare l'opinione pubblica. Dopo molti falliti tentativi di comprometterlo clamorosamente, riuscì ai capi di sollevare la passione della massa contro Cristo, allorché Pilato in mancanza d’altre risorse, nel suo desiderio di liberarlo propose di scegliere tra la libertà dell’assassino politico Barabba, che evidentemente era una figura popolare, e quella di Cristo. Così, tutto il popolo partecipò al delitto dei capi e fu coinvolto nella medesima responsabilità. Al momento decisivo coscientemente prese su di sé la colpa, con tutte e le sue conseguenze (Mt 27, 25). Nell’esecuzione di Cristo l’intero popolo sigillò il ripudio del messaggio divino che doveva portargli il compimento delle divine promesse e si pose così sotto il giudizio che sovrasta a chiunque per incredulità rigetti Cristo (Gv 3, 18 e ss.). Gerusalemme mancò la sua ora (Lc 13, 25-30; 14, 24; 19, 39-48; Gv 12, 37; Mt 12, 9-14; 1 Ts 2, 14-16; 2 Cor 11, 22). Il giudizio incominciò con la rovina di Gerusalemme e proseguì lungo la Storia dell’umanità. Il popolo che sta sotto la maledizione di Dio non può vivere e non deve morire. Così vede San Paolo la posizione del suo popolo che egli ama e la cui sorte rappresenta per lui un grave dolore. I primi otto capitoli della Lettera ai Romani culminano nell'inno di vittoria degli eletti (8, 37 e ss.). Segue un silenzio, il grosso iato della lettera. San Paolo rimane in ascolto intorno a sé come un naufrago che si è salvato con pochi altri su una piccola imbarcazione, mentre in giro la notte è riempita dalle grida strazianti di aiuto di coloro che annegano. Dopo avere ascoltato a lungo, silenziosamente, l’Apostolo prosegue con la confessione di fedeltà a Israele: «Io porto nel cuore un grande dolore e un incessante lamento» (Rm 9, 2; Ez 9, 4; Mt 5, 4). Quindi, si leva la speranza sicura della vittoria: non sarà sempre così. «Gli atti di Dio relativi alla storia d’Israele non sono ancora chiusi» 40. La parola divina della promessa non è diventata inefficace per la ribellione del popolo eletto (Rm 9, 6). Giacché infine non tutto il popolo è indurito e rigettato, una parte, un «resto» si è rivolto con fede al Signore. Questa parte non è respinta. Perciò si può dire: «Dio non ha rigettato il popolo che ha prescelto» (12, 2; 9, 6-27; cfr. l’intero passo 11, 1-6). Le promesse si sono adempiute nei pochi che hanno creduto a Cristo. Questi sono divenuti il nucleo fondamentale della comunità di coloro che arrivano alla fede dal paganesimo. Così si è conservato il nesso storico tra l’antico e il nuovo apparso in Cristo. La salvezza, è vero, non è più legata ad Israele (Mt 3, 9; Lc 3, 8). Il nuovo popolo di Dio non viene radunato dalla cerchia dell’antico popolo eletto, ma dai popoli gentili. Gerusalemme, la città di Dio, non è più il punto centrale dominante del nuovo ordine; tuttavia, essa rimane il suo punto di partenza (Rm 11, 16-24; 2 Cor 8, 14; Gv 4, 22). Il resto d'Israele salvato è divenuto la radice dell’albero in cui gli uccelli del cielo trovano il loro rifugio. Sull’albero cresciuto dalla radice del Vecchio Testamento sono stati innestati i nuovi rami, i popoli gentili. Dio stesso ha piantato la radice. Egli non interrompe l’opera che ha incominciato, ma conduce al suo fine attraverso tutti gli umani ricalcitramenti (Rm 11, 11-24). Questo è il primo motivo di speranza per l’Apostolo. Il secondo è il seguente: se anche la maledizione accompagna lungo la storia il popolo che, ad eccezione di un resto, ha apostatato e chiama su di lui giudizio sopra giudizio, un giorno essa avrà fine. La maledizione ha una scadenza, perché anche l'indurimento ha una scadenza. Un giorno, il popolo ebraico troverà e seguirà la via verso Cristo. Se nonostante la sua disperazione tra cento altri popoli esso è da Dio conservato per la maledizione, come un segno del divino giudizio, esso è contemporaneamente conservato come segno della benedizione divina, che alla fine supererà la maledizione. Allora si compiranno in esso tutte le promesse fatte sin da principio, le quali non si sono potute realizzare per la sua resistenza. Allora si rivelerà l’amore di Dio per tutto il popolo convertito, non solo per un resto. «Perché i doni di grazia e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 29). La sordità e la cecità avranno fine allorché la pienezza dei gentili sarà entrata nel regno di Cristo (Rm 10, 8; 11, 25). Allora cesserà quello stato che la ragazza ebrea in Le Père humilié di Claudel descrive come suo proprio: «Molta acqua ci vuole per battezzare un giudeo! Non si depone così facilmente l‘abitudine vecchia di tanti secoli. Mi sembra di trascinare con me tutti i secoli dalla creazione del mondo. L’abitudine dell'infelicità, la laida familiarità col proprio ripudio. Era stata così lunga l’attesa, che non ci riuscì di trovare un altro atteggiamento; così grande la fede nella promessa non ancora adempiuta che non potemmo credere quando ci si disse che era quello».
La conversione e la salvezza del popolo eletto è legata al compimento del numero dei gentili. Allorché questo sarà raggiunto, verrà tolta la benda ora stesa sugli ciechi del suo cuore, per cui il popolo non riconosce Cristo (2 Cor 3, 15). Allora gli ebrei arriveranno ultimi là ove avrebbero potuto essere i primi (Mt 19, 30; 20, 16; Mc 10, 31; Lc 13, 30). Come i gentili devono sentirsi dire: «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4, 22), così alla fine i giudei dovranno sentirsi dire che la salvezza definitiva è legata alla salvezza dei gentili. E cosi l’intero Israele verrà salvato (Rm 11, 26). Alla fine, con questo atto salvifico, Dio, il quale è il Dio dei padri, rivelerà la sua fedeltà rimasta vittoriosa attraverso la storia dell’infedeltà umana. Cristo non apparirà per la seconda volta, finché questo evento non sia realizzato. Allorché esso sarà intervenuto, sì adempierà ciò che Dio promise per mezzo di Isaia: «Da Sion verrà il Salvatore (Is 59, 20). Allora avranno fine i mali che Cristo minacciò e si avvererà la sua promessa: «Gerusalemme Gerusalemme, che uccidi profeti e lapidi coloro che sono a te inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, ma voi non avete voluto! Ecco si lascia a voi la vostra casa deserta. Poiché io vi dico: d’ora innanzi più non mi vedrete finché diciate: «Benedetto chi viene nel nome del Signore»! (Mt 23, 37-39; Lc 13, 33-35; Sl 118; Sl 119, 26). Ogni qualvolta nella celebrazione eucaristica si pronuncia questa parola si anticipa quell’ora in cui il popolo d’Israele acclamerà al Signore, al Suo nuovo ingresso nel mondo. Una volta, allorché Egli entrò in Gerusalemme per la passione, acclamò a Lui una piccola parte del popolo (Mc 11, 10; Mt 21, 9), e nemmeno questa parte tenne fermo nei suoi sentimenti. Alla fine, al Suo ingresso pubblico nel mondo, il popolo intero acclamerà al suo trionfo.
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w Sacra Bibbia (La), Tradotta dai testi originali e commentata a cura e sotto la direzione di Mons. S. Garofalo, Roma 1960;
w Schmid J., L'evangelo secondo San Matteo, ed. Morcelliana Brescia 1957;
w Spadafora F., Gesù e la fine di Gerusulemme, Rovigo 1950; Dizionario Biblico, Roma 1955;
w Tertulliano, Contra Marcionem;
w Tommaso d'Aquino, Summa Theologica;
w Tondelli L., Gesù Cristo. Studio sulle fonti: il pensiero e l’opera, Torino 1936;
w Vanetti P., Il Vangelo unificato e tradotto dai testi originali, Venezia 1958;
w Vostè M. P. J., De passione et morte Jesu Christi, Roma 1957.
Nihil obstat quominus imprimatur
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Romæ, die 29 decembris 1960
(Fr. Ioannes Baptista A. Farnese)
Minister Provincialis O. F. M. Cap.
Imprimatur
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Verulis, die 20 novembris 1961
+ Carolus Livraghi
Ep.us Verulan - Frusinaten
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1 Cfr. I. Klausner, Iesus de Nazareth, Parigi 1933; J. Isaac, Iesus et Israël, Parigi 1948; P. Mariano, Il Sangue di Lui, Roma 1960; Palestra del Clero, nº 18, 15 settembre 1960, pagg. 969-976:
l La ben nota frase del popolo ebraico: «Il suo sangue (di Cristo) cada su noi e sui nostri figli», non è una frase crudele e criminale, bensì una «frase incriminata»;
l Tale frase non fu pronunciata da una folla di popolo come ritengono tutti gli esegeti, ma appena «da qualche centinaio di persone»;
l Quel centinaio di persone era una specie di accozzaglia «anonima, non qualificata, per rappresentare la volontà di tutta la città di Gerusalemme»;
l Quelle persone israelite e orientali, furono sobillate da alcuni capi religiosi, che non avevano assolutamente capito Gesù, né le Sue parole, né la Sua misteriosa realtà; quindi, nessuno può dire a che punto giunga la loro responsabilità e colpa, e perciò non tocca a noi giudicare la Storia. Pertanto, su questo punto, non può che tacere!;
l Del resto, quell'imprecazione o voto o presa di posizione giudaica («Il suo sangue cada su noi e sui nostri figli»), non ebbe nessuna conseguenza nella Storia; e, il ritenere che la distruzione di Gerusalemme e la dispersione del popolo ebraico nel mondo si debba ascrivere a quell'empia bestemmia non ha fondamento né storico, né teologico; nonostante che «da secoli, si sia ritenuto il contrario, anche da studiosi e pensatori di eccezione, come San Girolamo, Sant'Agostino, San Giovanni Crisostomo ed altri»;
l Gesù non e stato conosciuto da nessuno dei suoi uccisori: non dai soldati romani, «esecutori inconsci» di un’iniqua sentenza; non da Pilato che l’ha pronunciata. Non dai capi religiosi di Israele, né tanto meno dal popolo, che ne ha chiesto la morte di croce;
l Veri crocifissori del Messia non sono stati, come finora si è ritenuto, i giudei, bensì «tutti i peccatori»;
l Nulla autorizza a dire - neppure la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio e neppure la dispersione del popolo d’Israele dopo la morte di Cristo - che il popolo ebraico viva sotto i colpi di un misterioso castigo, per l'invocata morte del Messia;
l Israele è sempre il popolo eletto; non può chiamarsi «deicida»;
l Chissà che non debba essere la fede (ebraica) quella che insegnerà il bene al mondo e ai popoli, e che per questo, per questo soltanto, occorra che «i giudei soffrano»? (cfr. P. Mariano, Il sangue di Lui; Roma 1960);
l A Gerusalemme, Gesù è tradito da un discepolo, ma non per danaro. Cade nelle mani di una piccola cricca della famiglia sadducea e sacerdotale di Anna, invisa al popolo; sicché responsabile della Sua morte non sono né Pilato, né il Sinedrio, né il popolo (cfr. J. Steinman, La Vie de Jésus, Parigi, ed. Club del Libraires de France; cfr. L’Osservatore Romano, del 28 giugno 1961).
2 Cfr. G. Caprile, Atlante della Vita di Cristo, Firenze 1959, pag. 186.
3 Cfr. P. J. M. Lagrange, L'Evangelo di Gesù Cristo, Brescia, ed. Morcelliana, 1930, pag. 553.
4 Cfr. I. Giordani, Il Sangue di Cristo, Brescia 1943, pag. 110.
5 Cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo. Ristampa della 14ª ediz., ed. S.E.I., Torino, pag. 720, nº 589.
6 Ibid., pag. 554.
7 Cfr. J. Schmid, L’Evangelo secondo Matteo, ed. Morcelliana, Brescia 1957, pag. 454, 407; comm. a Mt 6, 33.
8 Cfr. Mons. E. Le Camus, Vita di Gesù Cristo, vol. III, Brescia 1934, pagg. 270-271.
9 Cfr. G. Papini, Storia di Cristo, vol. II, Firenze 1939, pagg. 532 e ss.
10 Cfr. Fr. I. M. Vostè o.p., De Passione et morte Iesu Christi, Roma 1937, pag. 168. Ecco il testo originale latino: «Illi vero obcæecati sibi suisque posteris imprecantur sequelas juridicas istius occisionis Messiæs quæ ideo est crimen Messiani populi Israel. Et respondens universus populus dixit: «Pas o laos en crimen nationale. Sanguis eius super nos et super filios nostros». Quomodo hæctremendaimprecatio impleta sit et impleaturs sciunt omnes, et testatur Judæus errans, sine ara, sine focis, in odio et infamia, signatus in fronte maledictione Cain. «Perseverat usque in præsentem diem hæc imprecatio super judæos, et sanguis Domini non auferetur ab eis».
11 Cfr. Verbum Salutis, Vangelo secondo San Matteo, Commento di A. Durand s.j., Roma 1955, pag. 550.
12 Cfr. O. Hophan, Il lieto messaggio, Torino 1951, pag. 4
13 Cfr. Tertulliano, Lib. II contra Marcionem, c. 15: PL 2, 302.
14 Cfr. San Giovanni Crisostomo, Hom. 87 in Mt.
15 Cfr. La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali e commentata a cura e sotto la direzione di Mons. Garofalo. Il Nuovo Testamento.
16 Cfr. P. Didon, Gesù Cristo, vol. II, Siena 1893, pagg. 187-189.
17 Cfr. G. Papini, op. cit., pagg. 404-405.
18 Cfr. Mons. F. Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme, Rovigo 1950, pagg. 10 e 125.
19 Cfr. F. Prosperini, in Il Quotidiano, del 28 novembre. 1960; in Il Quotidiano, del 22 luglio 1961.
20 Cfr. P. E. di Rovasenda, in Il Quotidiano, del 6 agosto 1960.
21 Cfr. F. Spadafora, Dizionario Biblico, Roma, 1955, pag. 216.
22 Cfr. I tesori di Cornelio A Lapide, tratti dai suoi commentari della Sacra Scrittura da don Barbier, nuova ediz. italiana a cura di don Giulio Albera, salesiano, vol. III, lett. P. F. 5, Torino 1930, pagg. 17, 20-21.
23 Cfr. P. G. M. Da Bergamo o.f.m., Pensieri ed affetti sopra la Passione di Gesù Cristo, vol. II, Padova 1755, medit. nn. 333-334-335.
24 Cfr. D. Alighieri, Inferno, 27, 118-120.
25 Cfr. San Lorenzo da Brindisi, Opera Omnia, vol. X, Pars t., Pataviie 1954, pag. 652.
26 Cfr. P. Mariano, op. cit., pag. 12.
27 Cfr. Sant'Agostino, Enarratio in psalmum 63; cfr. P. Barbette, La Passione di N. S. Gesù Cristo secondo il chirurgo, Torino 1919, pag. 229; San Giovanni Crisostomo, Hom. 82 in Mt.
28 Cfr. Gesù Cristo, Guida per il primo corso di cultura religiosa dell'A.C.I., Cenac. 1960, pag. 268.
29 Cfr. San Girolamo, De Scriptoribus Ecclesiasticis, cap. 77.
30 Cfr. Mons. E. Le Camus, op. cit., vol. III, pagg. 121 e ss;
31 Ibid., pagg. 121-122.
32 Cfr. P E. di Rovasenda o.p., in Il Quotidiano, del 19 novembre 1960, pag. 3.
33 Cfr. Mons. E. Le Camus, op. cit., vol. III, pagg. 121-122.
34 Cfr. San Lorenzo da Brindisi, op. cit., vol. X, P. I, pagg. 648-658.
35 Cfr. G. Ricciotti, op. cit., pagg. 630-632; nn. 520-521.
36 Cfr. J. Danielou, Il mistero della salvezza delle nazioni, Brescia 1954, ed. Morcelliana, pagg. 104-106.
37 Cfr. P. F. B. J. Da Sylveira, Commentarium in textum Evangelium, vol. V., Venezia 1728, pagg. 389-390, nn. 36-46.
38 Cfr. D. G. Rossi, Uomini incontro a Cristo, 1950, pagg. 125-126.
39 Cfr. E. Peterson, Die Kirche aus Iuden und Heidenz, 1933; F. W. Maier, Israel in der Heilgeschichte nach R. 9-11, 1929; S. Loesch, EpistulaClaudianas, 1930; E. Krebs, Urkirche und Iudenturn, 2ª ed., 1929; art. «Juifs in Dict. de théol. cath.», VIII, 1870-1914; O. Kuss, Kommmentar zurn Romerb Wrief, 1940, al cap. 9-11. Fr. Amiot, L’enseignement de Saint Paul, II, 2ª ed., 1938, pagg. 169 e ss.; H. De Lubac, Israël et la foi chrétienne, in collaborazione con F. Cheine, L. Richard et Y. Bonsirven, 1942.
40 Cfr. Stauffer, op. cit., pag. 170.