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Leone XIII
Exeunte iam anno


Sul declinare dell’anno in cui, per singolare dono e beneficio di Dio, abbiamo celebrato sani e salvi il cinquantesimo anniversario di sacerdozio, l’animo Nostro naturalmente ripercorre col pensiero i mesi trascorsi, e nel ricordo di tutto questo tempo grandemente si diletta.

E n’ha ben donde: infatti un avvenimento che Ci riguardava solo personalmente, e che non era né grande per se stesso, né meraviglioso per la novità, suscitò tuttavia negli animi un insolito entusiasmo, venendo celebrato con tante e così luminose manifestazioni di esultanza e di congratulazione che non si poteva desiderare di più.

La qual cosa certamente Ci tornò sommamente gradita ed amabile: ma ciò che soprattutto in essa apprezziamo è il significato delle dimostrazioni e la costanza nella fede apertamente professata. La concorde acclamazione, con la quale venimmo salutati da ogni parte, diceva chiaro ed aperto che da tutte le regioni le menti e i cuori sono rivolti al Vicario di Gesù Cristo; che, fra tanti mali dai quali siamo oppressi, gli uomini rivolgono fiduciosi gli sguardi alla Sede Apostolica, come ad una perenne e incontaminata fonte di salvezza; e che dovunque vige il nome cattolico, si rispetta e si venera, com’è doveroso, con ardente amore e somma concordia la Chiesa Romana, madre e maestra di tutte le Chiese.

Per queste ragioni nei trascorsi mesi più d’una volta levammo gli occhi al cielo, ringraziando Iddio ottimo ed immortale, che Ci aveva benignamente concesso una lunga vita e quel conforto delle Nostre pene, che più sopra abbiamo ricordato. Nello stesso tempo, appena Ci si offerse l’occasione, dichiarammo a chi di dovere la Nostra riconoscenza. Ora poi la chiusura dell’anno e del giubileo C’invita a rinnovare la memoria del beneficio ricevuto; e Ci torna molto gradito che la Chiesa tutta si unisca con Noi nel rinnovare il ringraziamento a Dio. Il Nostro cuore contemporaneamente domanda che attestiamo pubblicamente – e lo facciamo con la presente lettera – che come Ci furono di non lieve lenimento alle cure e ai travagli Nostri le molte prove di ossequio, di urbanità e di amore ricevute, così pure ne vivranno perenni in Noi la memoria e la riconoscenza.

Ma un più grave e santo dovere ancora Ci rimane. In questo trasporto di animi, esultanti nel rendere con inusitato ardore riverenza e onore al Romano Pontefice, Noi ravvisiamo la potenza e la volontà di Colui che suole spesso, e che solo può, trarre da minime cose il principio di grandi beni. Sembra infatti che il provvidentissimo Iddio abbia voluto, in mezzo a tanto traviamento d’idee, ravvivare la fede e offrirci insieme l’opportunità di richiamare il popolo cristiano all’amore di una vita migliore.

Pertanto non resta che metter mano all’opera, affinché il seguito corrisponda al felice inizio, e attivarsi al massimo affinché i disegni di Dio vengano compresi ed attuati. Allora finalmente l’ossequio verso la Sede Apostolica sarà pieno e perfetto in ogni sua parte, quando, associato all’ornamento delle virtù cristiane, valga a condurre gli uomini alla salvezza: risultato che è il solo desiderabile e duraturo in eterno.

Dall’alto del ministero apostolico, in cui la bontà di Dio Ci ha collocati, prendemmo spesso il patrocinio della verità, e Ci studiammo di esporre principalmente quei punti della dottrina che Ci sembravano più adatti alla necessità, e più proficui al pubblico bene, affinché, conosciuta la verità, ognuno, vegliando e cautelandosi, fuggisse il soffio nefasto degli errori. Ora poi, quale padre amantissimo verso i suoi figliuoli, Noi vogliamo parlare a tutti i cristiani e con familiare discorso esortare ognuno di loro a intraprendere un tenore di vita cristiana. Infatti, per ben meritare il nome di cristiano, oltre alla professione della fede occorre l’esercizio delle virtù cristiane, dalle quali non solo dipende l’eterna salvezza dell’anima, ma anche la vera prosperità sociale e la tranquillità del consorzio civile.

Se si esamina lo svolgersi della vita, non vi è chi non veda quanto i costumi pubblici e privati siano discrepanti dai precetti evangelici. Si adatta troppo bene alla nostra età quella sentenza dell’Apostolo Giovanni: "Tutto ciò che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita" (1Gv 2,16). I più, infatti, dimenticando il principio per cui nacquero ed il fine a cui sono chiamati, fissano tutti i loro pensieri e le loro sollecitudini nei vani e caduchi beni della terra; violentando la natura e scompigliando l’ordine stabilito, si rendono volontariamente schiavi di quelle cose che l’uomo dovrebbe, secondo ragione, dominare.

È poi naturale che con l’amore degli agi e dei piaceri si accoppî la cupidigia delle cose idonee a comprarli. Di qui quella sfrenata avidità di denaro che rende ciechi quanti invase, e corre tutto fuoco e a briglia sciolta a scapricciarsi, senza distinguere spesso il giusto dall’ingiusto, e non di rado con ributtante insulto alla miseria altrui. E così moltissimi, la cui vita nuota nell’oro, vantano a parole una fratellanza col popolo, che poi nell’intimo del cuore superbamente disprezzano. Allo stesso modo l’animo preso dalla superbia tenta di scuotere il giogo di ogni legge, calpesta ogni autorità, chiama libertà l’egoismo. "Come il puledro dell’onagro, ritiene di essere nato libero" (Gb 11,12).

Gl’incentivi del vizio e i fatali allettamenti al peccato avanzano: intendiamo dire le licenziose ed empie rappresentazioni teatrali; i libri e i giornali scritti per fare apparire onesto il vizio e sfatare la virtù; le stesse arti, già inventate per le comodità della vita e l’onesto sollievo dell’animo, sono utilizzate quale esca per infiammare le passioni umane. Né possiamo spingere lo sguardo nel futuro senza tremare, vedendo i novelli germi dei mali che vengono di continuo deposti e accumulati in seno alla adolescente generazione. Vi è noto l’andamento delle pubbliche scuole: in esse non si dà luogo all’autorità ecclesiastica; e proprio nel tempo in cui sarebbe sommamente necessario informare con la più solerte cura gli animi ancor giovani alla pratica dei doveri cristiani, tacciono il più delle volte gl’insegnamenti della religione. Gli adolescenti poi vanno incontro ad un pericolo maggiore, qual è una viziata dottrina; la quale sovente è tale che, più che ad istruire con la nozione del vero, serve ad infatuare la gioventù con i sofismi dell’errore.

Infatti nell’insegnamento delle scienze, moltissimi, trascurata la fede divina, amano filosofare col solo magistero della ragione; per cui, rimossi il solido fondamento e lo smagliante lume della fede, sono incerti in molte cose, e non distinguono il vero. Tale è il credere che quanto è nel mondo, tutto sia materiale; che gli uomini e gli animali abbiano identità d’origine e di natura; né mancano taluni che stanno in forse se vi sia, o no, un sommo artefice del mondo e dominatore delle cose, Iddio; ovvero errano grandemente, a mo’ dei pagani, intorno alla sua natura. Donde è necessario che vengano alterati anche il concetto e la forma della virtù, del diritto e del dovere. E così mentre essi boriosamente vantano grandemente la supremazia della ragione e magnificano oltre misura l’acume dell’ingegno, scontano con l’ignoranza d’importantissime verità la pena dovuta alla loro superbia. Col pervertimento delle idee, si infiltra fin nelle vene e nel midollo delle ossa la corruzione dei costumi, e questa in tale gente non può venire sanata che con grandissima difficoltà: poiché da un lato i falsi principi alterano il giudizio dell’onestà, e dall’altro manca la luce della fede cristiana, che è principio e fondamento di ogni giustizia.

Per queste ragioni vediamo ogni giorno in qualche modo coi nostri occhi da quanti mali sia travagliata la società umana. Il veleno delle dottrine rapidamente invase la vita pubblica e privata: il razionalismo, il materialismo, e l’ateismo partorirono il socialismo, il comunismo, il nichilismo: atre e funeste pestilenze, le quali dovevano logicamente e inevitabilmente scaturire da quei principi. In verità, se si può rigettare impunemente la religione cattolica, la cui divina origine è chiara per segni tanto evidenti, perché non si dovrebbero respingere le altre forme di culto, che certamente mancano di tali prove di credibilità? Se l’anima non è per sua natura distinta dal corpo, e per conseguenza, se nella morte del corpo nessuna speranza ci resta di un’eternità beata, perché dovremo noi sobbarcarlo a fatiche e a travagli al fine di sottomettere il talento alla ragione? Il sommo bene dell’uomo sarà riposto nel godimento degli agi e dei piaceri della vita. E poiché non v’è alcuno che per istinto e impulso di natura non tenda alla felicità, a buon diritto ognuno spoglierebbe gli altri, secondo le sue possibilità, per procacciarsi con le cose altrui il godimento della felicità. Né vi sarebbe potere al mondo che avesse così poderosi freni da imbrigliare le impetuose passioni; conseguentemente ove venga ripudiata la somma ed eterna legge di Dio, è inevitabile che il vigore delle leggi s’infranga, e ogni autorità si svigorisca. Ne consegue necessariamente che la società civile si sconvolga fin dal profondo, e che i singoli membri siano spinti a perpetua lotta dalla loro insaziabile cupidigia, affannandosi gli uni a raggiungere gli agognati beni, e gli altri a conservarli.

Tale è certamente la tendenza dell’età nostra. Tuttavia vi è di che consolarci alla vista dei mali presenti, e sollevare l’animo a liete speranze per l’avvenire. Infatti "Dio creò tutte le cose perché esistessero, e fece sanabili le nazioni di tutto l’orbe" (Sap 1,14). Ma come questo mondo non può essere conservato se non dalla volontà e dalla provvidenza di Colui che l’ha creato, così pure gli uomini non possono essere risanati che dalla sola virtù di Colui che li ha redenti.

Infatti Gesù Cristo a prezzo del suo sangue riscattò una volta sola il genere umano, ma perenne e perpetua è l’efficacia di tanta opera e di sì gran beneficio: "e non c’è salvezza fuori di Lui" (At 4,12). Pertanto quanti si affaticano per estinguere, a forza di leggi, la crescente fiamma delle passioni popolari, essi si affaticano sì per la giustizia, ma si debbono anche persuadere che con nessuno o con scarsissimo risultato consumeranno la fatica, ove persistano a ripudiare la forza del vangelo e a non volere la cooperazione della Chiesa. La guarigione dei mali è riposta in questo che, mutato indirizzo, gl’individui e la società ritornino a Gesù Cristo e al retto cammino della vita cristiana.

Ora la sostanza e il perno della vita cristiana consistono nel non assecondare i corrotti costumi del secolo, ma nell’osteggiarli con virile fermezza. Questo ci insegnano le parole e i fatti, le leggi e le istituzioni, la vita e la morte di Gesù, "autore e perfezionatore della fede". Dunque, per quanto il guasto della natura e dei costumi ci attiri altrove, lontano dalla meta, occorre che noi corriamo "alla tenzone che ci aspetta", agguerriti e pronti con quel coraggio e con quelle armi con le quali Egli, "propostosi il gaudio, sostenne la croce" (Eb 12,1-2).

Gli uomini vedano pertanto e comprendano quanto sia lontano dalla professione della fede cristiana il seguire – come si fa oggi – ogni sorta di piaceri e rifuggire le fatiche, compagne della virtù e nulla rifiutare a se stesso di quanto piacevolmente e delicatamente alletta i sensi. " Coloro che sono di Cristo hanno crocifisso coi vizi e le concupiscenze la propria carne" (Gal 5,24): dal che si rileva che non sono di Cristo coloro i quali non si esercitano né si abituano a patire, disprezzando le mollezze e la voluttà. L’uomo, mercé l’infinita bontà di Dio, fu restituito alla speranza dei beni immortali dai quali era precipitato; ma non può conseguirli, se non cercando di calcare le orme di Cristo, meditandone gli esempi, conformando a Lui il cuore e i costumi. Pertanto non è consiglio, ma dovere, né solamente per quelli che abbracciarono un genere di vita più perfetto, ma per tutti, "il portare nel corpo la mortificazione della carne" (2Cor 4,10). Come potrebbe altrimenti rimanere salda la stessa legge di natura, la quale comanda all’uomo di vivere virtuosamente? Infatti col santo battesimo si cancella la colpa che si contrasse nascendo, ma non per questo vengono recisi i rei germogli innestati dal peccato. Quella parte dell’uomo che è irragionevole, ancorché non possa nuocere a chi, mercé la grazia di Cristo, si oppone virilmente, tuttavia contrasta con il regno della ragione, turba la pace dell’animo e tirannicamente trascina la volontà lontano dalla virtù con tanta forza che, senza una lotta quotidiana, non possiamo né fuggire il vizio né compiere i nostri doveri. "Il santo Concilio riconosce e dichiara che nei battezzati rimane la concupiscenza, o stimolo, che, lasciata all’uomo per la battaglia, non può nuocere a chi non si arrende, ma anzi la respinge virilmente con la grazia di Gesù Cristo; chi debitamente combatterà, verrà coronato" . In questa battaglia vi è un grado di forza a cui non perviene che una virtù eccellente, cioè quella di coloro i quali, combattendo i moti contrari alla ragione, si avvantaggiarono a tal punto che sembrano condurre in terra una vita quasi celeste.

Per quanto sia di pochi una così rilevante perfezione, tuttavia, come la stessa antica filosofia insegnava, nessuno deve lasciare senza freno le proprie passioni, soprattutto coloro che utilizzando ogni giorno le cose terrene sono più esposti ai pericoli del vizio, a meno che qualcuno non pensi stoltamente che deve essere minore la vigilanza dove è più imminente il pericolo, o abbiano meno bisogno della medicina coloro che sono più gravemente ammalati. Quanto poi alla fatica che viene sostenuta in tale lotta, essa viene compensata, oltre che dai beni celesti e immortali, anche da altri grandi vantaggi, il primo dei quali è che, riordinati gli appetiti dell’uomo, moltissimo si rende alla natura della sua dignità primitiva. Infatti, con questa legge e con quest’ordine l’uomo venne creato affinché l’anima dominasse il corpo, e la cupidigia fosse governata dalla ragione e dal buon senso: da ciò deriva che il non darsi in preda alle tiranniche passioni sia la più sublime e desiderabile libertà.

Inoltre, senza quella disposizione di animo, non si vede che cosa ci si possa aspettare di bene nella stessa società umana. Potrà, per ventura, essere propenso a beneficare gli altri chi è abituato a prendere norma e misura di quanto deve fare, o fuggire, dall’amore di se stesso? Nessuno, che non sappia dominare se medesimo, e disprezzare per amore della virtù tutte le cose umane, può mai essere né magnanimo, né benefico, né misericordioso, né disinteressato.

Non taceremo nemmeno che gli uomini – come è deciso dalla volontà divina – non possono raggiungere la salvezza senza fatica e senza pena. Infatti, se Dio concedette all’uomo la liberazione dalla colpa e il perdono dei peccati, glieli accordò con questa legge: che il suo Unigenito ne portasse la giusta e dovuta pena. E Gesù Cristo, pur potendo per altre vie soddisfare alla giustizia divina, volle piuttosto soddisfarla a prezzo di sommi tormenti, col dono della vita. E ai discepoli e seguaci impose questa legge suggellata col suo sangue: che la loro vita fosse una continua battaglia coi vizi dei costumi e dei tempi. Che cosa formò invitti gli Apostoli nell’addottrinare con la verità il mondo, e rinvigorì innumerevoli martiri nel dare testimonianza alla fede cristiana con la prova suprema del sangue, se non la disposizione dell’animo ossequiente senza timore a detta legge? Non scelsero di andare per altra via quanti ebbero a cuore di vivere cristianamente e di procacciare con la virtù il proprio bene; né per altra dobbiamo incamminarci noi, se vogliamo provvedere alla nostra e alla comune salvezza.

Pertanto, in mezzo a questa spudorata e dominante licenza, è necessario che ciascuno virilmente si difenda dagli allettamenti della lussuria; e poiché è tanto sfrontata l’ostentazione che si suol fare di una vita agiata ed opulenta, è anche necessario premunire l’animo contro il fascino del lusso e delle ricchezze, affinché il cuore, desiderando quelle cose che si dicono beni ma che non possono sfamarlo e sono fugaci, non venga a perdere un tesoro immarcescibile in cielo. Da ultimo, è altresì da deplorare che massime ed esempi dannosi abbiano avuto tanta forza da effeminare gli animi a tal punto che moltissimi oggi arrossiscono del nome e della vita cristiana, il che è proprio o di una profonda corruzione, o di una grande insipienza. Entrambe detestabili, entrambe tali che non può capitare all’uomo un male peggiore. Infatti, quale scampo rimarrebbe agli uomini, o in che cosa appoggerebbero essi la loro speranza, se tralasciassero di gloriarsi del nome di Gesù Cristo e ricusassero di comportarsi a viso aperto e con fermezza secondo i precetti evangelici? È comune lamento che la nostra età è infeconda di uomini forti. Si richiamino in vigore i costumi cristiani, e con ciò saranno restituite fermezza e costanza alle umane capacità.

Ma a tanta grandezza e varietà di doveri la virtù dell’uomo non può bastare da sola. Quindi conviene che, come si domanda a Dio il pane quotidiano per alimento del corpo, così pure da Lui s’implorino la forza e il vigore per l’anima, affinché questa si consolidi nella pratica della virtù. Per cui, quella comune legge e condizione della vita, che dicemmo consistere in un perpetuo combattimento, va sempre congiunta con la necessità della preghiera, poiché, come con verità e grazia dice Agostino, la pia orazione trascende gli spazi del mondo e fa scendere dal cielo la misericordia divina. Contro gli assalti delle torbide passioni e contro le insidie del demonio dobbiamo, per non essere irretiti dalle sue frodi, chiedere i conforti e gli aiuti celesti, secondo il divino oracolo: "Pregate per non cadere in tentazione" (Mt 26,41). Quanto maggiormente ne abbiamo bisogno, se in più vogliamo procurare la salvezza agli altri! Cristo Signore, l’Unigenito Figlio di Dio, fonte d’ogni grazia e virtù, ci comandò con le parole quanto per primo ci dimostrò con l’esempio, "trascorrendo le notti nella preghiera a Dio" (Lc 6,12), e vicino al sacrificio "pregava più intensamente" (Lc 22,43).

Per la verità assai meno sarebbe da temere la fragilità della natura, né i costumi si pervertirebbero nell’ozio e nell’infingardaggine, se questo divino precetto non fosse così spesso per negligenza o per stanchezza trascurato. Infatti Dio è placabile con la preghiera; Egli vuole beneficiare gli uomini, e ha chiaramente promesso che a larga mano darà dovizia di grazie a chi gliene chiederà. Ché anzi Egli stesso ci invita, e quasi ci provoca con amorevolissime parole: "Io vi dico, chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi verrà aperto" (Lc 11,9). E affinché non temiamo di pregarlo con fiducia e familiarità, tempera la sua divina maestà con l’immagine e la somiglianza di un tenerissimo padre a cui nulla è più caro dell’amore dei figli: "Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano?" (Mt 7,11).

Chi avrà meditato queste cose, non si meraviglierà se a Giovanni Crisostomo la preghiera sembra tanto efficace da reputarla paragonabile alla stessa potenza di Dio. Infatti, nello stesso modo in cui Dio con una parola creò l’universo, l’uomo con la preghiera ottiene da Lui ciò che vuole. Niente è più efficace per ottenere grazie, quanto le buone orazioni, poiché esse contengono quei motivi dai quali Iddio si lascia più facilmente placare e intenerire. Nell’orazione noi storniamo l’animo dalle cose terrene e, attratti col pensiero nella contemplazione del solo Dio, abbiamo coscienza dell’umana debolezza: pertanto riposiamo nella bontà e nell’amplesso di nostro Padre, e cerchiamo rifugio nella potenza del Creatore. Noi ci presentiamo con insistenza all’Autore di tutti i beni, come per mostrargli l’anima nostra inferma, le forze fiacche e la nostra indigenza; pieni di speranza imploriamo tutela e soccorso da Colui che solo può somministrare il rimedio alle nostre infermità e offrire conforto alla nostra miseria e alla nostra debolezza. Grazie a questa umile e modesta disposizione d’animo, necessaria da parte del credente, meravigliosamente Iddio si piega a clemenza; perché, come resiste ai superbi, "così dà grazia agli umili" (1Pt 5,5).

Sia dunque sacra a tutti la pratica dell’orazione: preghino la mente, l’anima, la voce, e concordi il vivere con il pregare; affinché la nostra vita, mercé l’osservanza delle leggi divine, appaia un continuo volo dell’anima a Dio.

Come tutte le altre virtù, così anche questa di cui parliamo venne generata e sorretta dalla fede divina. Infatti Dio è Colui che ci dà a intendere quali siano i veri e desiderabili beni; e ci fa conoscere la sua infinita bontà e i meriti di Gesù Redentore. Ma niente vien meglio in aiuto ad alimentare e crescere la fede quanto la pia pratica dell’orazione. Appare chiaro quanto sia stringente il bisogno di tale virtù, che in molti è rilassata e in altri addirittura spenta. Infatti da essa deve specialmente attendersi non solo la correzione dei costumi privati, ma anche la norma per giudicare di quelle cose, il cui conflitto non lascia gli Stati tranquilli e sicuri. Se il popolo è tormentato da una sete ardente di libertà, se dappertutto scoppiano minacciosi i fremiti dei proletari, se la snaturata ingordigia dei più ricchi non dice mai basta, e se vi sono altri sconci di tal fatta, a questo certamente non si può recare, come altra volta più diffusamente dimostrammo, un rimedio migliore e più sicuro della fede cristiana.

Qui cade in proposito rivolgere il pensiero e la parola a voi tutti, che Dio elesse a suoi cooperatori nell’amministrazione dei misteri e investì del suo divino potere. Ove si ricerchino le cause della privata e pubblica salute, non v’ha dubbio che, sia per il bene, sia per il male, influiscono assai la vita e i costumi degli ecclesiastici.

Si ricordino dunque di essere da Cristo chiamati "luce del mondo"; poiché "come la luce che irraggia tutto l’orbe, conviene che splenda l’anima del sacerdote" . Si ricerca nel sacerdote un lume non comune della dottrina, dato che è suo compito infondere negli altri la sapienza, estirpare gli errori, essere guida del popolo per gli sdrucciolevoli e incerti sentieri della vita. La dottrina poi vuole innanzi tutto avere per compagna l’innocenza della vita; massime perché nella riforma degli uomini si ottiene più con gli esempi che con la parola: "Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone" (Mt 5,16). Questa sentenza divina significa che nei sacerdoti la perfezione e la raffinatezza della loro virtù devono essere tali da servire da specchio a chi li osserva. "Nulla meglio ammaestra gli altri nella pietà e nel culto di Dio, come la vita e l’esempio di coloro che si dedicarono al divino ministero, poiché, essendo essi esposti agli sguardi in luogo più alto e sovrastante le cose del mondo, tutti si specchiano in loro, e da loro prendono il modello da imitare" . Per la qual cosa se tutti gli uomini debbono accuratamente guardarsi di cadere nei pericoli dei vizi, e di non correre con smodato amore dietro le cose caduche, appare ben chiaro con quanta più ragione debbano fare ciò con ogni scrupolosa cura e con costanza i sacerdoti.

Ma non è sufficiente non servire alle passioni: la santità del loro sublime grado domanda in più che si abituino a padroneggiare virilmente se stessi e a sottomettere a Cristo tutte le forze dell’anima, specialmente l’intelletto e la volontà, che sulle altre dominano. "Tu che ti prepari ad abbandonare tutto, ricordati che tra le cose da lasciare vi è l’amore di te stesso, anzi, sopra tutto rinnega te stesso" . Quando essi abbiano sciolto e liberato da ogni cupidigia il cuore, allora finalmente concepiranno un alacre e generoso zelo per l’altrui salute, senza neppure provvedere abbastanza alla propria: "Un solo guadagno, un solo vanto, una sola gioia essi debbono cercare nei loro fedeli, ed è di studiarsi di preparare in essi un popolo perfetto. A questo fine tutti debbono adoperarsi, mortificando anche la carne e il cuore, e non badando a fatiche e pene, a fame e sete, a freddo e nudità" .

Codesta impavida e sempre desta virtù, che si prodiga per il bene del prossimo in ardue imprese, viene mirabilmente alimentata e rinvigorita dalla frequente contemplazione delle cose celesti, e quanto più ad essa si dedicheranno, tanto meglio comprenderanno la grandezza e la santità del ministero sacerdotale. Comprenderanno quanto sia deplorevole cosa che tanti, redenti da Gesù Cristo, piombino nell’eterna rovina: con la meditazione dell’essere divino ecciteranno maggiormente se stessi e gli altri all’amore di Dio.

Ecco la via sicurissima della salvezza pubblica. Però bisogna stare molto attenti che nessuno si abbatta per la grandezza delle difficoltà o disperi della guarigione per la permanenza dei mali. L’imparziale ed immutabile giustizia di Dio riserba il premio alle buone opere, la pena alle malvagie: ma quanto alle nazioni, che non possono propagarsi oltre la cerchia del tempo, conviene che esse abbiano la loro retribuzione su questa terra. Non è cosa nuova, è vero, che prosperi successi allietino una nazione peccatrice, e ciò per giusta disposizione di Dio, il quale, non essendovi popolo al mondo che sia privo di ogni onestà, con siffatti premi talora ricompensa le lodevoli azioni; come successe al popolo romano secondo Agostino. Nondimeno è legge stabilita che il più delle volte alla prospera fortuna giovi il pubblico culto della virtù, massime di quella che è madre di tutte le altre, cioè la giustizia. "La giustizia solleva, il peccato deprime e immiserisce i popoli" (Pr 14,34). Non vale qui rivolgere l’attenzione alla trionfante ingiustizia, né ricercare se vi siano regni i quali, correndo prospera la cosa pubblica e secondo i loro desideri, covino tuttavia nelle intime viscere il germe dei mali. Questo solo vogliamo che s’intenda, e di questi esempi è ricca la storia: doversi presto o tardi pagare il fio delle ingiustizie, e tanto più severamente quanto furono più durevoli i misfatti.

Quanto a Noi, Ci è di gran conforto la sentenza dell’Apostolo Paolo: "Tutte le cose sono vostre; voi siete di Cristo; Cristo è di Dio" (1Cor 3,22-23). Il che significa che per arcana disposizione della provvidenza divina il corso delle cose mortali viene retto e governato in modo che quanto succede agli uomini è subordinato alla gloria di Dio, e parimenti portano alla salvezza le opere di coloro che seguono Gesù Cristo sinceramente e di cuore.

Di questi è madre e nutrice, guida e custode la Chiesa, la quale, come con intima e immutabile carità è unita a Cristo, suo Sposo, così si associa con Lui nelle lotte e partecipa della vittoria. Non siamo dunque né possiamo essere inquieti per la causa della Chiesa: ma temiamo vivamente per la salvezza di moltissimi, i quali, voltate superbamente le spalle alla Chiesa, errando per vie diverse, precipitano nella dannazione, e Ci angosciamo altresì per quegli Stati che siamo costretti a vedere lontani da Dio, e con stupida sicurezza addormentati sull’orlo del precipizio. "Niente può stare a fronte della Chiesa... Quanti la combatterono, altrettanti perirono. La Chiesa trascende i cieli. La sua grandezza è tale che, combattuta, vince; insidiata, supera gli agguati... lotta e non è abbattuta, si azzuffa nel pugilato e non è mai superata" .

Né soltanto non è mai superata, ma conserva intera quella virtù riformatrice della natura, principio di salute ch’ella perennemente attinge e deriva da Dio: resta immutabile pur nel mutare dei tempi. Se già divinamente rigenerò il mondo invecchiato nei vizi e perduto nelle superstizioni, perché non potrà richiamarlo, traviato, sul retto sentiero? Tacciano una buona volta i sospetti e gli odii: e la Chiesa, tolti di mezzo gli ostacoli, sia ovunque padrona dei propri diritti, poiché ad essa spetta conservare e diffondere i benefici procurati da Gesù Cristo. Allora si potrà conoscere, attraverso l’esperienza, fin dove giunga il potere illuminante del Vangelo, e quanto possa la virtù di Cristo redentore.

Questo stesso anno prossimo a finire ha mostrato, come dicemmo all’inizio, non pochi indizi che la fede torna a rivivere nei cuori. Voglia Dio che questa piccola scintilla cresca in gran fiamma, la quale, distrutte le radici dei vizi, sgombri sollecitamente la via al rinnovamento dei costumi e ad opere salutari.

Noi, preposti al governo della mistica nave della Chiesa in tempi così burrascosi, fissiamo la mente e il cuore nel divino Pilota che siede invisibile a poppa, governandone il timone.

Tu vedi, o Signore, come da ogni parte erompano impetuosi i venti ed il mare si arruffi, levando altissimi flutti. Deh, Tu che solo lo puoi, comanda ai venti e al mare. Rendi all’umana famiglia la vera pace, che il mondo non può dare, e la tranquillità dell’ordine.

Cioè gli uomini, mercé la tua grazia e il tuo impulso, facciano ritorno all’ordine dovuto, restaurando nei loro cuori la necessaria pietà verso Dio, la giustizia e la carità verso il prossimo e la temperanza verso se stessi, con pieno dominio della ragione sull’ingordigia. Venga il tuo regno; e quelli stessi che lontano da Te si affaticano invano nella ricerca della verità e della salute, intendano che è indispensabile che a Te si assoggettino e Ti servano. Sono connaturate nelle tue leggi la giustizia e una soavità paterna: e Tu stesso spontaneamente ci doni, mercé la tua grazia, la possibilità di osservarle. La vita dell’uomo sulla terra è combattimento, ma Tu stesso "sei spettatore della battaglia, aiuti l’uomo a vincere, se è scorato lo rinfranchi, e se è vincitore lo coroni" .

Con l’animo sollevato da queste considerazioni verso una lieta e salda speranza, Noi amorosamente nel Signore impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo cattolico l’Apostolica Benedizione, auspice dei celesti doni e testimone della Nostra benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno del Natale di Nostro Signore Gesù dell’anno 1888, undecimo del Nostro Pontificato.