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Leone XIII
In plurimis


Fra le numerose e principali dimostrazioni d’affetto che quasi tutte le nazioni Ci hanno rivolto e ogni giorno Ci rivolgono per congratularsi con Noi del cinquantesimo anno di sacerdozio felicemente raggiunto, una in particolare, proveniente dal Brasile, Ci commuove: in omaggio a questo faustissimo evento sono stati restituiti a libertà molti di coloro che nei vastissimi territori di codesto impero gemono sotto il giogo della schiavitù. Infatti tale opera, ispirata alla misericordia cristiana, dovuta a uomini e a donne caritatevoli che collaborano con il clero, è stata offerta a Dio, autore e donatore di tutti i beni, come testimonianza di gratitudine per il dono dell’età e della salute a Noi benignamente elargito. Essa riuscì per Noi soprattutto accetta e gradita, tanto più che Ci confermava in questa lieta opinione: cioè che i Brasiliani intendono eliminare ed estirpare completamente la vergogna della schiavitù. Tale volontà popolare fu assecondata con lodevole impegno sia dall’Imperatore, sia dall’augusta sua figlia, nonché da coloro che governano lo Stato, con salde leggi promulgate e sancite a tal fine. Quanta consolazione Ci arrecasse tale evento, fu da Noi esternato nello scorso gennaio all’ambasciatore imperiale presso di Noi: aggiungemmo inoltre che avremmo Noi stessi indirizzato una lettera ai Vescovi del Brasile in favore degli infelici schiavi .

Noi invero presso tutti gli uomini facciamo le veci di Cristo, Figlio di Dio, il quale con tanto amore abbracciò il genere umano, che non solo non rifiutò d’intrattenersi con noi, dopo aver assunto la nostra natura, ma anche ebbe caro il nome di Figlio dell’uomo, dichiarando pubblicamente di aver stretto un legame con noi "per predicare la libertà agli schiavi" (Is 61,1; Lc 4,19) e, dopo aver liberato il genere umano dall’ignobile servitù del peccato, "per riunire in sé tutto ciò che è in cielo e tutto ciò che è in terra" (Ef 1,10), nonché per restituire all’antico grado di dignità tutta la progenie di Adamo, caduta nel precipizio del comune peccato. Afferma, assai a proposito, San Gregorio Magno: "Poiché il nostro Redentore, padre di ogni creatura, volle per amore assumere umana carne per infrangere con la grazia della sua divinità quel vincolo di schiavitù che ci stringeva e per restituirci all’antica libertà, si agisce in modo benefico e con beneficio del liberatore se vengono restituiti alla libertà in cui nacquero gli uomini che la natura originariamente creò liberi e che il diritto delle genti sottopose al giogo della schiavitù" .

Conviene dunque, ed è assolutamente dovere Apostolico, che da parte Nostra si favoriscano e si promuovano alacremente tutte quelle iniziative per cui gli uomini, sia singoli, sia associati, possano attuare le difese, in modo che siano alleviate le molte miserie che, come frutto di albero malato, derivarono dalla colpa del primo genitore; quelle difese, dunque, di qualunque genere, che non solo giovano molto alla cultura e all’umanità, ma conducono anche a quel totale rinnovamento che il Redentore del genere umano Gesù Cristo ebbe di mira e volle.

Ora, fra tante miserie, è da deplorare duramente la schiavitù a cui da molti secoli è sottoposta una parte non esigua della famiglia umana, riversa nello squallore e nella lordura, contrariamente a quanto in principio era stato stabilito da Dio e dalla Natura. Così infatti aveva decretato il supremo Creatore d’ogni cosa: che l’uomo esercitasse una sorta di signoria regale sugli animali di terra, di mare e sugli uccelli e non già che dominasse sugli uomini suoi simili. Secondo Sant’Agostino: "Creato ragionevole, a Sua immagine, non volle che l’uomo dominasse se non gli esseri irragionevoli; che l’uomo non dominasse l’uomo ma il gregge" (Gen 1,26). Pertanto "la condizione servile s’intenda giustamente imposta al peccatore. Infatti in nessun luogo delle Scritture leggiamo la parola servo, prima che con essa il giusto Noè punisse il peccato del figlio. Pertanto la colpa e non la natura meritò tal nome" (Gen 1,25)

Dal contagio del primo peccato derivarono tutti gli altri mali e codesta mostruosa perversità: che vi fossero uomini i quali, respinto il ricordo della originaria fratellanza, non già coltivavano, secondo natura, la reciproca benevolenza e il mutuo rispetto, ma, succubi della loro cupidigia, cominciarono a considerare gli altri uomini al di sotto di sé e quindi a trattarli come giumenti nati per il giogo. In tal modo, senza alcun rispetto né della comune natura, né della dignità umana, né della espressa divina somiglianza, avvenne che, attraverso battaglie e guerre che poscia si accesero, coloro che con la forza riuscirono vincitori sottomisero i vinti, e così una indivisibile moltitudine della stessa specie a poco a poco si scisse in due parti: i vinti, schiavi dei vincitori padroni.

Come un luttuoso spettacolo, la memoria di quei tempi si svolge fino all’epoca di Gesù Salvatore, quando la vergogna della schiavitù era estesa a tutti i popoli, ed era così esiguo il numero dei liberi che il poeta mise in bocca a Cesare queste atroci parole: "Il genere umano vive in pochi" . E ciò si riferisce a quelle nazioni che primeggiavano per eminente cultura, come i Greci e i Romani, quando il dominio di pochi si esercitava sui molti; e quel dominio era così superbo e malvagio che le turbe degli schiavi erano considerate soltanto dei beni, non persone ma cose, prive di ogni diritto, e senza alcuna facoltà di conservare e godere la vita. "Gli schiavi soggiacciono al potere dei padroni e questo potere è materia di diritto delle genti; infatti possiamo constatare che, presso tutte le genti, appartiene parimenti ai padroni il diritto di vita e di morte sugli schiavi, e che tutto ciò che è realizzato dallo schiavo appartiene al padrone" .

In seguito a questi aberranti principi fu lecito ai padroni scambiare, vendere, lasciare in eredità, percuotere, uccidere gli schiavi ed abusare di essi in modo licenzioso e crudelmente superstizioso; fu lecito impunemente e pubblicamente. Anzi, coloro stessi che erano ritenuti i più assennati tra i pagani, filosofi insigni, grandi esperti di diritto, con sommo oltraggio del comune buon senso si sforzarono di convincere se stessi e gli altri che la schiavitù non era altro che una necessaria condizione di natura: e infatti non si vergognarono di affermare che la categoria degli schiavi era di gran lunga inferiore ai liberi per capacità intellettuali e per prestanza fisica, e che perciò era necessario che i servi, come strumenti privi di ragione e di iniziativa, ubbidissero alla volontà dei padroni ciecamente e anche nel modo più indegno. È veramente detestabile una malvagità così inumana; una volta che la si sia ammessa, non vi è oppressione di uomini così barbara e nefanda che non trovi sostegno vergognoso in qualche sorta di legge e di diritto. Quale semenzaio di delitti, quali peste e rovina si siano diffuse nelle città, lo dicono i libri, colmi di esempi; si acuiscono gli odi negli animi degli schiavi; i padroni sono colti dal sospetto e dal perpetuo timore; altri preparano le torce incendiarie per sfogare l’ira; altri premono più crudelmente sulle spalle altrui; le città sono sconvolte dal numero degli uni, dalla violenza degli altri, e in poco tempo si dissolvono; si mescolano tumulti e sedizioni, saccheggi ed incendi, battaglie e stragi.

In questo abisso di degradazione moltissimi uomini soffrivano, tanto più miseramente in quanto erano immersi nelle tenebre della superstizione; quando poi per divino consiglio giunsero a maturazione i tempi, una luce mirabile scese dal cielo e la grazia di Cristo Redentore copiosamente si profuse tra il genere umano; per sua virtù gli schiavi furono sollevati dal fango e dall’angoscia della servitù, e tutti dall’orrida schiavitù del peccato furono richiamati e condotti alla sublime dignità di figli di Dio. Invero gli Apostoli, fin dall’origine della Chiesa, oltre agli altri santissimi precetti di vita, tramandarono e insegnarono anche ciò che non una volta sola Paolo scrisse ai rigenerati del lavacro battesimale: "Siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non esiste più né il Giudeo né Greco; non esiste più né lo schiavo né il libero; non esiste né il maschio né la femmina; voi tutti infatti siete un solo in Cristo Gesù" (Gal 3,26-28). "Non esiste più né il Pagano né il Giudeo, il circonciso e l’incirconciso, il barbaro e lo Sciita, lo schiavo e il libero, ma Cristo è tutto e in tutti" (Col 3,11). "Infatti, tutti noi siamo stati battezzati in un solo Spirito e in un solo corpo, sia Giudei che Pagani, sia schiavi che liberi, e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito" (1Cor 12,13).

Veramente aurei, bellissimi e salutari documenti, per l’efficacia dei quali al genere umano non solo è restituito e accresciuto il suo decoro, ma agli uomini è dato consociarsi tra loro e stringersi con saldi vincoli di fraterna amicizia, di qualunque luogo, lingua o condizione essi siano. Invero il beatissimo Paolo, per quella carità di Cristo da cui era pervaso, aveva attinto tali principi dal cuore stesso di Colui che si dedicò come fratello a tutti e ai singoli uomini, e che tutti nobilitò di sé, nessuno escluso o respinto, a tal segno che li fece partecipi della natura divina. In virtù del divino innesto, non furono diverse le propaggini che, crescendo in modo mirabile, fiorirono di speranza e di pubblico bene quando, col progredire degli avvenimenti e del tempo, e con la perseverante opera della Chiesa, la società civile, rinnovata a somiglianza della famiglia, si sviluppò cristiana e libera.

Dapprima infatti la Chiesa con grande zelo si impegnò in modo che il popolo cristiano, anche a proposito di questa questione di grande rilievo, ricevesse e custodisse gelosamente la pura dottrina di Cristo e degli Apostoli. Ora, per grazia del nuovo Adamo che è Cristo, intercorre una fraterna unione dell’uomo con l’uomo e di un popolo con altro popolo: essi, come hanno una medesima origine nell’ordine naturale, così nell’ordine soprannaturale hanno una medesima origine per quanto concerne la salvezza e la fede: tutti ugualmente sono accolti in adozione dall’unico Dio e Padre, in quanto Egli li ha insieme redenti con lo stesso grande riscatto; tutti membra dello stesso corpo e tutti partecipi della stessa mensa divina; a tutti accessibili i doni della grazia e a tutti inoltre il dono di una vita immortale. Posti tali premesse e fondamenti, la Chiesa come buona madre si è adoperata per mitigare in parte le tribolazioni e l’ignominia della vita servile; per tale motivo definì ed energicamente raccomandò i diritti e i doveri necessari tra servi e padroni, così come sono definiti nelle lettere degli Apostoli. Infatti i Principi degli Apostoli così ammonivano i servi che avevano convertiti a Cristo: "Siate sottomessi e timorosi non solo ai padroni buoni e modesti, ma anche agli arroganti (1Pt 2,18). Obbedite ai padroni terreni con timore e tremore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo; non servite per dar nell’occhio e quasi per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, servendo con buona volontà il Signore e non gli uomini; sapendo che ognuno, sia servo, sia libero, riceverà dal Signore tutto ciò che avrà fatto di bene" (Ef 6,5-8). Lo stesso Paolo scriveva al suo Timoteo: "Tutti coloro che sono sotto il giogo di servitù, stimino meritevoli di ogni onore i loro padroni; coloro che hanno padroni fedeli, non li disprezzino perché sono fratelli, ma li servano con maggior zelo perché sono fedeli e diletti e partecipi della grazia. Così insegna ed esorta" (1Tm 6,1-2). Prescrisse parimenti a Tito di insegnare ai servi "di essere sottomessi ai loro padroni, compiacenti in ogni occasione, senza mai contraddire né commettere frode ma in ogni caso mostrando buona fede, in modo da rendere onore in ogni occasione alla dottrina di Dio nostro Salvatore" (Tt 2,9-10).

Invero quei primi discepoli della fede cristiana compresero pienamente che da tale fraterna uguaglianza degli uomini in Cristo per nulla venivano diminuiti o rimossi l’obbedienza, l’onore, la fedeltà, gli altri doveri che legavano i servi ai padroni; ne consegue pertanto non il solo bene per cui gli stessi doveri diventano più definiti, più lievi e più soavi nell’adempimento, ma anche più fruttuosi al fine di meritare la gloria celeste. Avevano infatti riverenza e stima verso i padroni come verso gli uomini che sono potenti per volere di Dio, dal quale deriva ogni potere; per essi non avevano efficacia il timore dei castighi, l’astuzia dei consigli e gl’incitamenti all’utile, ma la coscienza del dovere, la forza dell’amore. A sua volta riguardava i padroni la giusta esortazione dell’Apostolo affinché compensassero con bontà le buone opere dei servi: "E voi, padroni, fate altrettanto ad essi, rinunciando alle minacce, sapendo che il loro e il vostro Padrone è nei cieli e che Egli non favorisce alcuno" (Ef 6,9); e affinché considerassero un’ingiustizia che il servo si dolga della sua sorte, essendo egli "liberto del Signore", così non è lecito all’uomo libero inorgoglirsi nell’animo e comandare con superbia, "essendo servo di Cristo" (1Cor 7,22). In tal modo si prescriveva ai padroni di riconoscere e di rispettare convenientemente l’uomo nei loro servi, e non diversi per natura ma uguali a loro nella religione, e del pari servi nei confronti della maestà del comune Signore.

A queste leggi così giuste, fatte soprattutto per consolidare le componenti della società familiare, ubbidirono di fatto gli Apostoli. Insigne è l’esempio di Paolo, per quanto fece e scrisse generosamente in favore di Onesimo, servo fuggitivo di Filemone, a cui lo rimandò con questa affettuosa raccomandazione: "Tu accoglilo come parte di me... non già come un servo ma, anziché come servo, come carissimo fratello secondo la carne e secondo il Signore; se in qualche modo ti recò danno o ti è debitore, fanne carico a me" (Fm 12-18).

Chi voglia paragonare entrambi i modi di trattare gli schiavi, il pagano e il cristiano, facilmente dovrà riconoscere che il primo era crudele e vergognoso, l’altro assai mite e pieno di rispetto, né mai si renderà colpevole di sottrarre merito alla Chiesa, ministra di tanta indulgenza. Tanto più se qualcuno osserva attentamente con quanta dolcezza e prudenza la Chiesa estirpò e sconfisse la turpe peste della schiavitù. Infatti essa non volle affrettarsi nel provvedere alla manomissione e alla liberazione degli schiavi poiché ciò non poteva sicuramente avvenire se non in modo tumultuoso, con danno proprio di essi e a detrimento della società; ma con sommo giudizio fece in modo che gli animi degli schiavi, sotto la sua guida, fossero educati alla verità cristiana e con il battesimo adottassero costumi conformi. Perciò, se nella moltitudine degli schiavi che la Chiesa annoverava tra i suoi figli, taluno, allettato da qualche speranza di libertà, avesse ordito una violenta sedizione, sempre la Chiesa riprovò e represse quei peccaminosi desideri e per mezzo dei suoi ministri adottò i rimedi della pazienza. Si persuadessero dunque gli schiavi di superare di molto in dignità i padroni pagani, mercé il lume della santa fede e l’insigne retaggio di Cristo, e di sentirsi obbligati più devotamente dallo stesso Autore e Padre della fede a non consentire a se stessi azione alcuna contro i padroni né di allontanarsi minimamente dalla riverenza e dalla obbedienza dovuta ad essi, ma, sapendo di essere eletti al regno di Dio, avendo acquisito la libertà dei suoi figli, e sentendosi chiamati a beni non perituri, non si dessero pensiero dell’abiezione e dei disagi di una vita caduca ma, sollevando gli occhi e gli animi al cielo, si consolassero e si confermassero nel santo proposito. L’Apostolo Pietro fu tra i primi a rivolgersi agli schiavi quando scrisse: "È un segno della grazia se nel nome di Dio qualcuno sopporta le sventure, soffrendo ingiustamente. Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per noi, a voi lasciando un esempio perché seguiate le sue vestigia" (1Pt 2,19-21).

La lodevole sollecitudine, congiunta alla prudenza, che orna tanto splendidamente la divina virtù della Chiesa, è accresciuta anche dalla forza d’animo per la quale – oltre ogni credibilità – essa è invitta ed eccelsa, e con la quale poté ispirare e sostenere molti infimi schiavi. Suscitavano meraviglia quegli schiavi che erano esempio di severi costumi ai loro padroni e sopportavano ogni fatica in loro favore; a nessuna condizione costoro potevano essere indotti a preporre gli iniqui ordini dei padroni ai santi precetti del Signore, fino al punto di rinunciare alla vita tra feroci torture, con animo incrollabile e con volto impassibile. Il nome di una vergine di Patames è celebrato da Eusebio in ricordo della sua invitta costanza; ella, piuttosto che cedere alla libidine dell’impudico padrone, senza timore andò incontro alla morte e con l’effusione del suo sangue salvò la fede in Gesù Cristo. Si possono ammirare simili esempi di schiavi i quali con grande fermezza si opposero fino alla morte ai padroni che violavano la libertà degli animi e la fede legata a Dio; ma la storia non può citare schiavi cristiani che per diverse ragioni abbiano resistito ai padroni, o suscitato congiure o sedizioni pericolose per la cittadinanza.

Placati i dissidi e sopraggiunti tempi tranquilli per la Chiesa, i santi Padri con mirabile sapienza esposero gl’insegnamenti apostolici circa la fraterna solidarietà tra cristiani, e con altrettanta carità li applicarono a vantaggio degli schiavi, cercando di convincerli che i padroni avevano dei diritti legittimi sul lavoro degli schiavi e tuttavia non erano loro concessi un imperioso potere sulla vita e l’uso di crudeli sevizie. Tra i Greci spicca Crisostomo, che spesso ha trattato questa questione e che con animo e con favella vivaci affermò che la schiavitù, secondo l’antico significato della parola, era già scomparsa al tempo suo, con grande vantaggio della fede cristiana, sicché il nome sembrava ed era senza senso tra i discepoli del Signore. Infatti Cristo (così in sintesi egli argomenta) quando per somma compassione verso di noi lavò il peccato originale, risanò anche a corruzione conseguente, diffusa nelle classi sociali; perciò, come la morte, scevra di ogni paura grazie a Lui, è una placida migrazione verso una vita beata, così è sparitala schiavitù. Non chiamare mai servo un cristiano se non quando si renda schiavo del peccato. Sono assolutamente fratelli tutti coloro che sono rinati e accolti in Cristo; il nostro decoro deriva da questa nuova procreazione e dalla cooptazione nella famiglia di Dio e non già dalla nobiltà della stirpe; la dignità discende dal pregio della verità e non del sangue; e perché questa specie di evangelica fraternità produca più abbondante frutto, è soprattutto necessario che anche nei rapporti col prossimo, si manifesti un piacevole scambio di attenzioni e di gentilezze, in modo che i servi siano elevati allo stesso grado degli amici e dei familiari, e che ad essi i padri di famiglia forniscano non solo quanto occorre alla vita e al nutrimento, ma anche tutti i soccorsi della religione. Infine, dallo speciale saluto di Paolo a Filemone, invocante la grazia e la pace "alla Chiesa che è nella tua casa" (Fm 1,2), si evince un documento che vale ugualmente e ottimamente per padroni e servi cristiani, fra i quali vi sia comunione di fede e vi debba essere quindi uno stesso spirito di carità .

Fra i Latini ricordiamo meritatamente e a buon diritto Ambrogio, che con tanta intelligenza ha indagato, sullo stesso argomento, tutte le ragioni dei rapporti sociali e che in modo preciso – come nessuno seppe fare meglio – secondo le leggi cristiane ha attribuito specifici doveri all’una e all’altra classe di uomini; non occorre dire quanto le sue sentenze concordino pienamente e perfettamente con quelle di Crisostomo .

Come è evidente, questi precetti erano ispirati a giustizia e utilità; ma, quello che più importa, essi sono stati custoditi integralmente e devotamente fin dai primi tempi, ovunque è fiorito il cristianesimo. Se non fosse messi così, Lattanzio, l’esimio difensore della religione, non si sarebbe espresso in modo così risoluto, quasi come un testimone: "C’è chi dice: non vi sono tra voi poveri e ricchi, servi e padroni? Non esiste qualche differenza tra i singoli individui? Nessuna; e non vi è altro motivo per cui noi, a vicenda, ci chiamiamo col nome di fratelli, se non il considerarci uguali; infatti noi misuriamo tutto ciò che è umano non col corpo ma con lo spirito, e sebbene sia diversa la condizione dei corpi, tuttavia non esistono schiavi per noi, ma noi li consideriamo e chiamiamo fratelli nello spirito, e come noi servi in religione" .

Aumentava la sollecitudine della Chiesa nella tutela degli schiavi e, senza tralasciare alcuna occasione, tendeva cautamente a restituirli finalmente a libertà: ciò avrebbe assai giovato anche alla loro eterna salute. Gli antichi sacri annali recano testimonianze dell’esito favorevole di quell’impegno. Le stesse nobili matrone, degnissime delle lodi di Girolamo, collaborarono in modo esemplare al successo di questa opera. Salviano poi riferisce che nelle famiglie cristiane, anche in quelle non molto ricche, accadeva spesso che gli schiavi fossero messi in libertà per generosa manomissione. Anzi, San Clemente, molto tempo prima, aveva lodato questo eccelso esempio di carità: infatti, non pochi cristiani si erano sottoposti a schiavitù, con scambio di persone, in quanto non potevano in altro modo liberare alcuni schiavi . Perciò, oltre che dare inizio alla liberazione degli schiavi nei templi, come atto di pietà, la Chiesa decise di raccomandare quell’atto ai cristiani che facevano testamento, come opera assai grata a Dio e al suo cospetto degna di grande merito e di premio. Da qui le espressioni rivolte all’erede per incaricarlo della liberazione "Per l’amore di Dio, per rimedio" o ,"per la salute della mia anima". Nulla fu risparmiato per il riscatto dei prigionieri: furono venduti i beni dati a Dio; furono fusi gli ori e gli argenti sacri; alienati gli ornamenti e i tesori delle basiliche, come fu fatto più di una volta da Ambrogio, Agostino, Ilario, Eligio, Patrizio e da molti altri santissimi uomini.

Moltissimo fecero per gli schiavi i Pontefici romani, davvero memorabili come difensori dei deboli e vindici degli oppressi. San Gregorio Magno ne mise in libertà quanti più poté, e nel concilio romano dell’anno 597 volle che fosse concessa la libertà a coloro che avevano deciso di dedicarsi alla vita monastica. Adriano I ordinò che gli schiavi potessero liberamente contrarre matrimonio, contro il volere dei padroni. Alessandro III nell’anno 1167 prescrisse apertamente al re Mauro di Valenza di non ridurre in schiavitù alcun cristiano, poiché nessuno è schiavo per natura, e tutti sono stati creati liberi da Dio. Inoltre Innocenzo III, su richiesta dei fondatori Giovanni da Matha e Felice di Valois, nell’anno 1198 approvò e promulgò l’Ordine della Santissima Trinità per la redenzione dei cristiani che fossero caduti in potere dei Turchi. Onorio III e poi Gregorio IX approvarono un Ordine, simile al precedente, di Santa Maria della mercede; Ordine che Pietro Nolasco aveva fondato con una legge severa, secondo la quale tutti i religiosi che ne facevano parte dovevano darsi schiavi in sostituzione dei cristiani prigionieri della tirannide, se ciò fosse stato necessario per redimerli. Lo stesso Gregorio decretò un più ampio soccorso liberatorio per cui era sacrilegio vendere schiavi alla Chiesa; egli stesso fece seguire una esortazione ai fedeli perché donassero i loro schiavi a Dio e ai Santi come espiazione delle colpe e a titolo di sacrificio.

A questo proposito si aggiungono molti altri meriti della Chiesa. Essa infatti, applicando pene severe, difese sempre gli schiavi dalle ire crudeli e dai lesivi oltraggi dei padroni; aprì i luoghi sacri come rifugio per coloro che erano vessati dalla violenza; accettò come testimoni gli schiavi liberati, e tenne a freno con la minaccia di castighi coloro che osassero con criminosi inganni ridurre in schiavitù un uomo libero. Con sempre maggior favore la Chiesa assecondò la liberazione degli schiavi che in ogni caso, secondo i tempi e i luoghi, considerava suoi fedeli; sia quando stabilì che i Vescovi sciogliessero da ogni vincolo di schiavitù coloro che si erano segnalati per ininterrotta, lodevole onestà di vita; sia quando permise agevolmente ai Vescovi di dichiarare liberi, con atto di volontà sovrana, i loro servi. Inoltre, è da attribuire alla misericordia e al potere della Chiesa se la severità della legge civile è stata alquanto mitigata nei confronti degli schiavi, e se gli emendamenti proposti da Gregorio Magno furono accolti nella legge scritta delle nazioni. Ciò fu fatto soprattutto per opera di Carlo Magno che li introdusse nei suoi Capitularia come poi fece Graziano nel Decretum. Infine, lungo il corso dei secoli, i monumenti, le leggi, le istituzioni insegnano e illustrano splendidamente la sublime carità della Chiesa verso gli schiavi, la cui afflitta sorte mai lasciò priva di tutela e sempre alleviò con ogni soccorso. Pertanto, non si attribuiranno mai abbastanza elogi né si sarà mai abbastanza grati alla Chiesa cattolica che per somma grazia di Cristo Redentore abolì la schiavitù, introdusse tra gli uomini la vera libertà, la fratellanza, l’uguaglianza, e perciò si rese benemerita della prosperità dei popoli.

Alla fine del secolo decimo quinto, quando la funesta piaga della schiavitù era quasi scomparsa presso le genti cristiane e gli Stati tentavano di rafforzarsi nella libertà evangelica e di estendere il loro dominio, questa Sede Apostolica, con assidua vigilanza cercò di impedire che rigermogliassero quei malefici semi. Perciò rivolse la sua vigile attenzione ai territori da poco tempo scoperti in Africa, in Asia, in America. Infatti era giunta voce che i capi di quelle spedizioni, sebbene cristiani, avessero abusato delle armi e dell’ingegno per imporre la schiavitù a popoli inoffensivi. In pratica, a causa della natura del territorio che si voleva sottomettere e delle miniere di metalli da esplorare e scavare con grande impiego di mano d’opera, furono adottati provvedimenti sicuramente ingiusti e inumani. Infatti si cominciò con qualche traffico deportando dall’Etiopia schiavi da impiegare in quei lavori: tale operazione, poi definita "la tratta dei negri", infierì oltre misura in quelle colonie. Seguì poi, con crudeltà non dissimile, l’oppressione degli indigeni (generalmente chiamati "Indiani") al modo degli schiavi. Non appena questi fatti furono noti a Pio II, senza alcun indugio, il giorno 7 ottobre dell’anno 1462, scrisse una lettera al Vescovo di Rubio per biasimare e condannare tanta malvagità. Non molto tempo dopo Leone X usò tutti i buoni uffici e l’autorità in suo potere, presso i re del Portogallo e delle Spagne, perché provvedessero a estirpare dalle radici quell’abuso contrario non solo alla religione ma anche all’umanità e alla giustizia. Tuttavia quella vergogna persisteva perché sopravviveva l’ignobile causa dell’insaziabile avidità di lucro. Allora Paolo III, ansioso nella sua paterna carità per la sorte degli indiani e degli schiavi africani, prese la decisione estrema di affermare con solenne decreto, al cospetto di tutte le genti, che a tutti gli schiavi era dovuto un giusto e particolare potere in triplice forma: potevano disporre della propria persona; potevano vivere in società secondo le loro leggi; potevano acquistare e possedere beni. Queste disposizioni ebbero più ampia conferma nella lettera inviata al Cardinale Arcivescovo di Toledo: chi avesse operato contro lo stesso decreto incorreva nella interdizione dei sacramenti, integra restando la facoltà del Romano Pontefice di assolvere . Con la stessa sollecitudine e con la stessa costanza, altri Pontefici quali Urbano VIII, Benedetto XIV, Pio VII si dimostrarono strenui difensori della libertà per gli Indiani e per i Negri e per altri non ancora educati alla fede cristiana. Pio VII, inoltre, nel congresso di Vienna dei principi alleati europei, richiamò l’attenzione di tutti anche su quella tratta dei Negri (di cui si è detto) perché fosse radicalmente abolita, come era già stata soppressa in molti luoghi. Anche Gregorio XVI ammonì severamente coloro che disprezzavano la clemenza e le leggi; richiamò in vigore i decreti e le pene stabilite dalla Sede Apostolica e non omise alcun argomento perché anche le nazioni lontane, imitando la moderazione di quelle europee, si astenessero dalla ignominia e dalla crudeltà della schiavitù . A proposito, è accaduto a Noi di ricevere congratulazioni da principi e da governanti per aver ottenuto, a forza di perseveranti preghiere, che fosse dato ascolto ai lunghi e giustissimi reclami della natura e della religione.

In situazione analoga, affligge non poco il Nostro animo un’altra preoccupazione che sprona la Nostra sollecitudine. Se cioè un così turpe mercato di uomini è di fatto cessato nei mari, tuttavia esso viene praticato in terra in modo troppo esteso e barbaro, soprattutto in molte zone dell’Africa. Poiché infatti i Maomettani praticano la perversa teoria per cui un Etiope o un uomo di stirpe affine sono appena al di sopra di un animale, è facile comprendere con sgomento quale sia la perfidia e la crudeltà di quegli uomini. All’improvviso, senza alcun timore, si avventano contro le tribù degli Etiopi, secondo l’usanza e con l’impeto dei predoni; fanno scorrerie nelle città, nei villaggi, nelle campagne; tutto devastano, spogliano, rapiscono; portano via uomini, donne e fanciulli, facilmente catturati e vinti, per trascinarli a viva forza sui più infami mercati. Dall’Egitto, da Zanzibar e in parte anche dal Sudan, come da centrali di raccolta, partono di solito quelle abominevoli spedizioni; per lungo cammino gli uomini procedono stretti in catene, scarsamente nutriti, sotto frequenti colpi di frusta; i meno adatti a sopportare queste violenze vengono uccisi; quelli che sopravvivono, sono venduti come gregge insieme ad altri schiavi e sono costretti a schierarsi davanti a un compratore difficile e impudente. Coloro che sono venduti a costui sono costretti alla miseranda separazione dalla moglie, dai figli, dai genitori; e in suo potere sono sottoposti a una schiavitù crudele e nefanda, e non possono ricusare la stessa religione di Maometto. Questi fatti abbiamo appreso or non è molto, con l’animo profondamente turbato, da alcuni che furono testimoni, non senza lacrime, di siffatta infamia e aberrazione; con essi, poi, convengono pienamente le narrazioni dei recenti esploratori dell’Africa Equatoriale. Anzi, dalla loro attendibile testimonianza risulta che il numero degli Africani venduti annualmente, a guisa di gregge, ammonta a quattrocentomila, di cui circa la metà, estenuata dal tribolato cammino, cade e muore, in modo che i viaggiatori (quanto è triste a dirsi!) possono scorgere il cammino quasi segnato da ossa residue. Chi non si sentirà commosso al pensiero di tanti mali? Noi, che rappresentiamo la persona di Cristo, amantissimo di tutte le genti, liberatore e Redentore, Noi che Ci allietiamo dei molti e gloriosi meriti della Chiesa verso gli infelici di ogni sorta, a stento possiamo dire quanta pietà proviamo verso quelle infelicissime genti, con quanta immensa carità tendiamo loro le braccia, quanto ardentemente desideriamo di procurare loro tutti i conforti e i soccorsi possibili, affinché, non appena distrutta la schiavitù degli uomini insieme con la schiavitù della superstizione, possano finalmente servire un solo Dio, sotto il soavissimo giogo di Cristo, partecipi con Noi della divina eredità. Volesse il cielo che tutti coloro che sono più in alto per autorità e potere, e che vogliono santificati i diritti delle genti e della umanità, o che si preoccupano di dare incremento alla religione cattolica, tutti con tenacia cospirassero a reprimere, a proibire, a sopprimere (aderendo alle Nostre esortazioni e preghiere) quel mercato, del quale nulla è più disonesto e scellerato.

Frattanto, mentre si aprono nuove strade e nuovi commerci nelle terre africane grazie al più rapido progresso degl’ingegni e delle attività, i missionari, come meglio possono, cerchino di provvedere alla salute e alla libertà degli schiavi. Essi non raggiungeranno tale risultato se, corroborati dalla divina grazia, non si dedicheranno totalmente a diffondere e ad alimentare ogni giorno di più, con fervore crescente, la nostra santissima fede. Il frutto insigne di questa consiste nel favorire e generare mirabilmente la libertà "con la quale Cristo ci liberò" (Gal 4,31). Pertanto, Noi li invitiamo a considerare – come in uno specchio di virtù apostolica – la vita e le opere di Pietro Claver, a cui Noi assegnammo una recente laurea di gloria. Guardino a lui che con somma costanza nella fatica, per quarant’anni senza interruzione si dedicò tutto alle miserande torme di schiavi negri e veramente meritò il titolo di Apostolo di coloro ai quali si consacrò, professandosi loro servo perpetuo. Se i missionari avranno cura di far propria e di rinnovare la carità e la pazienza di lui, essi saranno sicuramente degni ministri di salvezza, apportatori di consolazione, messaggeri di pace, e potranno, con l’aiuto di Dio, convertire la solitudine, l’ignoranza, la barbarie in felice ricchezza della religione e della civiltà.

Ora, Venerabili Fratelli, il Nostro pensiero e la Nostra lettera bramano rivolgersi di nuovo a Voi per esprimervi e condividere la grande gioia che deriva dalle decisioni prese pubblicamente in codesto Impero in merito alla schiavitù. Poiché per legge è stato provveduto e disposto che quanti si trovano ancora in condizione servile devono essere ammessi nell’ordine e nei diritti di liberi cittadini, questo fatto a Noi sembra di per sé buono, fausto e salutare, e altresì conferma e incoraggia la speranza di futuri lieti progressi civili e religiosi. Pertanto il nome dell’Impero Brasiliano sarà meritatamente ricordato e lodato dai popoli più evoluti, e contemporaneamente aumenterà la fama dell’augusto Imperatore, al quale si riferiscono queste nobili parole: nulla è più desiderabile che cancellare rapidamente ogni traccia di schiavitù entro il proprio Stato.

Ma mentre si vanno applicando le prescrizioni di queste leggi, impegnatevi alacremente (ve lo chiediamo di tutto cuore), e intervenite con grande zelo in questa opera che incontra certamente non lievi difficoltà. Fate in modo che padroni e schiavi si accordino tra loro con animi ben disposti e con piena lealtà e che non si allontanino, neppure d’un breve tratto, dalla clemenza o dalla giustizia, ma che tutti gli accordi siano conclusi in modo legittimo, pacato, cristiano: bisogna augurarsi soprattutto che sia soppressa e cancellata la schiavitù come tutti desideravano, senza alcuna violazione del diritto umano e divino, senza alcun sommovimento sociale, e anzi con sicuro vantaggio degli stessi schiavi in questione. A ciascuno di essi, o già resi liberi o in procinto di esserlo, Noi raccomandiamo con zelo pastorale e con amore paterno alcuni salutari ammonimenti, tratti dagli scritti del grande Apostolo delle genti. Essi dunque facciano in modo di conservare e dichiarare pubblicamente il loro grato e affettuoso ricordo di coloro che con saggezza operarono per la loro liberazione. Non si rendano mai indegni di un beneficio così grande, né confondano mai la libertà con la sfrenata licenza, ma facciano uso della libertà come si addice a cittadini costumati, a profitto di una vita attiva, a vantaggio e a sostegno della famiglia e della società. Temere e rispettare la maestà dei regnanti, ubbidire ai funzionari, sottomettersi alle leggi: questi ed altri simili doveri da adempiere assiduamente, non tanto per timore quanto per senso religioso. Inoltre raffrenino e allontanino l’invidia per le ricchezze e il prestigio altrui; dispiace che quel vizio affligga di solito molti tra gli umili e fornisca motivi perversi contro la pace e la sicurezza della società. Contenti del loro benessere e della loro condizione, nulla abbiano di più caro, nulla desiderino più ardentemente che i beni del regno celeste, grazie ai quali essi sono venuti alla luce e sono stati redenti da Cristo. Siano inoltre animati da devozione verso Dio, loro Signore e Liberatore, lo amino con tutto il cuore, rispettino con ogni cura i suoi comandamenti. Gioiscano di essere figli della Sua Sposa, la Santa Chiesa; cerchino di essere i migliori e, per quanto possono, contraccambino l’amore di lei.

Insistete Voi pure, Venerabili Fratelli, nel suggerire e inculcare questi stessi insegnamenti negli schiavi liberati; come è Nostro sommo desiderio e come deve essere per Voi e per tutti i buoni, la religione anzitutto tragga e goda per sempre gli abbondanti frutti della avvenuta liberazione ovunque si estende codesto Impero.

E perché ciò avvenga nel modo più lieto, invochiamo e imploriamo la sovrabbondante grazia di Dio e il soccorso materno della Vergine Immacolata. Come auspicio dei doni celesti e come testimonianza della Nostra paterna benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo impartiamo amorevolmente l’Apostolica benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 maggio 1888, anno undecimo del Nostro Pontificato.