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Leone XIII
Pastoralis officii


Mossi dalla consapevolezza del dovere pastorale e dall’amore del prossimo, con le lettere a Noi indirizzate nello scorso anno vi siete proposti d'informarci sul frequente ricorso, fra la vostra gente, a quei particolari combattimenti che prendono il nome di duelli. Con espressioni di dolore mettevate in evidenza che codesto tipo di combattimento, quasi fosse un diritto consacrato dalla consuetudine, viene praticato anche fra i cattolici; nello stesso tempo chiedevate che anche la Nostra voce s’impegnasse per distogliere gli uomini da un simile, riprovevole comportamento.

Certamente codesta aberrazione è oltremodo dannosa, e non si ferma entro i confini delle vostre popolazioni, ma si spinge ben più lontano, tanto che risulta difficile trovare un popolo immune da questo male. Apprezziamo pertanto il vostro impegno e, quantunque sia noto e risaputo ciò che il pensiero cristiano, in pieno accordo con la natura razionale, dispone al riguardo, è opportuno ed utile che per mezzo Nostro esso sia riproposto brevemente, dal momento che questa malvagia prassi dei duelli è particolarmente favorita dalla dimenticanza dei precetti cristiani.

È assodato infatti che entrambe le leggi divine, sia quella che è stata proposta con il lume della ragione, sia quella che è stata promulgata con gli scritti divinamente ispirati, vietano a chiunque, nel modo più assoluto, di uccidere o di ferire un uomo in assenza di un giusto motivo pubblico, a meno che non vi sia costretto dalla necessità di difendere la propria vita. Coloro invece che provocano un combattimento privato o ne accettano la proposta, lo fanno, e indirizzano la mente e le forze a questo fine, senza esservi costretti dalla necessità, per uccidere, o almeno per ferire, l’avversario. Le due leggi divine citate proibiscono anche ad ogni uomo di mettere a repentaglio la propria vita, esponendosi ad un grave ed evidente pericolo, senza alcuna giustificazione riconducibile al dovere o alla carità eroica. Questa cieca temerarietà, che è disprezzo della vita, si ravvisa intera nella natura del duello.

Nessuno può quindi essere all’oscuro o dubitare che coloro che partecipano ad un combattimento privato sono rei del duplice delitto dell’altrui rovina e del volontario pericolo della propria vita.

Non vi è infine alcun’altra calamità che contrasti maggiormente con le norme della vita civile e che sconvolga il legittimo ordine della società, quanto il concedere ai cittadini la facoltà di avere in proprio la forza e il potere di tutelare il proprio diritto e di vendicare una presunta violazione dell’onore.

Per queste ragioni la Chiesa di Dio, custode e garante sia della verità come della giustizia e dell’onore, nel cui armonioso intreccio sono contenuti la pace e l’ordine pubblico, non ha mai tralasciato di riprovare con forza, e di colpire con le maggiori pene possibili, i rei di combattimento privato.

Le Costituzioni di Alessandro III, Nostro predecessore, inserite nei libri del Diritto canonico, condannano e respingono come esecrabili questi combattimenti privati. Il Sinodo Tridentino si indirizzò, con una straordinaria severità di pene, contro tutti coloro che li sostenevano o in qualunque modo vi partecipavano e, oltre a tutto questo, li bollò anche con il marchio dell’infamia, li giudicò estromessi dal seno della Chiesa e quindi, se fossero caduti in combattimento, indegni dell’onore della sepoltura ecclesiastica. Il Nostro predecessore Benedetto XIV ampliò e chiarì le sanzioni del Tridentino nella Costituzione promulgata il 10 novembre 1752 che inizia Detestabilem. In tempi assai più recenti Pio IX, di felice memoria, nella Lettera Apostolica Apostolicae Sedis che riduce di numero le censure "latae sententiae", dichiarò senza mezzi termini che le pene ecclesiastiche colpiscono non solo quelli che si affrontano in duello, ma anche i cosiddetti padrini, i testimoni e coloro che ne sono al corrente.

La saggezza di queste disposizioni risulta ancora più evidente, se si considera l’inadeguatezza degli argomenti che si è soliti addurre per difendere e per giustificare l’inumana prassi del duello. Infatti ciò che viene ripetuto fra la gente, cioè che questi combattimenti sono per loro natura destinati a lavare le macchie che l’altrui calunnia, o l’insulto, ha gettato sull’onore dei cittadini, è tale da poter trarre in inganno soltanto lo stolto. Ammesso pure che esca vincitore dal combattimento colui che lo ha voluto a motivo dell’ingiuria ricevuta, il giudizio di tutte le persone assennate sarà questo: dall’esito di questo scontro è accertato che lo sfidante è sicuramente migliore nella lotta o nel maneggio delle armi, ma non è certo superiore per nobiltà d’animo. E se lo stesso vi troverà la morte, a chi non risulterà dissennato un simile modo di difendere l’onore? Pensiamo siano veramente pochi quelli che commettono questo delitto ingannati dal falso ragionamento.

È sempre il desiderio di vendetta che spinge le persone superbe e crudeli a chiedere la pena. Se, al contrario, frenassero la superbia dell’animo e volessero sottomettersi a Dio (che comanda agli uomini di amarsi con sentimenti fraterni, vieta di commettere violenza verso gli altri, condanna nel modo più assoluto la bramosia della vendetta nei privati cittadini e avoca unicamente a sé il potere di stabilire le pene) si allontanerebbero senza fatica dalla barbara consuetudine dei duelli.

Neppure può fornire una valida giustificazione – a coloro che accettano la proposta del combattimento – il timore di essere considerati vili se non accettano la sfida. Infatti, se gli obblighi delle persone dovessero essere misurati in base alle fallaci convinzioni del volgo e non all’immutabile norma del bene e del giusto, non vi sarebbe alcuna sostanziale e vera distinzione fra le azioni oneste e quelle malvagie. Anche i saggi pagani ritennero e tramandarono che le ingannevoli convinzioni del volgo dovessero essere disprezzate dall’uomo forte e fermo di carattere. Al contrario è giusto e santo il timore che trattiene l’uomo da un’ingiusta uccisione, e lo fa essere preoccupato della propria vita e di quella dei fratelli.

Chi disprezza gl’inconsistenti giudizi del volgo, e preferisce subire i colpi delle ingiurie piuttosto che venire meno al proprio dovere, viene giudicato di animo migliore e più elevato di chi fa ricorso alle armi quando è colpito da un insulto. Anzi, se lo si volesse definire con un giudizio rispondente al vero, è il solo che mette veramente in luce quella fortezza che merita il nome di virtù ed al quale spetta un onore non simulato e ingannevole. La virtù, infatti, consiste nel bene coerente con la ragione: il buon nome che non trova riscontro nell’approvazione di Dio è del tutto insensato.

Da ultimo, è così evidente la turpitudine del duello, anche se gode dell’approvazione e del sostegno di molti, da indurre pure i legislatori del nostro tempo a reprimerlo con la forza del pubblico potere e con l’imposizione di pene. Ed è oltremodo pericoloso e fuorviante che, nella realtà, le leggi scritte vengano disattese, e che ciò si verifichi spesso sotto gli occhi e nel silenzio di chi ha il dovere di punire i colpevoli e di far rispettare la legge. E così avviene che, un po’ alla volta, diventa possibile arrivare impunemente agli scontri privati nel disprezzo della maestà delle leggi.

È inoltre altrettanto infondata e indegna di una persona saggia l’opinione di coloro che, mentre ritengono sia necessario impedire questo genere di combattimento ai civili, sono tuttavia del parere di permetterlo ai militari, perché con tale pratica si potenzia il valore dei soldati. Si deve anzitutto precisare che gli atti onesti e quelli disonesti sono differenti per natura, né possono cambiar di genere, in alcun modo, a seconda dello stato delle persone. Tutti gli uomini senz’ombra di dubbio, qualunque sia la loro condizione di vita, sono soggetti, in pari misura, alle leggi naturale e divina. La ragione di quest’indulgenza nei confronti dei militari potrebbe essere ricercata nella pubblica utilità, ma questa non potrà mai essere di tale importanza da soffocare, per poterla perseguire, la voce del diritto naturale e divino. Che altro, quando la stessa giustificazione dell’utilità si rivela apertamente infondata? Infatti i mezzi per accrescere il valore militare hanno lo scopo di rendere la società più preparata ad opporsi ai nemici. Sarà forse possibile ottenere ciò ricorrendo ad una consuetudine che, per sua natura, in presenza di un contrasto sorto tra militari (e non sono rare le cause che lo provocano) finisce con la morte di uno dei due difensori della patria?

Da ultimo, il nostro tempo, che si vanta di superare di gran lunga i secoli passati in forza di una civiltà più umana e della raffinatezza dei costumi, si è assuefatto a tenere in scarsa considerazione le antiche consuetudini e a respingere tutto ciò che non si accorda con lo stile di vita dell’odierna sensibilità. Per quale motivo allora, in questa pretesa di così alta civiltà, si trattiene dal respingere questa ignobile reliquia del passato, qual è l’usanza del duello?

Sarà vostro compito, Venerabili Fratelli, inculcare con ogni cura, negli animi dei vostri popoli, le cose che Noi abbiamo succintamente trattate, perché non accettino su questo punto, in modo irresponsabile, le false opinioni, e non permettano di lasciarsi trascinare dal giudizio degli stolti. Ciascuno di voi operi perché i giovani maturino la convinzione di dover valutare e giudicare il duello in sintonia con la filosofia naturale, come lo valuta e lo giudica la Chiesa, e di trarre da tale pensiero una norma costante di azione. Anzi, come già si è consolidata in certi luoghi la prassi che i cattolici, in modo particolare i giovani, si impongono spontaneamente di non iscriversi mai ad associazioni moralmente riprovevoli, allo stesso modo riteniamo opportuno e assai utile che diano vita ad una specie di patto, con la promessa di non cimentarsi mai, e per nessun motivo, in un duello.

Chiediamo a Dio, con accenti di supplica, di rendere efficaci, con la sua potenza, i nostri comuni sforzi e di concedere benignamente quanto desideriamo per l’integrità dei costumi e della vita cristiana.

Auspice poi dei divini favori e, in pari tempo, della Nostra benevolenza, con i sentimenti del più vivo affetto nel Signore, impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 12 settembre 1881, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.