CAPITOLO II

IL VERO PROBLEMA

 

I. I Papi e la pace

Il 20 settembre 1870 è la data della capitolazione di Roma assediata dalle truppe di Vittorio Emanuele e, contemporaneamente alla realizzazione definitiva dell'unità italiana1, è la data della fine del potere temporale dei Papi.

È una linea di demarcazione tra due Chiese, tra due periodi. 

Tra due Chiese. Davanti al Parlamento italiano riunito al completo per la prima volta il 5 dicembre 18702, Vittorio Emanuele poteva esclamare: «L'Italia è libera e unita; a noi, ormai, il compito di renderla grande e felice!». Si tratta di formule che, sfortunatamente, entusiasmano i popoli: si seppe soltanto più tardi che cosa significasse esattamente questa. Rimanevano da definire i rapporti tra il governo e il Papato. Furono stabiliti unilateralmente per mezzo di una legge chiamata «Legge delle garanzie» [nell'italiano ottocentesco: Legge delle guarentigie. n.d.t.], che fu votata da questo stesso Parlamento il 2 maggio 1871 e il cui contenuto si può riassumere così:

«Nella sua prima parte, essa proclamava la santità e l'inviolabilità della persona del Papa, gli accordava in Italia gli onori sovrani, una dotazione di 3.225.000 lire, il possesso – immune da pagamenti e inalienabile – del Vaticano, del Laterano, di Castel Gandolfo, l'inviolabilità della sua residenza e dei concilî da lui convocati, la sua libera corrispondenza con tutto l'episcopato del mondo cattolico, senza ingerenze del governo, e l'amministrazione, a Roma, delle accademie, dei seminarî, delle università e dei collegi di istruzione ecclesiastica.

«Nella seconda parte, lo Stato rinunciava ad ogni diritto alla disposizione delle funzioni ecclesiastiche, alla formazione dell'Exequatur e del Placet regium, [1] all'obbligo del giuramento per i vescovi designati dal Papa; in cambio, rifiutava di prestare il proprio assenso ai giudizî ecclesiastici, che sarebbero stati nulli nei loro effetti quando fossero stati in contraddizione con le leggi dello Stato. Era, press'a poco, libera Chiesa in libero Stato»3.

Il Papa di allora era Pio IX. Senza portare alcun giudizio di valore sulla sua concezione della propria missione apostolica, va notato che era un nostalgico dell'epoca in cui, poiché l'Europa aveva ancora la consapevolezza di essere la Cristianità, e null'altro, un imperatore (Carlo Magno) aveva ottenuto il potere temporale da uno dei predecessori di Pio IX, compiendo un viaggio a Roma per ricevere da lui la sua consacrazione a quella carica; o un altro dei predecessori di Pio IX aveva fatto recare un altro imperatore (Enrico IV) a Canossa; o sotto un terzo imperatore (Carlo V) l'Europa, sempre identificandosi con la Cristianità, non era nient'altro che il Sacro Romano Impero Germanico, d'altronde molto più «sacro» e «romano» che non «germanico». Pio IX era dunque un Papa presso il quale la Santa Alleanza proclamata al Congresso di Vienna aveva ravvivato ancora questa nostalgia, e lo aveva orientato unicamente sui problemi della Fede, che, nella sua concezione, doveva governare il mondo con le sue cure – i testi che ci ha lasciato lo provano ampiamente, in particolare il dogma dell'Immacolata Concezione (1854), quello della infallibilità pontificia (1870) e il Sillabo (1864)4 –; era, infine, un Papa che, precisamente perché era orientato unicamente sui problemi della Fede, era totalmente estraneo alle contingenze economiche o sociali e, per conseguenza, non meno totalmente privo di senso politico: rifiutò alteramente, bisogna dire, ma soprattutto dignitosamente, di riconoscere la «Legge delle garanzie» se non in quanto costretto, ossia de facto e non de iure, e si considerò, nel Vaticano dal quale si rifiutò di uscire da allora in poi, come un prigioniero delle forze del diavolo5.

Pur facendosi animo contro la sorte avversa, i successori di Pio IX seppero trarre partito, e in modo molto vantaggioso, da questa nuova situazione: spogliati com'erano di ogni potere temporale, non poteva sfuggire loro di essere al contempo svincolati da qualsiasi sottomissione: in particolare, non avendo più nulla né da salvare né da perdere in questo ordine di cose, erano liberi dalla tentazione del compromesso e potevano dunque, senza rischi, mostrarsi fermi fino all'intransigenza assoluta nel dominio dello spirito. Mai i Papi furono più liberi di dire quello che pensavano, come lo pensavano – più  liberi e dunque più forti: con Leone XIII, che succedette a Pio IX nel 1878, incominciò per la Chiesa un'ascesa spirituale che portò la sua autorità morale a un livello che essa non aveva mai conosciuto.

Si deve a Leone XIII tutta una serie di testi il cui contenuto, certamente, è discutibile, ma la cui forma brillante denota una ineguagliabile agilità di pensiero. La più celebre è l'enciclica Rerum Novarum (1891) contro il marxismo, ma tutte le altre, sebbene obliate, non sono meno notevoli: la Immortale Dei (1883) sulla costituzione degli Stati, la quale ebbe in Germania una ripercussione tale che in quel Paese l'influsso dei cattolici nella politica si accrebbe al punto che Bismarck ebbe presto bisogno di loro per assicurare il trionfo della sua politica nel Reichstag, e che, per ottenere il loro appoggio, a lui indispensabile, dovette capitolare di fronte a loro e ritornare sulle leggi votate contro di essi all'insegna del Kulturkampf; l'enciclica Sapientiae (1890) sui doveri del cittadino cristiano, che definiva una politica chiamata più tardi «politica di Riunione», dopo essere stata raccomandata all'episcopato francese con una lettera (1892) che lo esortava a stornare i fedeli da una opposizione sistematica  alla forma di governo; o ancora la Gravis de communi (1901), che era un'esposizione chiara e completa della concezione cristiana della società e che, accostata negli spiriti alla Rerum novarum, fece sì che Leone XIII fosse considerato come il Papa degli operai etc.

Il pontificato di Pio X, successore di Leone XIII nel 1903, fu dolorosamente segnato fin dal suo inizio da un evento molto grave per la Chiesa: la legge della separazione della Chiesa e dello Stato in Francia, che gli ispirò due encicliche, la Vehementer (dell'11 febbraio 1906) e la Gravissimo (del 10 agosto seguente), con le quali è difficile a uno spirito libero e indipendente trovarsi d'accordo, ma che rispondevano, nella concezione della legge e nella sua applicazione, a eccessi tali che era molto difficile, per il suddetto spirito libero e indipendente, accettarli. Poiché al giorno d'oggi il tempo, questo grande livellatore, ha compiuto la sua opera, l'opinione pressoché generale vede soprattutto, in queste due encicliche un poco eccessive, una reazione di difesa, ben comprensibile, da parte della Chiesa contro l'anticlericalismo fanatico del piccolo padre Combes, preoccupato soprattutto di stornare l'attenzione dai risultati ottenuti in materia sociale da una Repubblica i cui frutti erano ben lontani dal superare le promesse dei fiori, e di indirizzarla piuttosto su obiettivi meno costosi per le classi agiate, un movimento operaio potente che, in più,  aveva denti molto lunghi: lo Stato e la Chiesa sono sempre separati de iure,  ma, de facto, le congregazioni sono tornate con tutte le loro prerogative, i Comuni mantengono le chiese, lo Stato sovvenziona l'insegnamento confessionale e... non sembra che il conforto intellettuale – e materiale! – dei Francesi ne sia tanto turbato. È stata anche rimproverata a Pio X la sua enciclica Pascendi (8 settembre 1907), contro l'introduzione del modernismo nei riti, che egli giudicava incompatibile con l'integrità della Fede – ma qui si tratta di un problema che riguarda soltanto i cattolici e, non avendo nessun rapporto con la Chiesa, e dunque non essendo direttamente interessato, non ci si arroga alcun diritto a pronunciarsi [sc. non mi arrogo alcun diritto a pronunciarmi: Rassinier parla più volte di sé all'impersonale. n.d.t.].

Verso la sua fine, questo pontificato fu segnato da un altro evento, non meno doloroso, ma questa volta per il mondo intero: la Prima Guerra Mondiale. Qui, tutte le testimonianze, in numero di duecentoquaranta, emananti da diplomatici, prelati, professori, familiari, credenti o laici, riunite nel dossier, reso pubblico, dei Processi ordinarî e apostolici per la causa della beatificazione e della canonizzazione di Pio X,  processi che si svolsero nei luoghi in cui egli aveva vissuto il suo apostolato, di semplice prete, di prelato e poi di Papa, a Treviso (1923-1926 e 1944-1946), a Mantova (1924-1927 e 1945-1946), a Venezia (1924-1930 e 1944-1946) e a Roma (1923-1931 e 1943-1946), stabiliscono concordemente tutto quanto segue: a motivo della politica di isolamento della Germania di Delcassé, conseguenza dell'alleanza franco-russa del 1894, Pio X, fin dal suo insediamento sulla cattedra di Pietro, ebbe il presentimento che questa guerra fosse vicina e, a partire dalla questione dei Balcani, ne fu ossessionato; fece tutto quello che era in suo potere per impedirla; da quando fu a conoscenza dell'attentato di Sarajevo (18 giugno 1914), mise in moto il suo apparato diplomatico e moltiplicò gli interventi presso i capi di Stato, soprattutto presso l'imperatore d'Austria; alla fine del luglio 1914 scrisse a quest'ultimo una lettera scongiurandolo «di non macchiare di sangue la fine del suo regno»; quando l'ambasciatore austriaco venne a informarlo che la guerra era imminente e gli chiese la sua benedizione per le armate austriache, egli rispose: «Io benedico la pace, non la guerra», e, siccome questi insisteva perché almeno benedicesse la persona del suo imperatore, rispose, freddamente: «L'imperatore si ritenga fortunato di non avere ancora ricevuto la maledizione del Santo Padre»; la sua Esortazione ai cattolici del mondo intero, del 2 agosto 1914, è irreprensibile, ed egli morì con l'anima dilaniata, disperato di non essere riuscito a interrompere il corso degli eventi, senza mai cessare di ripetere: «Ah! questa guerra!... Questa guerra, io sento che sarà la mia morte».

Ma, ecco: egli era Papa. Allora si discute e, delle due, l'una: o si ammette tutto questo per concludere: «Sì, ma non è perché era ostile a questa guerra: è per simpatia verso l'Austria, il cui imperatore aveva facilitato la sua elezione nel 1903, e per timore che essa ne uscisse 'schiacciata'6»; oppure, come fa Jacques Nobécourt, si ammettono le premonizioni espresse «con accenti profetici impressionanti, che egli riservava ai 'suoi intimi'»7; si mette al condizionale la lettera che egli scrisse all'imperatore d'Austria e l'accoglienza che fece al suo ambasciatore, eccependo – il che è vero – che, sebbene siano state trattenute entrambe dai tribunali ecclesiastici che decisero la beatificazione di questo Papa, quanto alla prima, non la attestava nessun testo, ma solamente le testimonianze del suo cappellano, l'abate Albin de Cigala8, e del suo Segretario di Stato, il Card. Merry del Val9; quanto alla seconda, si era svolta senza testimoni e non era attestata che da Merry del Val, a cui l'aveva confidata Pio X stesso10; e si conclude che «sul senso degli interventi di Pio X, allo stato attuale delle cose, non è possibile pronunciarsi»11. Ma quando si tratta di asserzioni di un Kurt Gerstein, di cui non si osa nemmeno più produrre il testo – sempre che lo si sia potuto fare qualche volta! – e delle loro interpretazioni da parte di un Rolf Hochhuth o di un Saul Friedländer, allora non ci sono più dubbî, non ci sono più condizionali: costoro sono protestanti o Ebrei e non li si può certo trattare come un cappellano qualunque della Chiesa cattolica, come un volgare Cardinale e un volgare Papa!12

Alla morte di Pio X (20 agosto 1914), nel campo degli Alleati, tutti i giornali – compresa L'Humanité, organo del Partito socialista francese di allora – sono unanimi nel rendere omaggio agli sforzi disperati che egli fece per cercare di salvare la pace. Il Card. Merry del Val riferisce13: «Un diplomatico [di cui non precisa il nome] mi parlò della situazione tragica dell'Europa sconvolta dalla guerra: l'ultimo spiraglio di luce, mi disse, e l'ultima possibilità di pace si sono spenti insieme con Pio X, e intorno a noi rimangono soltanto tenebre»14.

Il diplomatico si sbagliava: Benedetto XV, eletto il 3 settembre, si pose subito sulle orme di Pio X con la sua Esortazione ai cattolici del mondo intero15 dell'8 settembre seguente: «... siamo stati colpiti da un orrore e da un'angoscia inesprimibili allo spettacolo della guerra, in cui una così gran parte dell'Europa devastata dal ferro e dal fuoco gronda di sangue cristiano [...] Abbiamo fermamente deciso di non trascurare nulla di quanto sarà in nostro potere per affrettare la fine di una così grave calamità [...] Noi preghiamo e scongiuriamo ardentemente quanti dirigono i destini dei popoli di inclinare ormai i loro cuori a dimenticare le loro controversie ai fini della salvezza della società umana [...] Basta rovine, basta sangue versato!».

E, infatti, egli non trascura nulla: il 24 dicembre dello stesso anno, il suo primo Messaggio di Natale proponeva una «Tregua natalizia» ai capi delle nazioni. Non fu ascoltato, ma non cessò di spiare l'occasione di ristabilire le relazioni internazionali. Tale occasione si presentò dopo la morte (21 novembre 1916) del vecchio imperatore Francesco Giuseppe, il primo agosto 1917, dopo otto mesi impiegati dal Papa a ristabilire i contatti tra il nuovo imperatore (nipote nel precedente, che era re di Ungheria sotto il nome di Carlo IV e che succedette a Francesco Giuseppe sul trono della duplice monarchia  sotto il nome di Carlo I) e suo cognato il principe Sisto di Borbone, che viveva nel campo degli Alleati. È stato detto che Briand e Caillaux si siano associati ai suoi sforzi per combinare un colloquio del principe Sisto di Borbone con il governo francese. Fatto sta che, prendendo atto delle buone disposizioni del nuovo imperatore d'Austria, il quale aveva fatto un'offerta di pace nel marzo 1917, Benedetto XV, quando apprese che durante un abboccamento da lui avuto in luglio con Guglielmo II, il nunzio apostolico a Monaco, Pacelli, il futuro Pio XII, ne aveva ricevuto l'assicurazione che egli era pronto a una pace di compromesso, ritenne la congiuntura favorevole a un tentativo  di mediazione, malgrado l'entrata in guerra degli Stati Uniti il 6 aprile precedente. Questa Esortazione alla Pace rivolta ai capi delle nazioni belligeranti (1° agosto 1917) ha due meriti: quello di fissare in termini netti e precisi, per la prima volta nella storia del Papato, il ruolo del Vicario di Cristo in tempo di guerra, e quello di proporre un piano che, dal punto di vista del principio della libertà dei popoli a disporre di loro stessi, non è diverso dai celebri Quattordici Punti del presidente Wilson*.

Ecco come egli concepiva la sua missione apostolica:

«Noi ci siamo proposti tre scopi tra tutti: mantenere una perfetta imparzialità rispetto a tutti i belligeranti, come conviene a colui che è il padre comune di tutti e che ama tutti i suoi figli di un affetto uguale; sforzarci continuamente di fare a tutti il maggior bene possibile, e questo senza distinzione di persone, di nazionalità o di religione, così come Ci detta anche la legge universale della carità che la suprema carica spirituale Ci ha affidato per mezzo di Cristo; infine, come richiede parimenti la Nostra missione di pace, non tralasciare nulla, per quanto sia in Nostro potere, di ciò che possa contribuire ad affrettare la fine di questa calamità, tentando di portare le nazioni e i loro capi a risoluzioni più moderate, alle deliberazioni serene della pace – di una pace 'giusta e durevole'16».

È esattamente l'atteggiamento adottato da Pio XII durante la Seconda Guerra Mondiale. E che gli valse di essere accusato delle stesse colpe: «un Papa crucco», disse Clemenceau, lo sappiamo già17; «silenzioso come Pio XII», ha rincarato Jacques Nobécourt18; «che temeva l'annientamento dell'Austria-Ungheria cattolica [e la nascita, sulle sue rovine,] di una serie di piccoli Stati», tra i quali, «in Boemia, uno Stato dominato da frammassoni, mentre i Croati cattolici sarebbero stati governati dai Serbi ortodossi [...], che i Russi abbiano la meglio, da cui deriverebbe un immenso successo di prestigio per l'ortodossia», aggiunge Pierre Dominique19, etc. Tutte interpretazioni in appoggio alle quali non si possono aggiungere altre giustificazioni che l’”aria dei tempi” del clan al quale si appartiene, la supposizione, i secondi fini o la congettura, e che, tutti, tendono a dimostrare che le sue prese di posizione  erano ispirate a Benedetto XV non dall'amore per la pace, ma da un'amicizia insolita per l'altro schieramento, e da un ignobile calcolo. Valutando in questo modo, si può dire qualsiasi cosa di chiunque, e si può presentare l'anima più nobile sotto la luce peggiore. Si potrebbe così pretendere, ad esempio, che Jacques Nobécourt e Pierre Dominique siano ispirati soltanto dalla preoccupazione di consegnare tutta l'Europa al bolscevismo, e che le loro prese di posizione contro questa dottrina siano soltanto chiacchiere finalizzate a mascherare il loro gioco. E, se si invoca il carattere progressista, nel senso negativo del termine, di tutto quello che scrive il primo o se, nella piena consapevolezza della causa dei risultati di una guerra il cui esito più chiaro è stato quello di portare la frontiera della Russia a cinquanta chilometri da Amburgo, il secondo, evocando i tentativi di Pio XII di promuovere una conferenza internazionale che avrebbe potuto evitare la Seconda Guerra Mondiale, scrive ancora:  «Fortunatamente, non lo si prende alla lettera»20, non sarebbe difficile, penso io, accreditare la suddetta tesi. Insomma, gli argomenti degli avversarî di Pio X, di Benedetto XV e di Pio XII sono soltanto apprezzamenti puramente congetturali  e non si riferiscono che al «delitto d'intenzione».

E, per ritornare a Benedetto XV, è per mezzo di argomenti così miseri che fu silurato il suo tentativo di mediazione del 1° agosto 1917, il che protrasse la Prima Guerra Mondiale di quindici mesi, ne portò i danni e il numero delle vittime al livello che si sa, senza alcun profitto, poiché terminò con il Trattato di Versailles. Senza profitto: ma che dico? Piuttosto: a quale prezzo!

Ah, questo Trattato di Versailles!  Quando si seppe che Benedetto XV non ne aveva accettato le stipulazioni, che egli trovava ingiuste e piene di germi di una nuova guerra, la campagna contro il suo pacifismo trovò un nuovo alimento: si trovò confermata in tal modo la sua amicizia per la Germania, fortemente penalizzata dal Trattato, e per l'Austria, da esso smantellata, e vi si aggiunse il risentimento che egli avrebbe provato per essere stato scartato, per principio, dalla Conferenza della Pace, al tempo dei negoziati del 1915 che avrebbero deciso l'ingresso dell'Italia in guerra. Ci si guardò bene dal notare che gli Stati Uniti rifiutarono di sanzionare questo Trattato di Versailles per le stesse ragioni in base alle quali lo biasimava Benedetto XV.

Su questo punto, Pio XI e Pio XII adottarono la politica di Benedetto XV. Sotto questi ultimi due pontificati, la presa di posizione della Santa Sede in favore dei negoziati internazionali, per spirito di sistema e per evitare il ricorso alle armi, si precisò e si affermò ulteriormente. La pace era divenuta, a partire da Pio X, una costante nella vita politica vaticana e, per conseguenza, un'altra costante era la necessità della revisione del trattato di Versailles. L'uomo politico che, per primo, presentì il guadagno di prestigio che ci avrebbe ricavato la Chiesa,e la forza che allora essa avrebbe costituito nel cammino verso gli Stati Uniti d’Europa, fu Briand, il quale, dopo essere stato l'autore della legge della separazione tra Chiesa e Stato, divenne, contro Clemenceau, l'uomo della ripresa delle relazioni diplomatiche con il Vaticano21. A questo motivo di prestigio Pio XI ne aggiunse altri due: le Missioni per la propagazione della Fede nei Paesi colonizzati e la normalizzazione dei rapporti tra la Chiesa e gli Stati sotto il regime della separazione, in base alla formula della legge italiana delle Garanzie [Legge delle Guarentigie, n.d.t.], «libera Chiesa in libero Stato», con la generalizzazione della politica dei Concordati riguardo a cui va a Pio XII, allora Card. Pacelli, il  merito  di averla fondata e messa a punto sotto l'aspetto giuridico. Venendo dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Francia, la firma del Concordato italiano nel 1929 ebbe un'eco mondiale. Non si mancò di osservare che il Papato, il quale non era riuscito a intendersi con il regime uscito dal Risorgimento, riuscì a farlo molto bene con il regime di Mussolini. Il Papato avrebbe infatti trovato, in Italia, un regime che finalmente gli si confaceva. Conclusione: il Papato era fascista. Peggio ancora nel caso del Concordato tedesco stipulato con Hitler: fascista il Papato lo era, naturalmente; e anche nazista!  Nessuno, però, osservò che, mentre il Papato firmava il Concordato tedesco, coloro che lo rimproveravano più violentemente erano al contempo i più accesi fautori del Patto a Quattro che i governi democratici inglese e francese firmarono, nel giugno del 1933, con la Germania  pur sempre nazista e con l'Italia pur sempre fascista.

Quando, più tardi, in presenza dell'enciclica Mit brennender Sorge, che, sebbene pronunciata in nome della Fede, era una condanna chiara, precisa e senza concessioni del nazismo, gli avversarî della Chiesa furono pur obbligati a convenire che essa non era nazista, la loro prima reazione fu: ma allora perché il Papa non denuncia il Concordato? E fu anche quella di richiamare tutti i crimini del nazismo contro l'inviolabilità della persona umana che, ai loro occhi,  avrebbero giustificato più che ampiamente questa denuncia. Ciò avrebbe significato dimenticare il carattere di «Paternità totale» della grande famiglia umana che è il carattere fondamentale del Vicario di Cristo nel sistema della Fede e che è paragonabile a quello della «paternità totale» di tutti i suoi figli da parte del padre in ogni famiglia. Ora, in una famiglia, il padre non scaglia l'anatema contro Cam, non caccia via dagli altri suoi figli quello che si allontana dalla retta via, che diventa un cattivo ragazzo o perfino un assassino: egli rimane padre, condanna paternamente, cerca di rimetterlo sulla buona strada, e, se non ci riesce, piange il giorno in cui il figlio è divenuto ladro o assassino, ma questi, comunque, resta pur sempre suo figlio, e dunque il padre varca le porte della prigione o sale sul patibolo. Il ruolo del padre non è quello di indicare il figlio alla vendetta familiare o pubblica, ma, in tutte le circostanze, di aiutarlo a ritrovarsi. Analoghi sono i rapporti tra il Papa – il Santo Padre! – e le nazioni che, tutte e a uguale titolo, sono sue figlie. Bisogna rallegrarsi, e non deplorare che, su questo punto, gli imperativi della Fede si accordino in modo tanto notevole con quelli della Ragione:  non accade  tanto spesso!

Insomma, si può dire che questa politica di «Paternità totale» verso tutti i popoli, sul piano delle nazioni, dovuta alle iniziative di Pio X, di Benedetto XV, di Pio XI e di Pio XII, si situi armoniosamente sulla scia di quella di Leone XIII, che si potrebbe chiamare anch'essa di «Paternità totale», sul piano delle classi sociali, verso ciascuna di esse, e che, associate, queste due politiche tra loro complementari hanno fatto sì che, in questa fine del XX secolo, la Chiesa apparisse, agli occhi dell'opinione pubblica, in generale, come il fattore più sicuro e più potente della pace sociale e della pace universale.

Per quanto riguarda la seconda, l' ha riconosciuta lo stesso Léon Blum, il quale non può essere accusato di compiacenza nei riguardi della Chiesa: nel suo libro À l'Échelle humaine [Alla scala umana], redatto in prigione negli anni 1940-1941, ma pubblicato soltanto nel 1945, egli giunse ad auspicare che, contrariamente a quanto era stato deciso nel 1915 per la Conferenza della Pace da cui Benedetto XV fu scartato, alla Santa Sede fosse riservato un posto tra gli organismi internazionali che sarebbero stati incaricati di ricostruire la nuova pace, giustificando tale punto di vista con il seguente omaggio:

«Questo ruolo converrebbe sicuramente a una Chiesa che è pacifica per essenza, poiché essa incarna una religione di pace, e che è pacifica anche per la sua funzione, se posso dirlo, poiché la sua stessa struttura è di ordine internazionale. L'influsso pontificio si è sempre esercitato, e si esercita ancora, in favore di una pace organica, fondata sulla giustizia, sull'uguaglianza dei popoli e degli uomini, sulla santità degli impegni contratti»22.

Per quanto riguarda la prima, è il buon senso popolare che decise tra il marxismo e la Rerum Novarum. Non nei termini, indubbiamente, ma nei fatti, poiché i sorprendenti progressi della tecnica che hanno innalzato in modo così considerevole il livello di vita delle masse lavoratrici a partire dall'inizio del XX secolo hanno molto aiutato in questo senso. A questa evoluzione, in ogni caso, se non nelle sue premesse, almeno nelle sue conclusioni, la Rerum Novarum era adattata molto meglio del Manifesto del partito comunista, e, in confronto, la lotta delle classi, che è il tema del secondo, non è più che un mito a petto della loro collaborazione, che è la conclusione della prima e non cessa di guadagnare il terreno che l'altra perde.

A questa ascesa spirituale della Chiesa e all'accrescimento continuo della sua influenza nella vita sociale e internazionale a partire dal 1870 hanno anche molto contribuito gli argomenti impiegati contro di essa nel dominio specifico della fede da parte dei razionalisti: la papessa Giovanna, i Borgia, Galileo, la Pulzella bruciata e poi canonizzata dalla Chiesa, gli Albigesi, la notte di San Bartolomeo,  sant'Ignazio di Loyola, Torquemada, Dio e Cristo che non sono mai esistiti, il Vaticano capitale dell'oscurantismo, il piccolo padre Combes, Charles Guignebert [2] e Prosper Alfaric [3] , gli amori del signor Curato e della sua serva, gli uomini in nero e con becco di corvo, dall’aria patibolare, dal ventre prominente e con la mitra del Reverendo Padre di un'altra Chiesa che era il carissimo fratello F.M. Lorulot, [4] il curato di Uruffe, e simili vecchie ferraglie arrugginite. Il Vicario, che vi si è appena aggiunto, è della stessa fattura ed esce dalla stessa officina. A quanto pare, ai razionalisti del 1964 non è ancora pervenuta la notizia che la Chiesa sulla quale essi tirano palle di cannone infuocate che si limitano a sibilare, con questa vecchia ferraglia, è morta fin dal 20 settembre 1870, che essa è ormai soltanto la Chiesa del nonno, che non fanno altro se non accanirsi su un cadavere decomposto da molto tempo, con gli argomenti del nonno del nonno, e che la Chiesa, quella vera, che non è nemmeno sfiorata dalle loro ciance, è  viva e vegeta, e, in barba a loro, non cessa di crescere e di diventare sempre più bella.

È per questo che, quale linea di demarcazione tra due Chiese, il 20 settembre 1870 segna anche – secondo la sua vocazione naturale, d'altronde – lo spartiacque tra due epoche: quella di una buona decina di secoli che le sono anteriori, durante la quale la Fede continuò incessantemente ad arretrare davanti alla Ragione, ridusse progressivamente a zero il potere temporale della Chiesa, e quella di meno di un secolo durante il quale la Fede ha segnato incessantemente punti sulla ragione ridicolizzata dai razionalisti, e la Chiesa ha conquistato, a viva forza, un'influenza morale che non aveva mai avuto e che, se continua così, non può mancare di manifestarsi, un giorno forse più vicino di quanto non si creda, per mezzo di un potere temporale ben più effettivo, sebbene indiretto, e ben più potente di quello che essa ha perduto.

Ed eccoci alle prese con il problema di Pio XII prima e durante la Seconda Guerra mondiale, sul piano dei fatti.


II. Come Pio XII [1876-1958] tentò di impedire la guerra

Nato da una famiglia di borghesia toscana molto buona e piena di devozione a Dio – uno dei suoi antenati, avvocato presso la sacra Rota, fonda l'Osservatore Romano nel 1851 e diviene sostituto del ministro dell'Interno dello Stato Pontificio sotto Pio IX; suo padre è terziario dell'Ordine dei Francescani e decano degli avvocati del Concistoro –, il giovane Eugenio (Maria Giuseppe Giovanni) Pacelli aveva trovato già nella culla tutte le possibilità di essere tentato da una carriera ecclesiastica. La sua brillante intelligenza, la sua estesa cultura, le sue relazioni familiari e anche un senso politico innato fecero il resto: nel 1901, sotto Leone XIII, all'età di 25 anni23, semplice sacerdote ma dottore in teologia, in diritto civile e in diritto canonico e concordatario, egli si trova proiettato alla Segreteria di Stato del Vaticano come tirocinante alla sezione diplomatica. Nel 1904, Cameriere Papale segreto di Pio X. Nel 1905, prelato, prefetto della Congregazione di Sant'Ivo. Poi: Sottosegretario della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinarî (1911), Segretario (1914). Il 24 giugno 1914, egli negozia il Concordato fra la Santa Sede e la Serbia: è il suo primo successo. Il 20 aprile 1917, Benedetto XV lo designa alla Nunziatura di Monaco, dove, posto al centro dei tentativi finalizzati a riportare la pace,  favorisce abilmente i suoi sforzi. All'indomani del Trattato di Versailles, Benedetto XV lo nomina alla Nunziatura di Berlino (22 giugno 1920), ma, trattenuto a Monaco per affari che esigono la sua presenza in quella città, in particolare un Concordato in preparazione con il nuovo governo bavarese, raggiunge il suo posto soltanto il primo agosto 1925: tale Concordato era stato firmato il 24 marzo 1924. A Berlino, la sua prima preoccupazione è un Concordato con la Prussia: fu firmato il 13 agosto 1929. La sua idea è di arrivare progressivamente a un Concordato generale con la Germania uscita dal Trattato di Versailles: sfortunatamente, quando l'atmosfera politica è divenuta favorevole a un tale progetto, è al potere Hitler... Ed egli stesso non è più Nunzio a Berlino, ma Segretario di Stato in Vaticano, dove Pio XI, che aveva avuto bisogno dei suoi lumi per la messa a punto del Concordato italiano (1929) e si era felicitato del ruolo che egli aveva svolto in quell'occasione, lo aveva chiamato, il 12 dicembre 1929, per nominarlo dapprima Cardinale, il 16 dicembre 1930, e poi Segretario di Stato (7 febbraio 1931). È da questa carica che egli salì ancora uno scalino verso il Concordato generale tedesco: il Concordato di Baden (12 ottobre 1932). L'ironia della sorte volle che tutti i suoi sforzi verso questo Concordato generale tedesco fossero vani sotto la Repubblica di Weimar; fu Hitler stesso ad assumerne l'iniziativa. E fu il primo chiodo della crocifissione di Pacelli. Il secondo fu che, siccome Pio XII non aveva denunciato questo Concordato nonostante tutte le violazioni di cui si resero colpevoli le autorità del III Reich rispetto ad esso, si mise questo sul conto del suo Segretario di Stato, e più ancora quando si vide che questo Segretario di Stato, divenuto Pio XII (2 marzo 1939: lo stesso giorno del suo sessantatreesimo compleanno), non lo denunciò nemmeno lui. Il lettore ne sa già il motivo, per cui non ci ritorneremo più24.

La politica del Card. Pacelli, quando era Segretario di Stato di Pio XI, fu, in pieno accordo con quest'ultimo, di stabilire le relazioni diplomatiche con il più gran numero di Stati, di consolidare quelle che esistevano, di aggiornare i Concordati datati, di passarne di nuovi. Si cita ancora, da annoverare sul suo conto, il Concordato austriaco (5 giugno 1933), i paletti che pose nei Paesi baltici, le relazioni diplomatiche interrotte con l'America nel 1870 (a causa della presa di Roma), che egli tentò di ristabilire, pur senza riuscirvi, etc.

È dubbio che il 2 marzo 1939, nella congiuntura dell'epoca, il conclave che lo portò sulla cattedra di Pietro abbia potuto fare una scelta migliore. Alla sua vigorìa intellettuale e al suo senso politico innato bisogna aggiungere ancora che egli aveva fatto, sotto quattro Papi che furono tutti grandi Papi, e in posti-chiave in cui non cessò di distinguersi, un lungo apprendistato di trentotto anni, che aveva fatto di lui, molto probabilmente, il meglio preparato, tra tutti i papabili, al mestiere di Papa. E poi c'era la guerra, che stava avanzando a grandi passi e che egli avrebbe dovuto affrontare appena eletto: proprio come avevano dovuto affrontarla Pio X e Benedetto XV, sotto i quali egli aveva servito, i quali lo avevano formato e dei quali egli non poteva, allora, che imitare l'esempio.

È certo che, sul piano della filosofia sua propria in materia di guerra e di pace, un pacifista integrale non può non fare delle riserve sul pacifismo di Pio XII: egli distingueva tra la guerra giusta e la guerra ingiusta, la guerra di offesa e la guerra di difesa, e, ancora, nella guerra di offesa, tra l'offensiva legittima e l'aggressione, alla quale, talvolta, egli attribuiva l'epiteto di «ingiusta»25, il che significava che, a suo modo di vedere, esistevano anche delle «aggressioni giuste». Non era ancora giunto a quella concezione secondo la quale non esiste né guerra di offesa né guerra di difesa, né guerra giusta o ingiusta, e che tutte le guerre sono ingiuste. Comunque, tale sua filosofia, per quanto discutibile sia, lo aveva condotto alla convinzione che tutte le guerre sono evitabili per mezzo di riforme della struttura della comunità delle nazioni alle quali si può giungere molto facilmente attraverso il metodo delle conferenze internazionali, ammesso che si abbia il senso della giustizia. E, per un Papa, questo è notevole e degno di lode.

Non si potrebbe, a mio avviso, presentare su di lui un giudizio migliore del seguente:

«Mai nessun Papa, a mia conoscenza, aveva ancora affermato con tanta decisione l'unità giuridica della comunità delle nazioni26, il regno sovrano del Diritto internazionale, e condannato con tanto vigore la concezione della sovranità assoluta dello Stato in quanto causa di rottura di questa unità. Mai, a mia conoscenza, nessun Papa aveva reclamato, come conseguenza logica di questi principî, l'organizzazione di istituzioni internazionali destinate, al contempo, a vegliare sulla giusta applicazione delle convenzioni internazionali e a rendere possibile, quando se ne fa sentire il bisogno, la loro equa revisione. Mai nessun Papa aveva ancora incluso, tra gli scopi essenziali di queste istituzioni internazionali, l'equa ripartizione delle ricchezze economiche del globo e la protezione dei diritti culturali delle minoranze; nessun Papa con una tale insistenza e una tale frequenza aveva predicato una vera e propria crociata in favore di questa organizzazione di un ordine nuovo, condizione di una pace durevole, e aveva fatto appello, per questo, a tutti i Cristiani e a tutte le anime di buona volontà sparse nell'universo; soprattutto, mai nessun Papa, a mia conoscenza, aveva fatto di tutte queste verità una esposizione d'insieme di pari ampiezza»27.

È vero: nessun Papa, nemmeno Pio X o Benedetto XV: questi ultimi, che furono i primi due a impegnarsi su questa strada, erano solo precursori, e il loro pensiero fu formalizzato e precisato dal loro discepolo.

In materia di politica internazionale, il socialismo non è andato più lontano, e, nel 1939, nelle ore cruciali, come nel 1945, quando suonò quella del passaggio dalla teoria socialista alla pratica, esso si tenne ben al di qua, mentre Pio XII...

Ad esempio, nella basilica di San Bonifacio, a Monaco, il 7 febbraio 1932, Mons. Faulhaber, arcivescovo del luogo, pronunciò un discorso nel quale si può leggere:

«Le condizioni preliminari di una guerra legittima sono divenute molto più rare di un tempo [...] Agli avvocati della pace si domanderà:

Che cosa dite del fatto che l'impero tedesco è disarmato, senza difesa, mentre le altre nazioni si armano a volontà?

Noi risponderemo:

 Secondo il diritto naturale e il diritto delle genti, i popoli sono tutti uguali: per conseguenza, il popolo tedesco ha il diritto di essere garantito anch'esso contro un attacco a viva forza.

    Ma l'uguaglianza di diritto tra i popoli non risulterà dal fatto che le forze difensive della Germania, attualmente disarmata, saranno ricostituite, né dal fatto che, in materia di armi crescenti, essa potrà rivaleggiare con le altre nazioni: essa si otterrà piuttosto con il disarmo dei popoli armati e superarmati.

Il vecchio proverbio Si vis pacem para bellum, "se vuoi la pace, prepara la guerra", dev'essere smantellato come un vecchio bastimento di guerra. Gli armamenti infiniti durante la pace non mettono al riparo dalla guerra e non garantiscono la pace. Armarsi a gara significa preparare in permanenza la guerra e, dalla preparazione allo scoppio, non c'è che un passo: Si vis pacem para pacem, "se vuoi la pace, prepara la pace"»28.

È ispirato a uno dei principî più nobili del socialismo pratico, e lo si ritrova, pressoché parola per parola, nella Raccolta dei discorsi pronunciati da Pio XII quando era ancora soltanto Mons. Pacelli, durante il periodo della sua nunziatura a Monaco e a Berlino, raccolta pubblicata a cura dell'episcopato tedesco nel 1930.

Si vis pacem para pacem: durante la pace, certamente, ma anche durante la guerra, tale fu il principio che diresse il comportamento di Pio XII. Se qualcuno dev'essere biasimato, non è lui per essere rimasto incrollabilmente fedele a questo principio, ma i socialisti per averlo  abbandonato prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo aver fatto di esso, dal 1919 al 1933, la chiave di volta del loro programma di politica estera. Pio XII fu il Jaurès della Seconda Guerra Mondiale e, al contempo, il corrispondente dei Kienthaliani e degli Zimmerwaldiani della Prima. E lo fu nel nome degli imperativi della Fede, così come Jaurès, i Kienthaliani e gli Zimmerwaldiani erano ispirati soltanto da quelli della Ragione. Non si vede bene la differenza, poiché egli pervenne alle stesse conclusioni razionali. Per contro, balza agli occhi che combattere queste conclusioni razionali significa soltanto opporre a una Fede che si mette a ragionare – finalmente!* – una Ragione che, ormai, non fa che sragionare. Ed è appunto il caso de Il Vicario di Rolf Hochhuth, de Il Vicario e la Storia di Jacques Nobécourt e del Pio XII e il III Reich di Saul Friedländer. In nome di un'altra Fede, del resto: poiché la Ragione che sragiona non è che un'altra Fede: la fede protestante per l'uno, la fede progressista nel senso del marxismo per il secondo, e, per il terzo, la fede giudaica, le quali, tutte e tre, affondano ogni giorno di più nell'oscurantismo. Mosca e Tel-Aviv ne danno quotidianamente la stessa prova che Rolf Hochhuth dà con Il Vicario – è il destino di tutti i pregiudizî –, mentre, ogni giorno che è venuto dopo il 1870, la Chiesa è stata quella che è emersa sempre più alla luce – in materia sociale con Leone XIII, in materia di guerra e di pace con Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, poi, in entrambi gli àmbiti, con Giovanni XXIII e oggi con Paolo VI –, liberandosi dei suoi pregiudizî arcaici, guardandosi di cadervi di nuovo, e, nella misura in cui le sue prese di posizione potrebbero avere prolungamenti temporali, fondandole sull'osservazione e sull'analisi.

Ma è soltanto il suo atteggiamento durante la Seconda Guerra Mondiale che è rimproverato a Pio XII. Per comprenderlo bene, è necessario porlo entro il contesto di quello del Papato, e situare il nostro uomo in questo contesto. Giungendo agli eventi, bisogna ancora dire quale fu questo comportamento nelle ore cruciali che decisero il conflitto.

Dapprima, ecco tre fatti che, nelle prime settimane del suo pontificato, mostrano al contempo fino a che punto egli avesse consapevolezza del pericolo, e definiscono le sue intenzioni:

– il giorno stesso della sua incoronazione, rispondendo ai voti del Sacro Collegio che gli erano presentati dal suo decano, Mons. Pignatelli di Belmonte, egli dichiara di «prendere in mano il governo della navicella di Pietro, per dirigerla, in mezzo a tanti marosi e a tante tempeste, verso il porto della pace»29;

– la sua prima omelia, Quoniam Paschalia (aprile 1939), lo mostra «preoccupato dei pericoli che fanno correre all'Europa la disoccupazione, la miseria, la mancanza di fedeltà agli impegni presi, il disprezzo, in certi Paesi, dei diritti inalienabili della dignità umana e della libertà»30. L'Italia aveva proprio appena invaso l'Albania...

– una lettera del 20 aprile 1939 a Mons. Maglione, che aveva preso come Segretario di Stato il 10 marzo, per chiedergli di «raccomandare, in tutte le parrocchie di tutte le diocesi, durante il mese di maggio, una crociata di preghiere per ottenere, dovunque e per tutti, la concordia e la pace»31. Il fatto è che nel frattempo si erano verificati due eventi: la promozione della Boemia e della Moravia a protettorato tedesco che fu subito invaso dalle truppe tedesche il 15 marzo 1939, e quella della Slovacchia a Stato indipendente, ossia lo smantellamento della Cecoslovacchia, e, il 31 dello stesso mese, la garanzia incondizionata, data alla Polonia dall'Inghilterra, della sua integrità territoriale come definita dal Trattato di Versailles. Il secondo apparve subito a Pio XII come il primo passo di un cammino irreversibile verso la guerra, ed egli aveva deciso un'offensiva diplomatica di cui si parlerà più avanti: ecco il motivo delle preghiere richieste «in tutte le parrocchie di tutte le diocesi», per sostenere questa offensiva.

A proposito del primo, fu rimproverato a Pio XII di non avere protestato contro questa violazione, si dice, degli accordi di Monaco, e questo atteggiamento fu posto in parallelo con quello tenuto, durante la questione dell'Anschluß austriaca, da Pio XI, che, d'altronde, non aveva protestato contro l'annessione dell'Austria da parte della Germania hitleriana, ma aveva richiesto imperiosamente al Card. Innitzer, arcivescovo di Vienna, il quale aveva chiesto ai vescovi e al clero di far votare la popolazione, al momento del plebiscito, per il fatto compiuto, una messa a punto che assomigliava a una ritrattazione e che fu pubblicata nell'Osservatore Romano del 6 aprile 1938.

Innanzitutto, non era possibile alcun confronto tra i due avvenimenti. L'Anschluß non fu un colpo di forza se non nel diritto formale. A partire dal 1919, la quasi unanimità degli Austriaci richiedeva la ri-annessione alla Germania (voto dell'Assemblea nazionale del 4 marzo 1919, del cancelliere socialista Karl Renner ratificato dalla Costituzione di Weimar nel suo articolo 61, etc.). L'articolo 88 del patto della S.D.N. [Società delle Nazioni, n.d.t.] vi si opponeva contro la volontà dei due popoli. Da Salisburgo a Vienna, l'ingresso di Hitler fu trionfale.

Lo smantellamento della Cecoslovacchia si presenta sotto una luce completamente diversa per quanto riguarda una violazione del trattato, e, in particolare, degli Accordi di Monaco. Questi ultimi avevano previsto tre cose: il ritorno dei Sudeti alla Germania, la promozione della Boemia-Moravia a Stato indipendente, con la Slovacchia che sarebbe dovuta a sua volta divenire indipendente, se non che i due Stati erano riuniti in uno solo di forma federale sotto il nome di Cecoslovacchia, che gli rimase; infine la garanzia, fornita dalla Germania a questo Stato federale, della sua integrità territoriale «non appena Praga [che ne era la capitale] avrà regolato con Varsavia e con  Budapest la questione delle minoranze polacca e ungherese»32.

Ora, nel nuovo Stato federale, i Cèchi, che sono in maggioranza, da una parte fanno orecchie da mercante rispetto ai Polacchi e agli Ungheresi, e, dall'altra, rendono la vita molto dura agli Slovacchi, che essi si rifiutano di considerare come autonomi. Ma sarà meglio lasciare ad André François Poncet  – non sospetto della benché minima compiacenza verso la Germania nazista – l'onere di stabilire come e da chi gli Accordi di Monaco siano stati violati. «Gli Slovacchi, condotti da Monsignor Tiso, avevano ottenuto l'autonomia nel quadro dello Stato cecoslovacco. Ma i Cèchi rifiutavano di considerarli come uno Stato emancipato e federato. Per attuare il suo piano, a Hitler bastava prendere partito per gli Slovacchi33. Il 13 marzo 1939, poiché Praga aveva preteso di revocare i ministri slovacchi34 a causa della loro politica separatista, Mons. Tiso35 corse a Berlino e sollecitò la protezione36 del Führer»37.

La violazione degli accordi di Monaco fu dunque, innanzitutto, una violazione da parte dei Cèchi38, e l'intervento di Hitler fu una reazione richiesta dalle vittime di questa violazione. Si tratta di un caso analogo, ad esempio, al recente intervento in Congo dei Belgi e degli Americani, dietro richiesta del governo impotente contro alcuni ribelli in procinto di massacrare persone innocenti. È esattamente come tanti altri interventi della stessa natura operati dagli Inglesi, dai Francesi, dagli Stati Uniti, etc., che non hanno mai scosso più di tanto la coscienza universale – quando non sono stati addirittura approvati.

A parte gli epiteti indignati con cui André Françoise Poncet infiora il suo testo, i fatti si sono svolti proprio come dice lui: la Cecoslovacchia è morta per la violazione degli Accordi di Monaco da parte dei Cèchi.

E che cosa poteva dire Pio XII delle condizioni nelle quali essa era morta, poiché esse erano state definite dalle convenzioni stipulate tra governi riconosciuti dagli Accordi di Monaco? A uno di essi, ossia al governo cèco, era stata fatta violenza, è certo, ma reclamava a sua volta il diritto di fare violenza a un altro, e fu per impedirgli di ricominciare che Hitler aveva deciso di occuparlo. L'unico mezzo per impedirgli di occuparlo era di procedere a un regolamento generale di tutte le contese europee per mezzo di una conferenza internazionale che si prefiggesse questo scopo, ossia la revisione del Trattato di Versailles, prevista dall'articolo 19 del Patto della S.D.N. [Società delle Nazioni, n.d.t.]. Ebbene, dopo averla rifiutata alla Repubblica di Weimar, si continuò a rifiutare questa revisione a Hitler, il quale, su proposta di Roosevelt, in data 16 maggio 1933, ne aveva accettato con entusiasmo il principio in un discorso che pronunciò davanti al Reichstag, il giorno successivo (17). È su una conferenza di questo genere che Pio XII ripiegò: e in effetti la propose nel maggio  seguente.

Questa conferenza, d'altronde, avrebbe avuto soltanto il problema cecoslovacco da riconsiderare, poiché, mentre Hitler arrecava ad esso, d'accordo con gli Slovacchi, la soluzione che si sa, ne era nato un altro da un'altra provocazione: il problema polacco.

Fino a quel momento, Tedeschi e Polacchi si erano intesi molto bene. Vigeva tra loro un trattato di alleanza datato il 26 gennaio 1934 che funzionava a meraviglia, e le loro relazioni erano delle più cordiali. È ancora André François Poncet che ce lo dice:

«Il colonnello Beck è divenuto un familiare di Goering e questi, ogni anno, è invitato ad andare a caccia nelle foreste polacche. Nel corso di questi cordiali incontri si è parlato, naturalmente, della questione di Danzica e del Corridoio, che bisognerà ben risolvere un giorno, nell'interesse delle buone relazioni tra i due Paesi; e il colonnello Beck ha dato a intendere che la Polonia non rifiuterà di restituire Danzica al Reich, a patto di potervi conservare alcuni privilegi economici, e che parimenti si accontenterà della creazione, attraverso il Corridoio, di uno stretto passaggio reso extra-territoriale, attraverso il quale si snoderanno un'autostrada e una ferrovia che faranno comunicare direttamente la Prussia occidentale con la Prussia orientale»39.

Le due parti sono quindi d'accordo.

Ma, quando il 21 marzo von Ribbentrop propose all'ambasciatore polacco a Berlino, Lipski, di intraprendere alcune conversazioni diplomatiche nell'intento di ufficializzare tale accordo, questi partì per Varsavia e ne ritornò il 26 con una risposta negativa. In più, come per conferire tutto il suo senso a questa risposta negativa, il 24 marzo, all'indomani del suo arrivo a Varsavia, Moltke, ambasciatore della Germania in Polonia, avvertì Berlino che correvano voci allarmiste a proposito delle intenzioni della Germania nei confronti della Polonia, e il giorno dopo, il 25, l'ammiraglio Canaris, capo dell'Abwehr, segnalava la mobilitazione di tre classi di soldati di riserva, come pure concentrazioni di truppe polacche intorno a Danzica.

Che cos'era accaduto, dunque?

Il 18 marzo, «Litvinov aveva proposto una conferenza europea dove, questa volta, la Francia, la Gran Bretagna, la Polonia, la Russia, la Romania e la Turchia si unissero per fermare Hitler»40. Lo stesso giorno, molte agenzie annunciano che la Romania è appena stata oggetto di un ultimatum tedesco e che il governo rumeno, còlto da paura, ha abbandonato a Hitler le risorse del suo suolo41.

La notizia era falsa. Georges Bonnet, che disse di averne ricevuto l'assicurazione soltanto nel 1944 dal ministro degli Esteri rumeno, Grégoire Gafenco, e in questi termini: «non c'è stato mai nessun ultimatum tedesco a Bucarest nel 1939», qualifica questa manovra come provocazione e la attribuisce ai bellicisti inglesi di cui Lord Halifax ha appena preso la testa42. Ma, il 18 marzo 1939, interpellato dal Foreign Office, Tiléa, incaricato di affari rumeni a Londra, conferma l'ultimatum. Chamberlain riunisce immediatamente il suo Gabinetto e viene presa la decisione di fornire alla Romania la garanzia inglese della sua integralità, e di richiedere contemporaneamente alla Polonia, il cui concorso è strategicamente necessario, di fornirle anche la propria. Il colonnello Beck è d'accordo sotto la condizione che l'Inghilterra garantirà anch'essa l'integrità territoriale della Polonia. Il patto è concluso, al livello delle conversazioni, il 21 marzo, poi definitivamente il 31. Di qui il voltafaccia della Polonia, che, in ragione delle relazioni che stavano per essere intrecciate tra l'Inghilterra e la Russia, la garanzia inglese garantiva molto di più di quanto non facesse il trattato germano-polacco contro le iniziative di quest'ultima. Il colonnello Beck ignorava soltanto che, nello stesso tempo, relazioni della stessa natura erano in procinto di essere intrecciate tra la Germania hitleriana e la Russia.

Forte di questa garanzia, il colonnello Beck andava ormai credendo che gli fosse permesso tutto.  Il primo, Pio XII, vide  tutto quello che sarebbe potuto derivarne e quando, il 26 aprile, allorché Hitler aveva acquisito la convinzione che la svolta polacca fosse irreversibile, denunciò al contempo il trattato germano-polacco del 26 gennaio 1934 e l'accordo navale anglo-tedesco del 18 giugno 1935, non c'era più alcun dubbio, a suo parere, sulla necessità di un tentativo di mediazione da parte sua.

Ma il presidente Roosevelt lo aveva preceduto: il 14 aprile aveva scritto personalmente a Hitler e a Mussolini – soltanto a Hitler e a Mussolini – una lettera in cui poneva loro, in modo diretto, la seguente domanda: «Siete pronti ad assicurare che le vostre forze non attaccheranno né invaderanno il territorio di nessuna delle nazioni seguenti?». Seguiva una lista di trentun paesi. Poi, la speranza che una tale garanzia potesse rappresentare «dieci anni a fors'anche un quarto di secolo di pace». Infine, in caso di risposta affermativa, prometteva la partecipazione americana «a discussioni di scala mondiale vòlte a sollevare il mondo dal fardello schiacciante degli armamenti».

Ciò significava accusare soltanto Hitler e Mussolini di essere, nel mondo, fattori di guerra. E, rispetto ai buoni usi diplomatici, costituiva una scortesia, se non una provocazione. «Effetto della paralisi progressiva», disse Mussolini quando ricevette questa lettera. E Goering: «Principio di malattia mentale». E, in verità, Hitler fece annunciare che avrebbe risposto il 28 aprile con un discorso che avrebbe tenuto al Reichstag, come aveva risposto già una volta a una proposta più cortese, più concreta e più razionale dello stesso presidente Roosevelt, il 17 maggio 1933.

Per mostrare bene fino a che punto fosse possibile evitare la Seconda Guerra Mondiale e quali fossero le disposizioni di Hitler in materia di guerra e di pace, e al contempo per rendere anche evidente la differenza tra questa precedente proposta e quell'altra, è necessario ritornare su quanto era accaduto il 16 e 17 maggio 1933.

Il 16 maggio 1933, il presidente Roosevelt aveva indirizzato ai capi di Stato di quarantaquattro nazioni un messaggio che esponeva quali fossero le speranze e i progetti degli Stati Uniti riguardo alla pace ottenuta per mezzo del disarmo: soppressione di tutte le armi di offesa, di bombardieri e di carri armati d'assalto, nonché dell'artiglieria pesante, per cominciare; limitazione al livello della Germania di tutti gli armamenti, gli effettivi militari etc.

La risposta di Hitler fu pronta e senza ambagi, fin dal giorno dopo, il 17 maggio, con un discorso al Reichstag che era una vibrante professione di fede pacifista, una dichiarazione di guerra alla guerra entro un'intesa europea perfetta, se la dichiarazione del presidente Roosevelt fosse stata accolta anche dalle altre nazioni allo stesso modo che dalla Germania. Ecco che cosa si poteva leggere in questo discorso:

«La proposta del presidente Roosevelt, di cui sono venuto a conoscenza ieri sera, merita i più vivi ringraziamenti da parte del governo tedesco. Quest'ultimo è disposto a offrire il suo accordo a questo mezzo finalizzato a superare la crisi internazionale. Questa proposta è un raggio di conforto per tutti coloro che desiderano collaborare al mantenimento della pace. La Germania è assolutamente pronta a rinunciare a ogni arma di offesa a patto che le nazioni armate, a loro volta, distruggano i loro armamentari di offesa [...] La Germania sarà parimenti disposta a smobilitare tutte le sue forze militari e a distruggere la piccola quantità di armi che le rimane, a condizione che i Paesi vicini facciano altrettanto [...] è pronta a firmare ogni patto di non aggressione, in quanto essa non pensa ad attaccare, ma soltanto ad acquisire la sicurezza»43.

Il mondo intero respirò. Perfino i socialdemocratici del Reichstag tedesco applaudirono a questo discorso. Bisogna riconoscere che non si sarebbe potuto dire di meglio.

Ma tale discorso non ebbe seguito. Il 14 ottobre successivo, una volta che la proposta di Roosevelt fu giunta ad essere discussa davanti alla S. D. N. [Società delle Nazioni, n.d.t.], i futuri Alleati nella guerra contro la Germania richiesero otto anni per portare le loro armi al livello di quelle della Germania: otto anni durante i quali essi non avrebbero ammesso che la Germania avesse pari diritti rispetto alle altre nazioni in fatto di armamenti. Ed erano quindici anni che a proposte simili, che avevano l'adesione della Germania, si davano risposte dilatorie dello stesso tipo.

Pretendere, allora, che non ci fosse nessuna possibilità di trattare con Hitler è una contro-verità: il 14 ottobre 1933, proprio gli Alleati avevano dato prova di essere loro stessi a non risultare in ogni caso più disposti di quanto non lo fossero stati a trattare con la Repubblica di Weimar. E questa prova, a sei anni di distanza, fu rinnovata dalla lettera a Hitler e a Mussolini del 14 aprile 1939, con la sua stessa formulazione. La reazione di Hitler fu sferzante.

Il 17 aprile egli fece porre da Ribbentrop a tutti gli Stati citati da Roosevelt (ad eccezione, naturalmente, della Polonia, della Russia, della Gran Bretagna e della Francia, di cui conosceva già le intenzioni, tante volte ripetute pubblicamente) la duplice domanda seguente: avevano l'impressione di essere minacciate dalla Germania? E avevano incaricato Roosevelt di avanzare quella proposta in quella forma? All'unanimità, i ventisette Stati interpellati risposero con un duplice No. Fu per lui un successo diplomatico senza precedenti, puntualizzato il 28 aprile seguente con un discorso che, dando lettura delle ventisette risposte e rinnovando le sue proposte di una conferenza internazionale finalizzata alla revisione del Trattato di Versailles per gli aspetti sotto i quali era ancora in vigore, seppellì pubblicamente Roosevelt sotto un grande lenzuolo di ridicolo. È su questa base che Saul Friedländer – professore di storia contemporanea presso l'Institut Universitaire des Hautes Études Internationales di Ginevra: non dimentichiamolo, poiché questo prova che in Svizzera le cose vanno altrettanto a dovere quanto in tutte le altre parti del mondo – conclude che «il messaggio di Roosevelt è accolto favorevolmente nel mondo intero, ad eccezione dei Paesi dell'Asse e, sembra [sic], del Vaticano»44. In realtà, ad eccezione dei bellicisti polacchi, inglesi e francesi – i Russi non dissero nulla in merito: erano già in trattative con la Germania per un patto di non aggressione la cui stipulazione sarebbe stata firmata il 23 agosto seguente, e che prevedeva la spartizione della Polonia45 – e di Saul Friedländer, il mondo intero vide nell'intervento di Roosevelt sotto tale forma una inqualificabile sciocchezza diplomatica, e si capisce che Pio XII, il quale aveva il senso del ridicolo, non vi si sia associato. D'altronde, Roosevelt, che agiva da franco tiratore, non glielo aveva chiesto46 più di quanto lo avesse chiesto – come si è visto – ai trentun Paesi che citava, nessuno dei quali, nemmeno la Polonia, la Francia e l'Inghilterra che approvavano, vi aderì ufficialmente. Allora, perché muovere a Pio XII un rimprovero che non viene mosso agli altri?

Ben altrimenti conforme al tono e agli usi diplomatici era il progetto di mediazione del Papa: molto meglio ispirato, più adatto alle circostanze e più concreto. Più suscettibile di avere successo, infine, se solo fosse stato preso in considerazione.

Ecco come si presentava questo progetto, nella sostanza: regolare tutte le contese fra tutti gli Stati europei che ne avessero tra loro. Questi Stati erano in numero di cinque: l'Inghilterra, la Francia, l'Italia, la Germania e la Polonia: l'Inghilterra con la Germania per la denuncia dell'accordo navale anglo-tedesco, per il problema di Suez con l'Italia e la garanzia che essa aveva dato alla Polonia; la Francia con l'Italia, per le rivendicazioni italiane nell'Africa del Nord, e con la Germania a causa della sua politica europea; la Germania, infine, con la Polonia. Ed ecco come si presentava nella forma: due dei suddetti cinque Stati non appartenevano più alla Società delle Nazioni, il che, per il fatto stesso che avrebbe comportato il regolamento di tutte queste vertenze al di fuori di esse, escludeva che potesse avere luogo nel contesto di questa organizzazione. Non rimaneva dunque che un regolamento per mezzo di contatti tra questi cinque Stati. Perché non la Russia? La domanda è di Saul Friedländer, il quale suggerisce che la causa di questa esclusione fosse «un'avversione personale verso il comunismo, che data dai suoi contatti con i Sovietici in Baviera nel 1919»47. La risposta è, in realtà, molto più semplice: poiché la Russia non era coinvolta in nessuna delle contese in questione, ed è per questa ragione che essa era già stata esclusa dalla conferenza di Monaco. Che Pio XII fosse ostile al comunismo è indubbio: lo mostra chiaramente l'enciclica Divini Redemptoris di Pio XI, in realtà opera di Pacelli. Ma, se la Russia fosse stata implicata nei problemi europei oggetto di vertenza, pretendere che il Papa in tal caso non la avrebbe inclusa nei suoi progetti è soltanto un'ipotesi del tutto gratuita; per la stessa ragione, non aveva pensato nemmeno agli Stati Uniti.

Prima di sottomettere il suo progetto agli Stati interessati, per assicurarsi bene di non urtare nessuno, Pio XII fece procedere i suoi servizî diplomatici a una serie di sondaggi. Ecco dunque, ora, come andarono le cose:

1. Il primo maggio, Mussolini ricevette il Rev. Padre Tacchi Venturi, della Compagnia di Gesù, che era suo amico personale e che veniva a chiedergli il suo parere a nome del Papa. Il Duce richiese un giorno di riflessione. Il 2 maggio, come promesso, rispose alla domanda postagli con un'approvazione senza riserve. Allora l'inviato del Papa gli domandò in che modo, secondo lui, avrebbe reagito Hitler. Mussolini rispose: «Sono incline a ritenere che il Führer non respingerà la proposta». E aggiunse soltanto un consiglio opportuno: che sarebbe stato «bene precisare [nella formula d'invito] che ci si propone<va> di risolvere pacificamente le vertenze tra i cinque Paesi e i problemi annessi»48.

2. Munito di questo viatico, l'indomani, 3 maggio, il Segretario di Stato Mons. Maglione sottometteva la proposta del Papa ai Nunzî di Berlino, di Parigi, di Varsavia e di Londra. Il 5 maggio Mons. Orsenigo è ricevuto da Hitler, in compagnia di Ribbentrop, a Berchtesgaden. Dal resoconto del colloquio che l'indomani egli indirizzò al Segretario di Stato49, come dal memorandum tedesco che lo riassume50, risulta che Hitler «non credeva che ci fosse pericolo di guerra, visto che la tensione era dovuta più alla propaganda che ai fatti» e che, prima di dare la sua risposta definitiva, doveva «porsi innanzitutto in contatto con Mussolini, poiché non avrebbe fatto nulla senza il consenso di quest'ultimo [...] il Duce ed egli avrebbero agito sempre all'unisono»

Per chi conosce la risposta del Duce, era incoraggiante51.

3. Il nunzio a Parigi, Mons. Valerio Valeri, fu ricevuto il 6 maggio da Georges Bonnet, ministro degli Esteri, il quale gli disse innanzitutto che, prima di dargli una risposta definitiva, avrebbe dovuto consultare il presidente del Consiglio e Alexis Léger, segretario generale del Quai d'Orsay; poi, dopo avergli detto questo, lo chiamò al telefono e lo fece venire da lui la sera stessa per dirgli che «il governo francese giudicava inopportuno il procedimento», e per chiedergli «di pregare il Cardinale Segretario di Stato di sospendere la pubblicazione del messaggio fino a nuovo ordine»52.

Mons. Valerio Valeri comunicò alla Segreteria di Stato la sua opinione sulla pratica diplomatica appena svolta, il 12 maggio, dopo lo scacco del tentativo del Papa:

«È evidente che, nell'insieme, al momento  presente, gli Stati che si è convenuto di designare con il nome di "democrazie" non desiderano moltiplicare i contatti, ma piuttosto opporre una barriera all'espansione degli Stati totalitarî, estenderla e rafforzarla. D'altronde, essi sono convinti che, nel giro di pochi mesi, la bilancia delle forze contrapposte peserà  interamente dalla loro parte. È quello che mi è stato detto da Bonnet e ripetuto da Buritt, ambasciatore degli Stati Uniti, il quale non mi ha nascosto la sua soddisfazione nel sapere che il tentativo della Santa Sede non aveva futuro. Anche per lui, insomma, bisognava che gli Stati totalitarî fossero messi con le spalle al muro.  Solo dopo, quando avessero fornito le garanzie alle quali Roosevelt faceva allusione nel suo messaggio, si sarebbe potuto incominciare a discutere»54.

Il 7 maggio, Alexis Léger gli aveva manifestato la propria opposizione all'idea di una conferenza in termini più o meno simili ai seguenti:

Il nunzio a Londra, Mons. Godfrey, fu ricevuto il 5 maggio da Lord Halifax, che gli fece conoscere la posizione del governo inglese: «che Sua Santità offrisse i suoi buoni uffici successivamente e separatamente alla Polonia e alla Germania, alla Francia e all'Italia»55.

L'offerta di mediazione, anche qui, era declinata.

5. Le risposte di Parigi e di Londra, che sono tra le mani della Santa Sede a partire dal 7 maggio, annientano tutte le speranze che quelle dell'Italia e della Germania avevano fatto nascere nell'animo del Segretario di Stato e del Papa. L'8 maggio arriva quella della Polonia: essa è, evidentemente, allineata con quelle della Francia e dell'Inghilterra. La risposta ufficiale e definitiva delle potenze dell'Asse era comune. Essa giunge  per ultima: il 9 maggio.

Alla luce di quelle della Francia, dell'Inghilterra e della Polonia, e traendo le conclusioni dal loro carattere negativo, essa postulava «che una conferenza delle cinque potenze, destinata a ristabilire la situazione internazionale, sembrava prematura e, per il momento, inutile, non fosse che per non mettere in causa l'alta autorità del Sommo Pontefice»56.

Posti di fronte al fatto compiuto, Hitler e Mussolini non potevano dire null'altro.

Saul Friedländer non poteva non conoscere – anche solo attraverso il libro di Mons. Giovanetti, che egli cita spesso – l'evoluzione cronologica del tentativo di mediazione di Pio XII verso lo scacco: ma non ne fa parola. Domanda: per non indicarne i responsabili, che questa cronologia rende impietosamente noti?

Il testo del messaggio che Pio XII si proponeva di inviare a ciascuno dei cinque capi di Stato per invitarli a incontrarsi in una conferenza non è stato reso ufficialmente pubblico, a mia conoscenza. Se ne è saputo il contenuto soltanto tramite indiscrezioni della stampa diplomatica, la prima delle quali fu commessa il 9 maggio dal News Chronicle di Londra e ripresa nei giorni seguenti dalla stampa parigina, e poi anche dal discorso pronunciato dal Papa davanti al Sacro Collegio il successivo 2 giugno, consistente in una pubblica esortazione alla pace, da garantirsi tramite discussioni internazionali57. Lo si è conosciuto anche grazie all'accoglienza calorosa che la stampa del mondo intero, specialmente quella dei Paesi neutrali, fece al suddetto discorso del 2 giugno.

A partire da allora, gli sforzi di Pio XII in favore della pace si esercitarono nel senso in cui Lord Halifax, declinando la conferenza dei cinque Stati, aveva desiderato che si esercitassero: cioè nel tentativo di ristabilire relazioni corrette tra la Polonia e la Germania da una parte, la Francia e l'Italia dall'altra.

Non riuscì nemmeno in questo.

Di questi sforzi Saul Friedländer ricorda soltanto quelli che Pio XII fece in direzione della Germania e della Polonia, i quali furono caratterizzati soprattutto dai consigli di moderazione e di prudenza che a più riprese il Papa diede istruzione a Mons. Cortesi, suo Nunzio a Varsavia, di reiterare al governo polacco. Il 30 e 31 agosto, giunse perfino a consigliare alcune concessioni: ritorno di Danzica al Reich, sistemazione del Corridoio, garanzie di determinati diritti alle minoranze polacche di origine tedesca58.

E Saul Friedländer interpreta tutto questo nel senso seguente:

«... la Santa Sede accorderà  il suo appoggio alla diplomazia del Reich nel corso delle ultime settimane  della crisi»59.

Detto in altri termini, il Papa avrebbe agito per volontà di appoggiare la diplomazia tedesca, non di promuovere tra la Germania e la Polonia una sistemazione territoriale e un regolamento del tipo di quello della minoranza tedesca in Polonia, più razionale di quello che era stato previsto a Versailles e che era la fonte del conflitto germano-polacco.

Avrebbe agito per simpatia verso la Germania nazista.

Sempre lo stesso sistema.

Per dirla in breve, il periodo che va dallo scacco del suo tentativo di mediazione dell'inizio di maggio fino al 1° settembre 1939 fu dominato, il 24 agosto, da una esortazione pubblica «ai governi e ai popoli» in favore della pace, in cui si può leggere: «Nulla sarà perduto con la pace, tutto lo sarà con la guerra»60.

Il giorno successivo, il 25 agosto, i sovrani del Belgio e dell'Olanda fanno un estremo tentativo di mediazione: il Papa vi si associa, sottolineando «la felice coincidenza con la radio-diffusione del proprio messaggio di pace»61.

L'ultimo gesto di Pio XII fu, al termine di questo periodo, il 31 agosto 1939, una nota presentata dal Cardinale Segretario di Stato, Mons. Maglione, agli ambasciatori della Germania, della Polonia, dell'Inghilterra, della Francia e dell'Italia, che comportava due punti:

1. relativamente alla Germania e alla Polonia, proposta di una tregua di dieci-quattordici giorni, durante la quale i due Paesi si sarebbero impegnati ad astenersi da ogni misura e da ogni incidente che potesse aggravare la tensione;

2. relativamente a tutti i destinatarî, una richiesta in favore di una conferenza internazionale che avesse come scopo la regolazione del conflitto germano-polacco e la revisione del Trattato di Versailles62.

Nel pomeriggio di questo stesso 31 agosto 1939, Mussolini aveva proposto alla Francia e alla Gran Bretagna una conferenza a quattro per la quale suggeriva il 5 settembre, dopo avere incaricato il conte Ciano di dire a Mons. Maglione che «l'Italia appoggiava l'iniziativa pontificia con tutte le sue forze»63.

Queste due iniziative erano motivate dal fatto che il 19 agosto Hitler si era dichiarato pronto a negoziare, se prima della sera del 31 agosto i Polacchi gli avessero inviato un plenipotenziario con – appunto – pieni poteri di trattare, precisando che altrimenti sarebbe stata guerra (in sostanza), e tutto indicava che, forti dell'appoggio dell'Inghilterra e della Francia, i Polacchi non avrebbero inviato questo plenipotenziario.

Ma, commentando un telegramma di Weizsäcker inviato a Berlino da Roma il 30 agosto 1939 e che diceva: «nel caso in cui un plenipotenziario polacco non dovesse presentarsi a Berlino, si potrebbe forse contare su una nuova iniziativa del Papa», Saul Friedländer conclude: «Nessuna iniziativa pontificia ebbe luogo, alla fine, in questo senso»64.

Professore di storia contemporanea all'Institut Universitaire des Hautes Études Internationales di Ginevra (!!...). Una sola domanda: nominato in base ai suoi titoli o dietro semplice presentazione del suo certificato di battesimo?


III. Come Pio XII tentò di arrestare la guerra

E la guerra ebbe luogo...

La prima presa di posizione di Pio XII che sia stata resa pubblica risale al 14 settembre 1939. Si tratta della sua risposta al nuovo ambasciatore del Belgio che quel giorno era venuto a presentargli le sue credenziali:

«Non abbiamo bisogno di ripetere come, fino all'istante supremo che precedette l'apertura delle ostilità, Noi non abbiamo trascurato nulla di quello che potessimo tentare – sia attraverso preghiere ed esortazioni pubbliche, sia attraverso pratiche diplomatiche confidenziali reiterate e precise – per illuminare gli spiriti sulla gravità del pericolo e per condurli a negoziati leali e pacifici...».

Poi viene la frase che definisce il suo atteggiamento durante tutta la guerra:

«Non cesseremo di spiare attentamente, per assecondarle con tutto il nostro potere, le occasioni che si offriranno in primo luogo di incamminare di nuovo i popoli, oggi sollevati e divisi, verso la conclusione di una pace giusta e onorevole per tutti»1.

«Di una pace giusta e onorevole per tutti», non del ritorno allo status quo.

A questo proposito, Saul Friedländer commenta: «Va da sé che una pace che escluda il ritorno allo status quo non può che fare il gioco dei Tedeschi»2. A motivo di ciò, occorre guardarsi dal ritorno «a una pace giusta e onorevole per tutti», ma se si pensa che abbiamo avuto Hitler e la Seconda Guerra Mondiale precisamente perché il Trattato di Versailles non aveva stipulato «una pace giusta e onorevole per tutti» – in particolare per i Tedeschi, già da allora –, non si può che rimanere sbigottiti dagli impulsi che regolano i processi di pensiero di Saul Friedländer: allora, non ci sarà mai una pace giusta per i Tedeschi? E riparare i torti che erano stati arrecati loro nel 1919 non sarebbe altro che «fare il loro gioco», e non, piuttosto, ristabilire le condizioni della giustizia? Tanto varrebbe dichiarare direttamente che il rispetto della giustizia non è un imperativo della morale.

Tali posizioni non resistono all'esame. Parimenti, Pio XII, il quale, sebbene in una forma meno netta, le udì dai diplomatici alleati, non vi si fermò mai. La sua prima enciclica, Summi Pontificatus, si inserisce appieno, il 20 ottobre seguente, nella linea di condotta di cui egli aveva enunciato il principio nella sua risposta del 14 settembre all'ambasciatore del Belgio: una presa di posizione in favore del ritorno alla pace, che, in più, alle parole di Pio XI secondo cui «spiritualmente siamo tutti semiti» risponde con l'eco: «non ci sono né Giudei né Greci», cosa che è stata un po' troppo dimenticata. Al punto che, sul momento, questa enciclica fu accolta presso gli Alleati come «un documento della morale internazionale».

In numerose altre circostanze Pio XII riaffermerà queste posizioni di principio:

– nel suo messaggio di Natale 1939, che riassume quelli che gli sembrano essere i postulati giuridici e politici di una pace giusta e durevole3;

– nella sua lettera del 7 gennaio 1940 al presidente Roosevelt, in risposta a quella che aveva ricevuto da quest'ultimo il 24 dicembre 1939 e che gli annunciava sia la partenza del suo inviato personale Myron Taylor, sia la sua intenzione di ricercare «il sostegno delle tre grandi religioni per offrire al mondo, nel momento opportuno, i fondamenti di una pace durevole»; a questa lettera Pio XII risponde così:

«Nessuna notizia potrebbe risultarCi più gradita per Natale, dato che essa manifesta [...] un contributo importante ai nostri sforzi ai fini di stabilire una pace giusta e onorevole»4;

– 24 dicembre 1940: messaggio di Natale che riassume i suoi postulati per un ordine nuovo5;

– 20 aprile 1941: lettera al Cardinale Segretario di Stato con la richiesta di raccomandare preghiere pubbliche per la pace6;

– 17 luglio 1941: risposta al nuovo ambasciatore del Perù venuto a presentargli le proprie credenziali; il tema è: la giustizia sociale, fondamento della pace7;

– 24 dicembre 1941: messaggio di Natale sul tema delle condizioni di una pace giusta e durevole8;

– 13 maggio 1942 (in occasione del suo giubileo episcopale): discorso sul ruolo della Chiesa nel conflitto mondiale9;

– 24 dicembre 1942: messaggio di Natale sull'Ordine sociale cristiano10;

– 2 giugno 1943: allocuzione al Sacro Collegio il cui tema è una protesta contro la guerra totale11;

– 13 giugno 1943: discorso agli operai italiani in risposta alle calunnie contro l'azione pacificatrice della Santa Sede12;

– primo settembre 1943: messaggio all'universo per il quarto anniversario della guerra, sul tema: A che serve protrarre un tale flagello?13;

– 24 dicembre 1943: messaggio di Natale che tratta dei principî di un programma per una pace giusta e durevole14;

– 1° settembre 1944: messaggio all'universo per il quinto anniversario dell'entrata in guerra, che comprende un certo numero di considerazioni sul futuro relative all'organizzazione sociale e ai problemi economici15;

– 24 dicembre 1944: messaggio di Natale sulla vera democrazia e le condizioni in cui un'organizzazione internazionale può garantire efficacemente la pace16.

Non si è ritenuto indispensabile fornire gli estratti dei diversi testi che mostrano il Papa desideroso di creare, tra i popoli e gli uomini di Stato, un clima psicologico suscettibile di inclinare alla ripresa delle relazioni internazionali. È per questa ragione che se ne sono forniti i riferimenti esatti: il lettore potrà agevolmente controllare.

Partecipa della medesima preoccupazione di abbreviare la guerra quello che leggiamo sotto la penna della storica inglese troppo poco nota Anne Armstrong:

«... il Papa Pio XII nel giugno 1944 fece avvertire il presidente Roosevelt dall'inviato di quest'ultimo, Myron Taylor, che il tempo della pace sarebbe potuto esistere soltanto se avesse preso come base la carità cristiana, escludendo ogni desiderio di vendetta e ogni elemento di odio. Esigere una capitolazione senza condizioni – spiegò il Papa a Taylor – era incompatibile con la dottrina del Cristo»17.

Lo era anche con la ragione e con il semplice buon senso: oggi non c'è più nessuno che non sia stato convinto dai fatti ben noti  che questa esigenza della resa incondizionata abbia prolungato la guerra di almeno due anni.

Se, tuttavia, dal piano di questi principî costantemente riaffermati da Pio XII, si discende a quello delle conclusioni pratiche che ne sono state tratte, intendo dire agli interventi diplomatici da lui ispirati, ebbene, questi sono di due tipi, sia nel senso della limitazione dell'estensione del conflitto, sia in quello del ritorno alla pace generale: quelli che sono attestati da documenti inconfutabili e quelli che lo sono soltanto da affermazioni di testimoni più o meno qualificati.

Tra quelli che sono attestati in modo inconfutabile figurano i suoi molteplici interventi vòlti ad impedire all'Italia di entrare nel conflitto.

«Per l'intera durata di nove mesi – disse Paul Duclos – non ci fu settimana in cui il Sommo Pontefice, sia direttamente in un'allocuzione, in una lettera, in un'udienza, sia indirettamente, per mezzo del suo Segretario di Stato, dei suoi Nunzî o di personalità ufficiose, non abbia fatto pressione sull'opinione italiana e sui dirigenti responsabili – specialmente su Ciano»18.

Ed è vero.

Eccone alcune prove tra le più significative:

– Il 4 settembre [1939], poiché Il popolo d'Italia ha scritto che «alla restaurazione della nuova Europa [intrapresa da Hitler] e alla sua liberazione l'Italia non sarà in ogni caso estranea, Pio XII invia, il giorno 6, il Padre Tacchi Venturi presso Mussolini, per esortarlo a fare tutto il possibile in favore della pace.

– II 20 ottobre, l'enciclica Summi Pontificatus supplica «il Signore  di permettere che l'atmosfera serena di questa pace impregni, ravvivi, dilati e rafforzi potentemente e profondamente l'anima del popolo italiano».

– Il 7 dicembre, accogliendo Alfieri, il nuovo ambasciatore dell'Italia presso il Vaticano, egli si dice «sicuro che i suoi sforzi in favore della pace troveranno sempre un'eco fedele nel valoroso, forte e laborioso popolo italiano, che la saggezza dei suoi governanti e il suo proprio sentimento intimo hanno finora preservato dal trovarsi implicato nella guerra»19.

– In dicembre, relazioni nuove si stringono tra il re d'Italia, che parteggia per la neutralità italiana, e il Papa, per intermediazione del conte Ciano, il quale è della stessa opinione: il 21 dicembre, i sovrani d'Italia, accompagnati dal conte Ciano, sono ricevuti in Vaticano – cosa che non si era più vista dopo il Concordato del 1929! – e, nel suo discorso, il Papa formula il desiderio «che Dio accordi al popolo italiano, in una vigilanza previdente e in una saggezza conciliante, non soltanto la sua pace interiore e la sua pace esteriore, ma anche il ristabilimento di una pace onorevole e durevole, tra i popoli»20. Il 28 dicembre, il Papa rende al re la sua visita – nessun Papa era venuto al Quirinale da settant'anni! – ed esprime pensieri analoghi.

– Il 17 marzo [1940], incontro Hitler-Mussolini al Brennero. Il Duce ne ritorna incatenato al carro di Hitler. L'Osservatore Romano incomincia una campagna pacifista. Il 9 aprile l'ambasciatore Alfieri è incaricato da Mussolini di protestare. Replica di Mons. Maglione: «L'Osservatore Romano, che è stampato in italiano ma che è l'organo della Santa Sede, non può essere confuso con i giornali italiani [...] Dovunque, e soprattutto all'estero, bisogna che si veda che è veramente  il giornale della Santa Sede, un giornale imparziale e sereno»21.

– Il 24 aprile, lettera personale del Duce: «Il Santo Padre formula, dal più profondo del suo cuore, il voto ardente che le più vaste rovine e i dolori più numerosi siano risparmiati all'Europa, e in particolare al nostro caro Paese, al vostro Paese, una calamità così grande»22. Le relazioni si irrigidiscono... il Papa si inasprisce sulle sue posizioni.

– Ed è allora che si verifica l'incidente ben noto del 13 maggio 1940: l'ambasciatore Alfieri era stato incaricato di presentare nuove rimostranze alla Santa Sede riguardo alla campagna pacifista dell'Osservatore Romano, a causa di un discorso  che era stato un vibrante appello al popolo in favore della neutralità italiana, pronunciato il 5 maggio nella chiesa di Santa Minerva, e riguardo a tre telegrammi che condannavano l'invasione del Belgio, dell'Olanda e del Lussemburgo, indirizzati dal Papa  rispettivamente a ciascuno dei sovrani di questi tre Paesi. «Il Santo Padre – disse Alfieri – mi rispose che non capiva l'irritazione del capo del governo. "Avvenga quello che potrà", concluse egli con una fermezza serena: "vengano dunque a prendermi per portarmi in un campo di concentramento. Ciascuno dovrà rispondere davanti a Dio dei proprî atti».

Si sa che Mussolini era irreversibilmente impegnato sulla strada dell'intervento. Pio XII dovette confessare la sua impotenza il 2 giugno davanti al Sacro Collegio. Il 10, l'Italia dichiarava guerra alla Francia.

Per opporsi all'entrata in guerra della Germania contro la Russia, poi del Giappone contro gli Stati Uniti e infine, per conseguenza, della Germania contro gli Stati Uniti, Pio XII era in condizioni molto peggiori, se non totalmente disarmato: in entrambi i casi, fu messo davanti al fatto compiuto. Almeno rifiutò di cedere, ricusando sia di entrare in una crociata anti-nazista, come lo sollecitavano incessantemente a fare gli Alleati, sia in una crociata anti-bolscevica, come lo sollecitavano, non meno incessantemente, a fare le potenze dell'Asse, il che sarebbe equivalso, in entrambi i casi, ad entrare in guerra al fianco degli uni o degli altri.

Anche qui, alcuni testi fanno fede:

«Radio-Mosca poté annunciare nel 1943 che Pio XII aveva rifiutato di collaborare con Hitler in una crociata contro la Russia sovietica», dice l'Osservatore Romano del 16 gennaio 1945, e nessuna smentita è mai stata opposta a questa dichiarazione.

Poi le parole di Pio XII stesso:

«Noi Ci siamo ben guardati, in particolare, nonostante certe pressioni tendenziose, dal lasciare sfuggire dalle Nostre labbra o dalla Nostra penna una sola parola, un solo indizio di approvazione o di incoraggiamento in favore della guerra intrapresa contro la Russia nel 1941»24.

E lo si può credere, dal momento che perfino Saul Friedländer ne conviene25, pur mantenendo ferma la tesi che l'atteggiamento di Pio XII fosse ispirato soltanto dalle sue simpatie per la Germania nazista, unico baluardo contro il bolscevismo – il che, in materia di contraddizioni,  è un modello nel suo genere26.

Nel settembre 1941, gli Anglosassoni, fino ad allora neutrali, si apprestano a sostenere i Russi. Il giorno 9, Myron Taylor presenta a Pio XII una lettera datata il 3 con la quale Roosevelt lo informa delle ragioni che depongono a favore: la dittatura russa meno dannosa per la sicurezza delle altre nazioni rispetto alla dittatura tedesca, i crimini nazisti. Segue una ragione che dovrebbe far decidere il Papa a invitare i cattolici americani ad impegnarsi sulla stessa strada del loro presidente, vale a dire impegnarvisi egli stesso e sostenere Roosevelt davanti all'opinione pubblica americana: tale ragione sarebbe che la situazione religiosa è migliorata in Russia, in quanto un patriarca ortodosso è stato appena eletto a Mosca con l'approvazione del governo, essendo stata autorizzata in quel luogo una ripresa della celebrazione del culto. Il Papa declina l'invito e Taylor rende conto: «Sua Santità ha confermato che la Santa Sede condanna il comunismo ateo e i sistemi totalitarî, ma continua a guardare al popolo russo con un affetto del tutto paterno». Nel suo Messaggio di Natale 1941 egli confermò in una forma generale questo rifiuto di prendere posizione nel senso in cui vi era sollecitato da Roosevelt: «Dio Ci è testimone che Noi amiamo di pari affetto tutti i popoli, e che, proprio per evitare perfino di dare l'impressione di essere guidati da uno spirito di parte, Ci siamo imposti finora un estremo riserbo»27.

Si comprende quindi il senso che, così ristabilito nel suo contesto, deve assumere il termine «riserbo», attorno al quale gli avversarî del Pio XII pacifista hanno fatto tanto chiasso. L'ambasciatore del Reich a Madrid ha sicuramente ragione quando scrive: «Il Papa non avrebbe dato prova di una grande comprensione riguardo a questo atteggiamento [di Roosevelt] e avrebbe sottolineato una volta di più che l'estensione del conflitto avrebbe significato la più grande catastrofe. Egli si rallegrava, comunque, del fatto che gli Stati Uniti fossero ancora neutrali, poiché soltanto così avrebbero potuto partecipare con la Santa Sede al ristabilimento della pace»28. Tutte le parole del Papa, tutti i suoi scritti vanno in questa direzione – si crede di averlo stabilito in modo indiscutibile.

E se, l'11 dicembre, Bergen scrive: «Negli ambienti del Vaticano, l'atteggiamento di Roosevelt è severamente criticato. Il presidente si è non solo sforzato di estendere il conflitto ad altri Paesi, ma è riuscito anche, con le sue manovre, a fare entrare il proprio Paese in guerra»29, non c'è dubbio che, sotto questa forma, egli presti alla Santa Sede un pensiero che è il suo proprio, ma ha incontestabilmente ragione: Roosevelt, effettivamente, manovrò  per «estendere il conflitto ad altri Paesi e per fare entrare [il suo] proprio in guerra». La sua politica con il Giappone, a proposito degli scambî commerciali tra i due Paesi, lo prova ampiamente, e il contenuto della sua lettera a Pio XII del 3 settembre 1939, senza la minima provocazione della Germania, è una confessione. Si può soltanto meravigliarsi del fatto che, avendo manovrato in questo modo, era stato preso alla sprovvista da Pearl Harbor il 7 dicembre seguente e, proprio come il Papa, era stato posto davanti al fatto compiuto.

In tutta questa faccenda, Saul Friedländer conclude conferendo particolare valore alle informazioni trasmesse dall'ambasciatore tedesco Bergen alla Wilhelmstraße, il 21 marzo 1942:

«Come ho appena appreso per vie molto riservate, la Santa Sede, probabilmente spinta dal governo italiano, ha effettivamente esercitato una pressione, tramite i suoi Nunzî, sui governi che presero parte alla Conferenza di Rio [delle nazioni sudamericane, che Roosevelt cercava di portare a rompere le loro relazioni diplomatiche con l'Asse e con il Giappone] per convincerle a mantenere la loro neutralità. Un dispaccio della United Press obbligò il delegato della Santa Sede a Washington a pubblicare una smentita, per non essere accusato di ingerenza e di presa di posizione nel conflitto»30.

Che i Nunzî del Papa nell'America del Sud fossero, come Pio XII, contrarî all'estensione del conflitto, va da sé. Che essi non si siano nascosti, così come Pio XII stesso non si nascondeva, va parimenti da sé. Ma tra questo e parlare di «pressione» intercorre più di un passo: di qui la smentita. E che Pio XII sia stato orientato su questa strada perché «spinto dal governo italiano», al quale avrebbe obbedito, ecco che ciò supera ogni comprensione, se soltanto si vuole ricordare con quale fermezza egli rispondesse alle rimostranze che gli erano state presentate dal Duce31.

Che l'ambasciatore tedesco comunichi questo al suo governo per spiegare uno dei suoi scacchi, passi. Ma quello che Saul Friedländer prende come oro colato è una semplice insinuazione. Ciò è conforme, d'altronde, al suo modo di agire, che, lungo tutto il suo studio, non è costituito da altro che da insinuazioni.

Infatti, qui, come in tutte le occasioni, Pio XII si comportò come si comportò solo perché era contrario all'estensione del conflitto, e non per fare piacere al Duce. Agì così perché gli stava a cuore il ritorno della pace e, per riportare la pace, il mezzo migliore non è mai quello di estendere la guerra a Paesi che non vi sono ancora coinvolti.


IV. I tentativi diplomatici del Vaticano

Non rimane ora che mostrare, proprio sul piano pratico, ossia diplomatico, come Pio XII, dopo essersi sforzato di impedire che il conflitto si estendesse, abbia – secondo le sue stesse parole – «spiato [...] tutte le occasioni che si offrissero [...] di incamminare i popoli [...] verso la conclusione di una pace giusta e onorevole per tutti», e come le abbia messe a frutto.

Bisogna, in primo luogo, convenirne: sebbene egli non abbia mai smesso né di desiderarlo né di sperarlo, le circostanze non gli permisero mai, come a Benedetto XV durante il primo conflitto mondiale, di lanciare un'offensiva diplomatica di pace durante il secondo. Tutt'al più, poteva tentare di mettere in contatto tra loro le varie parti belligeranti. Ed ecco, in ordine cronologico, le occasioni che ebbe di fare questo.

1. Poiché la campagna di Polonia si è conclusa a suo vantaggio, Hitler chiede a Mussolini, che si trova in una situazione migliore della sua, in quanto è sempre neutrale, di procedere a sondaggi di pace sulla base di un compromesso che prevedeva una Polonia amputata delle sue minoranze tedesca, ucraina e lituana. Il Duce fa due cose: da una parte, a metà settembre, incarica Il Popolo d'Italia di pubblicare una serie di articoli che fanno pressione sull'Inghilterra e sulla Francia perché  accettino un compromesso su questa base; dall'altra, richiede al conte Ciano, suo ministro degli Esteri, di far trasmettere a Pio XII una preghiera di usare la sua influenza a Londra e a Parigi per facilitare una tale apertura alla pace. Il 22 settembre l'Osservatore Romano pubblica quello che, tra i suddetti articoli, riflette meglio le condizioni del compromesso, e questa pubblicazione, da sola, stabilisce indiscutibilmente che Pio XII era favorevole a un'apertura di pace in questa forma, d'altronde molto accettabile, poiché, se avesse sortito effetti, dato che la Russia non era in guerra, si sarebbe ritrovata la pace.

A questo proposito, l'8 ottobre seguente Hitler pronuncia al Reichstag un discorso che è una proposta di pace generale:  nessuna mira di guerra contro la Francia e l'Inghilterra, nessuna domanda di revisione del Trattato di Versailles se non a proposito delle colonie, uno Stato polacco indipendente dopo la risoluzione del problema delle minoranze europee nel corso di una conferenza generale che egli proponeva, risoluzione del problema giudaico, disarmo, cooperazione europea... Niente di tutto questo che non fosse giusto: più preciso e dunque ancora più accettabile degli articoli de Il Popolo d'Italia.

Due autori pretendono, senza precisarne la data, che Mons. Maglione, Segretario di Stato del Vaticano, abbia incaricato i Nunzî apostolici a Parigi e a Londra di trasmettere un messaggio pontificio in questo senso ai due governi: tali autori sono Paul Duclos e Mourin. Il primo parla di una «offerta di buoni uffici» che egli caratterizza così: «Il Papa si accontenta di esprimere il suo desiderio di vedere la pace restaurata in Europa, e consiglia alle due nazioni di cogliere la prima occasione per ottenere questo  scopo»32. E il secondo: «L'intervento del Vaticano restò vago e prudente. Desiderava evitare che una presa di posizione troppo netta producesse un turbamento di coscienza presso i cattolici dei Paesi in guerra»33. Negli Actes de Pie XII [Atti di Pio XII] pubblicati dalla Bonne Presse34, infine, si legge che, in materia di interventi diplomatici «attraverso le vie ufficiali ordinarie, Pio XII accettò (fine 1939 - inizio 1940), su richiesta degli ambienti politici e militari tedeschi influenti, di trasmettere alcune richieste sugli scopi della guerra e sulle condizioni della pace all'altra parte belligerante», e che «l'intervento del Papa [nella guerra] si limitò a questa trasmissione».

Conclusione: si trattava di quelle note di sondaggio che sono tradizionali nella diplomazia vaticana: prima di proporre i suoi "buoni uffici", Pio XII voleva innanzitutto conoscere quali possibilità di successo avrebbe avuto la sua proposta. Ebbene, non ne aveva nessuna. Dall'alto della tribuna della Camera dei Comuni, la risposta alle proposte di pace giunse per voce di Chamberlain, il 12 ottobre: «All'attuale governo tedesco – diceva – non può essere accordata nessuna fiducia». L'indomani, 13 ottobre, Hitler concludeva che «Chamberlain, rifiutando la sua offerta di pace, aveva deliberatamente scelto la guerra». L'iniziativa del Papa rimase in sospeso: non aveva più motivo di proporre i suoi buoni uffici.

2. Il 7 novembre 1939 la regina d'Olanda e il re del Belgio proponevano la loro mediazione ai belligeranti. I sovrani della Danimarca e della Norvegia, della Svezia, della Romania e il presidente della repubblica della Finlandia appoggiavano la proposta. Anche il Vaticano35.

3. La richiesta di cui sopra, da parte dei Tedeschi, all'altra parte belligerante, relativa ai suoi scopi di guerra e alle sue condizioni di pace.

4. L'11 marzo 1940, nel corso della sua visita a Roma di cui si è già parlato36, Ribbentrop, secondo Camille Cianfarra, avrebbe sottoposto a Pio XII, con preghiera di farlo conoscere agli Alleati, un piano di pace in 11 punti. Ma nulla consente di pensare che tale piano sia stato effettivamente sottoposto da Ribbentrop a Pio XII, salvo le smentite, di cui la stampa dell'epoca diede notizia, da parte di Londra, di Parigi, di Berlino e del Vaticano stesso37.

5. Il 28 giugno 1940, dopo l'annientamento della Francia, Mons. Maglione presenta agli ambasciatori di Germania, Inghilterra e Italia presso la Santa Sede la nota seguente:

«Il Santo Padre, mosso dalla previsione dei dolori innumerevoli e delle rovine irreparabili ai quali darà àdito la ripresa ormai prossima delle ostilità, e con l'unico intento di compiere uno sforzo supremo per salvaguardare l'umanità e la civiltà, certo che il prolungamento della guerra potrebbe ingenerare altri conflitti e altre crisi e che, d'altronde, una pace giusta e onorevole è desiderata da tutti i popoli,  avrebbe intenzione di indirizzarsi ai governi di Germania, Inghilterra e Italia di sua propria iniziativa, per pregarli di studiare le possibilità di un accordo che permetta di porre fine al conflitto. Prima di avanzare questa proposta, il Santo Padre desidera tuttavia che Vostra Eccellenza domandi confidenzialmente al Vostro governo quale accoglienza potrebbe ricevere da parte sua un simile invito».

Il 19 luglio, in un grande discorso pronunciato al Reichstag, Hitler propone ufficialmente la pace alla Gran Bretagna, che egli non ha  – dice – nessun desiderio di distruggere, e all'impero coloniale, a cui non ha la minima intenzione di portare attacchi. Il 21 luglio, tramite un'allocuzione diffusa via radio, Lord Halifax proclama in risposta: «Noi continueremo la lotta finché la libertà non sia assicurata»39.

Il 26 luglio, il segretario di Stato agli Affari Esteri del Reich, Weizsäcker, comunica al Nunzio Orsenigo la risposta del Reich al messaggio di Pio XII:

«Noi pensiamo di avere abbastanza indizî riguardo alla eventuale risposta di Londra ai sondaggi della Curia per poter considerare questa risposta come negativa.

«La risposta tedesca è stata di fatto espressa dal discorso del Führer del 19. La dichiarazione di Lord Halifax, nella sua allocuzione radiodiffusa del 21, conferma la nostra opinione relativa all'ostinazione del governo britannico. È evidente che l'Inghilterra vuole la guerra e che l'avrà, in tutto il suo orrore.

«Ora – soggiunse – non c'è più nulla da fare: per sposarsi occorre essere in due»40.

Pio XII, di conseguenza, non intervenne più ufficialmente.

6. Paul Duclos rende pubblici alcuni insegnamenti che – dice – gli sono stati comunicati dalla famiglia del fu Dr. Domenico Russo, noto antifascista, che fu presidente del Comitato di Liberazione Nazionale italiano, accanito apostolo della pace, amico di Francesco Nitti, di Mons. Maglione e di certe personalità (non nominate) dell'entourage di Hitler. Secondo queste informazioni, nell'agosto 1942 Mons. Maglione e il Dr. Domenico Russo sarebbero risultati d'accordo sul fatto che si sarebbe forse potuto ottenere da Hitler che accettasse un'iniziativa del Papa in favore di una sospensione delle ostilità e di una conferenza generale. Su questo, il Dottore si sarebbe informato e, in ottobre, l'innominata personalità in questione gli avrebbe detto, da parte di Hitler, all'attenzione della Santa Sede: «Nonostante i torti del Papato nei miei confronti, io sono pronto ad accordarmi con la Santa Sede, se il Papa vuole intervenire per la pace». Ma, prima che il Vaticano avesse dato la sua risposta, lo sbarco americano avrebbe rimesso tutto in questione. Il Dr. Russo avrebbe ripreso i suo tentativi per mezzo della Svizzera e poi del Portogallo, dove, essendo riuscito a entrare in contatto con il Foreign Office  grazie ad un suo amico, ne avrebbe ottenuto, il 22 giugno 1943, la seguente risposta: «Se il Segretario di Stato della Santa Sede domanda al nostro ministro presso di lui, Osborne, se l'Inghilterra sia pronta ad accettare una mediazione pontificia, Osborne sarà incaricato di rispondere affermativamente». Ma il Dr. Russo sarebbe rientrato a Roma definitivamente soltanto il 10 luglio 1943, il giorno dello sbarco degli Alleati in Sicilia. «Così – soggiunge Paul Duclos –, quando il Card. Maglione pone a Osborne la domanda convenuta, il ministro britannico risponde che le istruzioni da lui ricevute non sono più valide»41.

Che pensare di tutto questo? È certo che, sollecitato da Hitler ad assumere un'iniziativa «in favore di una sospensione delle ostilità e di una conferenza generale» senza altre precisazioni, Pio XII non avrebbe potuto declinare la proposta se non ponendosi in contraddizione con tutto quello che aveva detto fino ad allora. Questa proposta fu nelle intenzioni di Hitler e fu formulata in termini tali che gli sforzi del Dr. Domenico Russo giunsero fino alla domanda posta da Mons. Maglione a Osborne? È possibile, ma non è certo: nulla lo attesta, salvo le memorie del capo del controspionaggio nazista, Schellenberg42, che, senza nominare alcuno, parlano di negoziati di pace con gli Alleati con l'intermediario della Svizzera, del Vaticano e del Portogallo, a cui Himmler si sarebbe unito, i quali si sarebbero arenati a causa dello sbarco americano in Africa del Nord l'8 novembre 1942 e di quello degli Anglo-Americani in Sicilia del 10 luglio 1943. Si trattava degli stessi? Questi, in ogni caso, sembrano essere stati condotti all'insaputa di Hitler, e, dal canto suo, se avesse fatto condurre le stesse pratiche diplomatiche dagli stessi uomini, bisognerebbe ammettere che sarebbe caduto in un tranello.

Tutto questo è molto oscuro, e, se i ragguagli forniti a Paul Duclos dalla famiglia del Dr. Domenico Russo sono esatti, non si potrebbe che attestare, tutt'al più, una velleità di intervento della Santa Sede che non ebbe alcun séguito sul piano diplomatico.

7. Si segnalerà qui a puro scopo documentario e perché, qualora fosse autentica, attesterebbe un'apertura di Hitler alla pace nel marzo 1943, una nota di protesta contro l'arresto degli Ebrei di Roma, indirizzata il 16 ottobre 1943 al generale Stahel, comandante militare di Roma, da Mons. Hudal, rettore austriaco di Santa Maria dell'Anima, intermediario ufficioso del Vaticano e dunque addentro ai più importanti segreti. In questa nota si legge quello che segue: «Entro breve, il Reich dovrà ricorrere al Vaticano per missioni precise, e già in marzo si sono avviate pratiche in questo senso. Sarebbe un danno troppo grave, per la questione della pace, se questa persecuzione degli Ebrei dovesse provocare, indisponendolo, un dissenso tra il Vaticano e il Reich»43.

L'autenticità del documento è garantita da Rolf Hochhuth, che lo cita nel suo Vicario. Che io sappia, non è discussa da nessuno. Ma, se si risale alle fonti, ci si accorge che soltanto un giornalista accreditato presso il Vaticano, Montefiore, ne fa menzione in un manoscritto... inedito, ci dice Paul Duclos. È molto esigua come garanzia di autenticità. E, se il documento è comunque autentico, attesta soltanto un'iniziativa di Hitler per trattative con il Vaticano che non ha avuto séguito.

8. Infine, ecco un'ultima pratica diplomatica alla quale F.W. Deakin associa il Vaticano e che non ha possibilità di essere autentica nei termini in cui è riportata da questo autore. Nel luglio 1943, tra i politici italiani, molti pensavano – dice F.W. Deakin – che fosse venuto il momento di ricercare una soluzione politica alla guerra, dato che ogni soluzione militare sembrava loro esclusa. È vero: si sa dal suo diario  che il conte Ciano era tra quanti la pensavano così. Che – come aggiunge Deakin – il Duce non vedesse di cattivo occhio una soluzione di questo genere, anche se essa prospettava inevitabilmente  un abbandono della Germania da parte dell'Italia, è comunque dubbio – più che dubbio.

Ecco, qui di séguito, la cronologia di tale pratica diplomatica.

Il 17 luglio Bastianini, Sottosegretario di Stato di Mussolini agli Affari Esteri,  avrebbe fatto visita a Mons. Maglione per presentargli un memorandum  sulla situazione, in guerra, dell'Italia rispetto alla Germania e dell'Asse rispetto agli Alleati. Scopo: «Far decidere il Vaticano a intraprendere alcuni sondaggi presso gli Alleati per conoscere le loro intenzioni riguardo all'Italia». Dando per scontata l'approvazione del Duce, egli sperava di poter inviare un emissario agli Inglesi, e la sua scelta cadde sul banchiere romano Luigi Fummi, che era in rapporto con il gruppo Pierpont-Morgan e amministratore dei beni del Vaticano. Il progetto era il seguente: Fummi sarebbe partito per Lisbona con un passaporto diplomatico del Vaticano e, di là, si sarebbe recato in Inghilterra con un visto del Portogallo. A Londra, avrebbe consegnato personalmente, a nome dell'Italia, della Romania e dell'Ungheria, un messaggio di Bastianini a Eden. Accordo di Mons. Maglione (?). Il 18 luglio: colloquio Fummi-Duce (?). Il 19 (data presentata come incerta): partenza di Fummi per Lisbona, in aereo. A Lisbona, dove si dice che egli abbia atteso invano il visto britannico, si perdono le sue tracce, al punto che la data del suo ritorno a Roma non è indicata. La sua presenza vi è segnalata da un telegramma dell'ambasciatore tedesco a... Madrid (!) datato il 26 luglio.

In questa storia, così come viene presentata, di tutto ciò che F.W. Deakin segnala, l'unica cosa certa è il suddetto telegramma, che esiste negli archivî tedeschi.  È per lo meno sorprendente che venga da Madrid e che l'ambasciata tedesca a Lisbona non ne abbia saputo, apparentemente, nulla. Questo telegramma non è d'altronde il solo a segnalare sforzi del Vaticano tendenti a ottenere dagli Alleati una pace separata con l'Italia. Saul Friedländer ne cita altri tre: uno che viene da Roma45, sotto il timbro di Weizsäcker, cita una lettera (guarda caso non ritrovata!...) indirizzata all'ambasciatore tedesco dall'attuale Papa Paolo VI, allora Card. Montini e Sottosegretario di Stato in Vaticano, che permette a Weizsäcker di concludere: «Che l'Italia esca bene dalla guerra è conforme al desiderio del Vaticano», e fa dichiarare a Saul Friedländer, senza conoscere questa lettera, che «sembra [sic] che si possa inferire che il Sottosegretario di Stato fosse probabilmente [di nuovo sic] uno di coloro che erano  favorevoli a un armistizio separato dell'Italia». Il secondo viene dall'ambasciata tedesca di Parigi46 e afferma che, nelle intenzioni del Vaticano, la pace con l'Italia «dovrebbe essere un primo passo verso un'unità di azione tra gli Anglosassoni e i Tedeschi per creare un fronte unito euro-americano e cristiano contro l'Asia», ma senza riferimenti. La terza viene anch'essa dall'ambasciata tedesca di Parigi e, secondo un'informazione pervenuta ad essa da Lisbona (!), pretende che «il Papa faccia i più grandi sforzi, attraverso i suoi delegati in Inghilterra e negli Stati Uniti, ai fini di ottenere una pace onorevole per l'Italia». Un quarto telegramma, spedito dall'ambasciata di Parigi, informa Berlino non del fatto che il Vaticano stia lavorando per ottenere una pace separata degli Occidentali con l'Italia, ma del fatto che «in Vaticano [regni] una forte tendenza a favorire un avvicinamento tra le potenze dell'Asse e gli Anglo-Americani contro il bolscevismo»49. e che «il Papa [si stia sforzando] in tutti i modi possibili di portare una pace tra l'Inghilterra e la Germania.

Non si portare alcun giudizio di valore sui telegrammi, a meno che, prima, non si collochino i loro autori entro le circostanze davanti alle quali si trovavano.

L'anno 1943 fu caratterizzato, in tutte le capitali europee, da un'intensa attività diplomatica provocata dagli eventi militari: la disfatta tedesca e italiana nell'Africa del Nord, che, incominciata nell'agosto 1942, continuò di sconfitta in sconfitta fino alla liberazione dell'Italia; lo sbarco americano a Casablanca (8 novembre 1942), la caduta di Stalingrado (2 febbraio 1943), inizio della disfatta tedesca sul fronte dell'Est. Colui che per primo sembra avere preso coscienza del ribaltamento della situazione militare fu von Ribbentrop, il ministro degli Esteri tedesco: nel novembre del 1942, dopo lo sbarco degli Americani nell'Africa del Nord, suggerì al Führer di entrare in relazione con Stalin grazie alla mediazione della Signora Kollontai, ambasciatrice di Stalin a Stoccolma, e subì un rifiuto che – disse – non gli impedì di ritornare alla carica nel febbraio 1943, dopo la caduta di Stalingrado, ma senza maggiore successo, malgrado la Dichiarazione di Casablanca ispirata da Roosevelt, che esigeva la capitolazione incondizionata dell'Asse. Von Ribbentrop aggiunge che, questa volta, passò oltre, e, pensando di poter portare a una composizione i Russi, che attribuivano a un machiavellismo degli Anglo-Americani il fatto che non avessero ancora aperto un secondo fronte in occidente, e non vi credevano, incaricò Peter Kleist dell'operazione50. Peter Kleist conferma51.

La prima reazione di Mussolini sembra databile al tempo della visita del maresciallo Goering a Roma il 4 dicembre 1942. Secondo il conte Ciano, il Duce gli dettò un breve riassunto del colloquio che i due uomini avevano avuto a quattr'occhi: «Il Duce ritiene che, in un modo o nell'altro, il capitolo ormai senza oggetto della guerra contro la Russia sia chiuso. Nel caso in cui fosse possibile arrivare a un secondo Breszt-Litovsk – offrendo alla Russia compensazioni territoriali in Asia Centrale –, occorrerebbe creare una linea difensiva che distruggesse tutte le iniziative del nemico, impegnando il minimo di truppe dell'Asse. Goering dice che sarebbe l'ideale di Hitler»52.

In Italia, l'opinione pubblica si occupò appassionatamente della questione, soprattutto dopo la caduta di Stalingrado. In marzo si ebbero importanti scioperi a Torino e a Milano. Infine, la situazione militare provocò, in seno al Gran Consiglio fascista, dissensi tali che sfociarono nella caduta di Mussolini. Il ruolo del re – che aveva accettato il fascismo e acconsentito alla guerra solo perché costretto – in questa faccenda è troppo noto e troppo poco controverso perché sia necessario  soffermarvisi. Analogo discorso vale per il conte Ciano. A proposito della guerra e della pace si ebbero almeno quattro correnti di opinione in Italia: coloro che nel 1943 erano fautori di una pace separata con l'Est; i sostenitori della pace separata con l'Ovest, ma della pace dell'Asse, e non soltanto dell'Italia; i fautori della pace separata dell'Italia con l'Ovest, e quelli che volevano che l'Italia rimanesse fino all'ultimo sempre a fianco della Germania. Una cospicua letteratura italiana di carattere memorialistico attesta che tutte queste correnti avevano rappresentanti influenti nel personale politico dirigente: ne fa parte anche il libro di quella donna semplice e degna che fu Rachele Mussolini53, moglie del Duce.

La più importante di tutte queste correnti di opinione fu quella dei fautori della pace separata tra l'Asse e l'Occidente: i capi di questa corrente riuscirono a trascinare sulla propria scorta l'Ungheria, la Romania e la Turchia, e a interessare favorevolmente alla propria posizione la Spagna e il Portogallo; inoltre, ricercarono l'appoggio del Vaticano. Lo stesso fecero i fautori dell'abbandono della Germania da parte dell'Italia, poco numerosi in quanto, praticamente, la Germania, alla minima velleità in questo senso, avrebbe occupato tutta l'Italia, il che, in ogni caso, l'avrebbe mantenuta in guerra. È quindi in questa forma che, dopo la caduta di Mussolini, si sviluppò l'operazione Badoglio. Tutti i discorsi di Mussolini, tutti i resoconti dei suoi colloquî con Hitler provano che Mussolini era favorevole alla pace separata dell'Asse con l'Est, e che, a più riprese. intervenne presso Hitler in questo senso. Ed è per questo che, quando F.W. Deakin ci dice che egli diede il suo assenso all'iniziativa, presa da Bastianini, di una pace separata dell'Italia con l'Occidente, ci sono ben poche possibilità, se non addirittura nessuna, che sia vero. E non ci sono possibilità maggiori che Mons. Maglione si sia associato, accordando, con cognizione di causa, un passaporto del Vaticano al banchiere Fummi. Bastianini lo racconta, è vero54, ma dopo la guerra Bastianini doveva cercare di tirarsi fuori dalla questione dell'Italia, e, dato che sia il Duce sia Mons. Maglione erano morti, era escluso che si facessero avanti a contraddirlo. D'altra parte, nessuno degli scritti o degli atti del Papa o di Mons. Maglione attestati da documenti indiscutibili permette di pensare che essi avessero potuto dare il loro assenso a un'operazione di pace separata dell'Italia soltanto con l'Occidente, in quanto tutto attesta che essi erano favorevoli non a una pace negoziata dall'Asse in questo senso, bensì a una pace generale. Il telegramma dell'ambasciatore tedesco a Madrid? È possibile che il banchiere Fummi si sia trovato a Lisbona nella data indicata: non è nemmeno discutibile. Ma il banchiere Fummi era amministratore dei beni del Vaticano e, a questo titolo, viaggiava molto con un passaporto del Vaticano e il consenso del governo italiano, il che basta a spiegare il suo colloquio con il Duce prima della sua partenza da Roma. Infine, l'ambasciatore tedesco a Lisbona non segnalò la sua presenza in questa capitale, indubbiamente perché ne conosceva l'oggetto, e, se questo oggetto fosse stato quello che dice Bastianini, non c'è dubbio che, alla ricezione del telegramma dell'ambasciatore tedesco a Madrid, venendo a sapere di questo tradimento da parte dell'alleato italiano, il Führer sarebbe entrato contro di esso in una collera tale i cui echi si farebbero sentire ancora ai giorni nostri. Ora, non solo non avvenne nulla di tutto questo, ma si sa quello che egli fece per salvare Mussolini prigioniero di Badoglio.

E questo prova che, determinato com'era sullo scopo degli spostamenti del banchiere Fummi, non lo era di meno sul credito che conveniva accordare al telegramma del suo ambasciatore a Madrid.

Questa attività diplomatica orientata verso Occidente, che si nutriva della speranza di associarsi il Vaticano, assume un significato tutto particolare se si sa che essa trovava corrispondenza in un'altra, quella dell'opposizione tedesca al regime nazista, che tentava di ottenere da Pio XII l'appoggio dei cattolici tedeschi al movimento che essa cercava di costituire nel Paese contro Hitler, e se si sa che giustamente essa aveva ottenuto la designazione di uno dei suoi adepti, Weizsäcker – lo ha detto lui e l' ha detto anch'essa, all'ambasciata di Roma, nel luglio 1943. Da allora, i telegrammi di Weiszäcker assumono, essi pure, un senso del tutto particolare. Da quello che egli ha detto del proprio ruolo e da quello che attestano i documenti pubblicati finora, risulta che egli era molto più animato dalla speranza che Pio XII prendesse posizione in favore dei negoziati di pace separata tra l'Asse e l'Occidente che da quella di portarlo a sostenere, presso i cattolici tedeschi, l'opposizione a Hitler. Quello che i suoi telegrammi riflettono è questa speranza, che egli presenta come fondata su realtà che sono soltanto mere costruzioni di uno spirito orientato. Egli sapeva, in più, che, tentando di far prendere sul serio queste costruzioni mentali a  von Ribbentrop e a Hitler, conferiva rilievo al proprio ruolo, e, d'altra parte, non rischiava assolutamente nulla.

Infatti, nel 1943 quali erano, sul piano diplomatico, le disposizioni di spirito di von Ribbentrop e di Hitler? Si sa già che, mentre il secondo vi era avverso, il primo aveva, all'indomani della caduta di Stalingrado, incaricato uno dei suoi sottosegretarî di Stato, Peter Kleist, di entrare in contatto con l'Est, dove era colui che aveva le più numerose e più diverse relazioni. Grazie a Peter Kleist si sa anche che, fino all'ottobre 194355, se soltanto il suo capo avesse ottenuto il consenso di Hitler, ci sarebbero state possibilità di pace separata dell'Asse con l'Est56. Che Hitler non fosse entusiasta di un'operazione del genere si comprende facilmente: il movimento nazional-socialista era nato, nell'opinione comune, dalla sua opposizione al bolscevismo, e soltanto lo spirito estremamente realista dei Tedeschi gli aveva permesso di far loro accettare senza difficoltà il patto germano-sovietico del 23 agosto 1939.

Hitler poteva permettersi di rinnovare l'operazione del 23 agosto 1939? Non lo ha creduto, e tutto quello che, fin qui, si sa di lui  stabilisce la sua convinzione che, data la situazione militare creatasi con la caduta di Stalingrado, una tale operazione significasse il trionfo assicurato del bolscevismo in Europa.  Prima di Stalingrado e fino a Stalingrado, non aveva dubbî: era sicuro di annientare la Russia e, per ciò stesso, di condurre gli Occidentali a una composizione. Il suo errore dopo Stalingrado fu di credere – come disse il generale de Gaulle dalla Francia, il 18 giugno 1940  – di avere perduto soltanto una battaglia, di poter giungere a risistemare la situazione e costringere gli Occidentali a rivedere la loro pretesa di capitolazione incondizionata. Di qui le offensive diplomatiche, che, senza sperare che potessero avere risultati fin tanto che non avesse ristabilito la situazione in suo favore sul fronte orientale, lasciò a von Ribbentrop ampio spazio di tentare verso Ovest: e la piattaforma girevole di queste manovre non poteva essere che il Vaticano. Esse avevano almeno il vantaggio di preparare il terreno per il giorno in cui la vittoria delle sue armi sul fronte orientale avesse costretto gli Occidentali a trattare.

Ma quale sarebbe stato il ruolo del Vaticano in tutto questo?

In materia di pace, non si può citare nessun testo di Pio XII che lo mostri disposto a proporsi quale mediatore di una pace che non fosse generale, il che esclude, da parte sua, ogni intenzione di intervenire in favore di una pace portata in Occidente per permettere a uno dei belligeranti di continuare la guerra a Oriente, oppure di un rovesciamento puro e semplice delle alleanze, e a maggior ragione di una pace separata dell'Italia con le potenze dell'Occidente, che, nella congiuntura militare dell'anno 1943, non potendo cambiare niente in uno stato di fatto, non avrebbe potuto far progredire in nulla la causa della pace e non sarebbe potuta essere che gratuita. I telegrammi citati da Saul Friedländer non attestano altro che pensieri o intenzioni gratuitamente attribuiti a Pio XII, e Saul Friedländer, ogni volta in cui ne cita uno, si guarda bene dal porlo in parallelismo con gli autentici pensieri e intenti di Pio XII, quali il Papa stesso ha espresso e reiterato mille volte, spesso, per altro, alla stessa data, o a una data molto vicina, a quella del telegramma che dice il contrario.

Dunque, l'unica domanda che ci si può porre è la seguente: a chi credere? Al Papa o a un personaggio così preoccupato della propria carriera come Bergen57, così ambiguo come Weizsäcker58, così oscuro – e anche ottuso59 – come uno Schleier? Sfortunatamente, se è senz'altro la sola domanda che si pone, è anche, come si dice comunemente, una domanda «che non si pone nemmeno».

Per il resto, Saul Friedländer si rende ben conto da sé della debolezza, se non della ridicolaggine, della sua argomentazione, poiché, ogni volta in cui cita un documento che presenta come «significativo» dei sentimenti filonazisti di Pio XII per timore del bolscevismo, o sollecito della pace con gli occidentali per permettere a Hitler di annientarlo, e del fatto che sarebbe stato per non indebolire Hitler in questa lotta che egli non condannò i cosiddetti crimini «di guerra» del nazismo, soltanto questi ultimi ed esclusivamente quelli di cui gli Ebrei furono vittime, ebbene, ogni volta egli autentica storicamente la notizia riportata tramite formule che il lettore conosce già60, come ad esempio: «è possibile che..., è plausibile... sembra che... è solo un'ipotesi, ma...», che sono, per eccellenza, quelle dell'insinuazione. Friedländer arriva perfino a dire: «segnaliamo che non abbiamo nessun documento del 1940 che indichi una simile intenzione, e che si tratta, da parte nostra, di una semplice ipotesi»61: questa è la formula della calunnia pura e semplice, tanto più in quanto, relativamente alla stessa intenzione, l'autore non presenta nessun documento nemmeno posteriore al 1940.

È questo che il suo "manager", Alfred Grosser, chiama «un'interpretazione dei testi prudente e ferma, talora ingegnosa [sic] al punto di delucidare, per mezzo del ragionamento, una formula oscura o fin qui male interpretata»62. Questo permette di concludere: «I documenti presentati da Saul Friedländer rendono pressoché certo [di nuovo sic] che in Vaticano si giocò con l'idea di un rovesciamento delle alleanze o, almeno, di una pace separata con l'Occidente»63.

Ebbene no! Non si condanna qualcuno in base a fatti che sono soltanto «possibili» o «plausibili», che si limitano a «sembrare» veri, che sono soltanto una semplice ipotesi da parte nostra o sono solo «quasi» certi. Nell' àmbito del diritto, in ogni caso, non c'è tribunale – se non eccezionale, certo, e noi, ahimé, non siamo ancora usciti dal periodo dei tribunali d’eccezione– che condannerebbe chicchessia in base ad accuse presentate sotto questa forma, anche nel caso in cui la difesa non avesse nulla di preciso da opporvi, e, nella fattispecie, ce ne sarebbero tanti meno in quanto non si può dire che si tratti di «probabilità», dato che, come il lettore ha appena potuto constatare, si può opporvi una moltitudine di testi e di fatti, autentici questa volta, e indiscutibili, che provano che Pio XII, dopo avere vanamente tentato tutto quello che era in suo potere per impedire la guerra, non solo non ha mai né sperato né cercato di promuovere una pace separata, sia della sola Italia sia dell'Asse con le potenze occidentali, ma al contrario, sempre e sistematicamente, una pace generale, giusta, onorevole e durevole, che implicasse, senza alcuna eccezione, tutti i belligeranti.

Ed è questa speranza o questo principio che gli ha dettato tutto quello che ha detto e tutto quello  che ha fatto durante l'intera guerra, e non i sentimenti volgari e meschini che gli sono stati attribuiti per mezzo di disonesti artifici stilistici innestati non su fatti appurati, ma unicamente su quello che Roger Peyrefitte chiama «pettegolezzi d'ambasciata»64.

Poiché è vero che il Papa ha detto e ha fatto. Ha fatto poco, è vero: perché le circostanze non gli permisero mai di fare di più. Ma ha detto molto, ha parlato moltissimo: e sempre nel senso della pace. Se ha taciuto, ha taciuto nel senso della guerra, soltanto in questo senso. E qui, ostinatamente. Assume allora tutto il suo significato, e il solo che possa avere, l'espressione «i silenzî di Pio XII», che, per mesi e mesi, tutti i giornali del mondo o quasi hanno presentato ai loro lettori in modo compiacente, tanto spesso in prima pagina e a grandi titoli: un'accusa che sapevano gratuita e che potevano far trionfare solo grazie alla campagna pubblicitaria di cui erano assicurati già in partenza, diretta contro un uomo di pace da altri uomini il cui segno particolare è che, germanofili, sovietofili e bellicisti convinti, dopo aver voluto deliberatamente la guerra, l' hanno voluta con accanimento, fino alla fine, assolutamente contro tutte le possibilità di pace molto accettabili che si sono offerte loro nel corso della guerra. Eppure, per di più, non sembrano troppo afflitti, a cose fatte, per i circa cinquanta milioni di morti e i miliardi i miliardi di rovine che hanno sulla coscienza. Pronti a ricominciare, insomma. È giusto riconoscere che Rolf Hochhuth a Saul Friedländer sono troppo giovani perché questa accusa li riguardi personalmente: appartengono al gruppo e si battono per gli interessi del gruppo. Quanto a quello che si debba pensare dei loro sostenitori e dei loro ammiratori, rinvio il lettore al capitolo precedente.

Per completezza, ora non resta che dimostrare il meccanismo politico dell'«operazione Vicario».


NOTE AL CAPITOLO II

Note al cap. II. 1

1. Proclamato re d'Italia il 14 marzo 1861 da un parlamento che comprendeva deputati  di tutt'Italia salvo che del Veneto (ancora austriaco) e degli Stati pontifici, Vittorio Emanuele non lo fu effettivamente che quel giorno, in quanto il Veneto rientrò nel suo regno per mezzo di un plebiscito il 22 ottobre 1866.

2. A Firenze: a Roma si riunirà per la prima volta soltanto il 27 novembre 1866.

3. Édouard Petit, L'Italie, luglio 1929.

4. Il dogma dell'infallibilità pontificia fu proclamato il 18 luglio 1870 da un Concilio che durava dal 28 gennaio 1868 e che era stato sospeso in séguito alla caduta di Roma, il 9 ottobre 1870. Esso suscitò molti dissensi, dapprima in seno alla Chiesa: dei 601 Padri conciliari che erano entrati in Concilio il 28 gennaio 1868, 66 avevano abbandonato la votazione alla vigilia per ostilità alla tesi, ma, dei 535 che rimasero, soltanto due votarono contro. Dopo, nel mondo accadde che l'Austria, scontenta, denunciò il Concordato del 1855; in Germania esso fu all'origine del Kulturkampf; in Svizzera nacque una Chiesa cristiana che si separò da Roma. Questo Concilio, che si tenne sotto il titolo di Vaticano I, era il primo dopo quello di Trento (1545-1563). Il Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII nel 1962, riprese la discussione al punto in cui l'aveva lasciata il Vaticano I, pur estendendola anche ad altri temi.

5. La "prigionia" dei Papi entro il Vaticano ebbe fine soltanto nel 1929 grazie alla firma di un Concordato tra Pio XI e l'Italia mussoliniana.

6. Pierre Dominique, «Histoire des Papes», Le Crapouillot, aprile 1964. Tesi riportata nella sua sostanza.

7. Le Vicaire et l 'histoire, p. 120, con evidenziazioni nostre.

8. Albin de Cigala, Pie X, edizioni Fleurus.

9. Merry del Val, Pie X, souvenirs et impressions [Pio X, ricordi e impressioni], edizioni Fleurus.

10. Idem.

11. Le Vicaire et l'histoire p. 123.

12. Si veda nell'appendice IV un altro mezzo con cui, attraverso il suo Segretario di Stato Merry del Val, si è cercato di screditare la politica di pace di Pio X.

14. Sottolineato nel testo.

* Nota dell'AAARGH: Rassinier commette qui un errore storico grave: la protezione dei deboli, degli inermi, è inerente alla funzione ecclesiastica. Si prenda ad esempio anche solo il fatto che il movimento detto della Pace di Dio si è sviluppato, a partire dall'XI secolo, in tutta la Cristianità. Grazie all'iniziativa del clero (vescovi, abati o Papi), furono progressivamente apportate alcune limitazioni (tregue periodiche, sopratutto tregue di Natale, proibizione di fare guerra all'interno di certi territori etc.) alla guerra condotta incessantemente dai signori di ogni grado che cercavano di impossessarsi dei dominî vicini ai loro  e, così facendo, devastavano le campagne e distruggevano i raccolti e le modeste abitazioni dei contadini. L'unica protezione di questi inermes (termine che in quest'epoca si trova impiegato per designare al contempo i poveri e il clero, «senz'armi») era l'autorità morale e spirituale molto grande di cui godeva il clero, amministratore del sacro, e che si esercitava sia sui re che sui piccoli signori. Questo movimento, sorto al contempo in più regioni d'Europa (ad esempio nel Sud della Francia nel 1032, a Kiev negli anni 1070), si estese progressivamente.  Controparte della Crociata, il cui scopo confessato era quello di stornare verso i Luoghi Santi la furia guerriera e distruttrice dei cavalieri, pervenne a poco a poco a fare scomparire la guerra privata e, a partire dal XIV secolo, le guerre intestine si combatterono soltanto tra «alti e potenti signori». L'idea che la fine del cosiddetto Ancien Régime segni un «progresso» appartiene alla propaganda della Rivoluzione francese e dei regimi che ad essa si richiamano.

15. Acta Apostolicae Sedis, Bonne Presse, t. 5, pp. 15-17.

16. Acta Apostolicae Sedis, Bonne Presse, t. 1,  p. 182.

17. Cfr. qui supra.

18. Le Vicaire et l'histoire, p. 126.

19. Le Crapouillot, op. cit., p. 62.

20. Le Crapouillot, op. cit., p. 63.

21. Contro Briand si usarono argomenti dello stesso tipo di quelli addotti contro Pio X, Benedetto XV e Pio XII: non era perché egli ricercasse una soluzione di pace giusta e durevole che egli sognava gli Stati Uniti d'Europa, ma perché era soltanto un avventuriero ambizioso  che brigava per ottenerne la presidenza in caso di riuscita.  E, per provarlo, si aggiunse che egli voleva ottenere dalla Santa Sede  la promulgazione della condanna dell'Action Française pronunciata sotto Pio X ma non resa pubblica in ragione della guerra – dell'Action Française, sebbene morente, presentata come l'unica forza, entro il panorama politico francese, suscettibile di impedire il cammino verso questa méta.

22. Léon Blum, À l'Échelle humaine, Paris, Gallimard,  p. 181.

23. Era nato il 2 marzo 1876 in via di Monte Giordano 34 (oggi via degli Orsini).

24. Cfr. qui supra, p. 113.

25. In particolare il suo messaggio di Natale 1948, dove si rileva ad esempio: «... un popolo minacciato o già vittima di un'ingiusta aggressione, se vuole pensare e agire cristianamente, non può rimanere in una passiva indifferenza».

26. Sottolineato nel testo, come tutto quello che è sottolineato nel prosieguo di questo testo.

27. Mons. Solages, rettore dell'Istituto cattolico di Tolosa: Théologie de la guerre juste, p. 53 (citato da Paul Duclos, op. cit., p. 103).

28. Citato da Die schönere Zukunft, München, 21 febbraio 1932.

* Nota dell'AAARGH: Rassinier commette qui un errore storico senz'altro scusabile presso una persona la cui cultura storica proviene, molto probabilmente, dalla cultura politica, e che ha già avuto il merito molto raro di comprendere che l'anticlericalismo era una lotta del XVIII secolo e non aveva più alcun senso dopo che gli anticlericali avevano preso il potere e dato prova del loro sconsiderato fanatismo. Per capire che il ruolo della Chiesa cattolica è radicalmente mutato in due secoli non c'è bisogno di essere cattolico, né, addirittura, di avere la fede: bastano e avanzano l'onestà intellettuale e una riflessione libera.  Rassinier ne è la prova incarnata. Per ritornare al suo errore storico, il bisogno di comprendere la fede è altrettanto antico nella Chiesa quanto la fissazione dei testi canonici, poiché i Padri della Chiesa erano innanzitutto filosofi formati alla scuola greca.  Se un Agostino, dopo Tertulliano, ha potuto rivendicare autorevolmente l'assurdità della fede contro il logos, era prima di tutto per sfida. Tutta la tradizione cattolica successiva tende a pensare sulla fede – e Anselmo di Canterbury (1033-1109) scrisse verso il 1075 un trattato intitolato Fides quaerens intellectum [La fede che cerca l'intelletto, cioè la comprensione intellettuale], e questo prima dell'apogeo razionalistico del tomismo nel XIII secolo.

29. Acta Apostolicae Sedis, XXXI, 1939, p. 127, e  Documentation catholique, t. XI, col. 419..

30. Acta Apostolicae Sedis, XXXI, 1939, p. 145.

31. Idem, p. 54.

32. Georges Bonnet, Le Quai d'Orsay sous trois Républiques, p. 259.

33. Era normale, poiché, relativamente agli Accordi di Monaco, erano gli Slovacchi, e non i Cèchi, ad essere nel giusto.

34. Dunque, si trattava di un abuso di potere da parte dei Cèchi.

35. Presidente del governo slovacco.

36. Data la sua posizione geografica, a chi altri avrebbe potuto chiedere protezione  contro l'ingiustizia di cui era vittima? E, d'altra parte, gli Inglesi e i Francesi, che si trovavano nell'impossibilità di far rispettare gli Accordi di Monaco su questo punto, per di più non sarebbero nemmeno stati decisi a farlo, dato che avevano preso le parti dei Cèchi, e quindi dell'ingiustizia.

37. André-François Poncet, De Versailles à Potsdam, Flammarion, p. 247.

38. Non era la prima volta che essi si rendevano colpevoli di simili violazioni rispetto agli Slovacchi. Il 30 maggio 1938, a Pittsburgh, negli Stati Uniti, i Cèchi e gli Slovacchi, che avevano preso le parti degli Alleati nel primo conflitto mondiale, avevano accettato, mediante i loro rispettivi rappresentanti, una convenzione che stipulava la creazione di uno Stato cecoslovacco di tipo federale all'interno del quale ciascuna delle due comunità etniche avrebbe costituito uno Stato indipendente. In effetti, Versailles aveva sanzionato uno Stato cecoslovacco entro il quale gli Slovacchi erano asserviti ai Cèchi, come oggi i Tedeschi dell'Est, gli Ungheresi etc. sono asserviti all'Unione Sovietica.

39. André-François Poncet, op. cit., p. 249.

40. William Shirer, Le IIIe Reich, t. I, p. 497.

41. Georges Bonnet, op. cit., p. 261.

42. Georges Bonnet, op. cit., p. 262.

43. Citato da William Shirer, op. cit., p. 231.

44. Saul Friedländer, Pio XII e il Terzo Reich, p. 32.

45. Il 3 ottobre 1938, all'indomani di Monaco, i Russi, contrariati per esserne stati esclusi dagli Occidentali, erano entrati in rapporti economici con Berlino attraverso la loro missione commerciale in Germania. Queste trattative stavano andando per le lunghe. A partire dal 31 marzo, da quando ebbero la convinzione che la svolta polacca fosse irreversibile, videro tutto il vantaggio che avrebbero potuto trarne, e lo videro ancor meglio grazie al discorso di Hitler del 28 aprile, che, contrariamente alla sua abitudine, non li attaccava. Il 20 marzo 1939, mentre Chamberlain prendeva sul serio le agenzie stampa che annunciavano un ultimatum tedesco alla Romania, e gli offriva la garanzia inglese che egli estendeva alla Polonia, Stalin aveva pubblicato un comunicato ufficiale per mezzo del quale, senza che glielo si domandasse, egli negava che «Mosca avesse dato la sua garanzia alla Romania e alla Polonia, nel caso in cui esse fossero vittima di una pressione». All'indomani del discorso di Hitler al Reichstag, i Russi fecero un secondo passo in direzione di un accordo economico con la Germania: i negoziati tramite la loro missione commerciale assunsero un aspetto più comprensivo da parte di  entrambi e, da una parola all'altra...

46. Monsignor Giovanetti, tuttavia, anche se, tra  i documenti finora pubblicati, nessuno conferma l'informazione da lui fornita (Le Vaticain et la Paix, p. 51), pretende che il presidente Roosevelt avesse incaricato il Segretario di Stato Sumner Welles di informare il Papa, e che questi avesse declinato, come inopportuna, la proposta di un intervento da parte sua presso Hitler. È l'unico a sostenerlo. Lo stesso Saul Friedländer non osa riprendere l'affermazione personalmente. D'altronde, non avrebbe importanza: le cose sarebbero andate in modo tale che bisognerebbe felicitarsi con Pio XII di avere declinato questa offerta, in quanto Mons. Giovanetti riconosce quello che Saul Friedländer si guarda bene dal citare, ossia che, indirizzandosi «soltanto a due delle parti in contesa», l'iniziativa del presidente Roosevelt sembrava voler «mettere a priori sul banco degli imputati» Hitler e Mussolini.

47. Saul Friedländer, op. cit., p. 34.

48. Mons. Giovanetti, op. cit., p. 56.

49. Idem. p. 58 ss.

50. Redatto da un certo Hewel e datato al 10 maggio 1939, Documents on German Foreign Policy, vol. I, p. 435. Citato con questo riferimento da Saul Friedländer, op. cit., p. 34.51. Sulla risposta di Hitler, i pareri sono divisi. François-Charles Roux dice che «non ci sarebbe potuta essere risposta più rassicurante», ma la qualifica come «capolavoro di ipocrisia» (Huit ans au Vatican, p. 318). Nel diario di Ciano, in data 8 maggio, si trova un resoconto del colloqui da lui tenuto a Roma con von Ribbentrop il 6 e 7 maggio, nel quale si discusse del progetto del Papa. In questo resoconto si legge: «Il Führer  ritiene che l'idea di una conferenza non sia accettabile [...] propone di far sapere al Vaticano che si è riconoscenti verso il Papa per la sua iniziativa, ma che non si ritiene possibile accettarla...». Il meglio è, dunque, attenersi ai documenti ufficiali  delle due parti, che, nella fattispecie,  concordano: in data 6 maggio, Mussolini  accettò il principio della proposta del Papa, e Hitler, che non formulò nessuna obiezione contro di essa, disse che, prima di rispondere ufficialmente, avrebbe dovuto consultare Mussolini.

53. In base al resoconto di Mons. Valerio Valeri, citato da Mons. Giovanetti, e Mons. Giovanetti stesso, op. cit., p. 62.

53. Cfr. supra questo messaggio e il séguito.

54. Lettera citata da Mons. Giovanetti, op. cit., p. 65.

56. Citato da Mons. Giovanetti, p. 61.

57. Si troverà questo discorso negli Acta Apostolicae Sedis, Bonne Presse, vol. I, p. 128. Qui non viene riprodotto: basta che il lettore ne conosca le intenzioni e il senso.

58. Telegramma dell'ambasciatore inglese del Vaticano, Osborne, a Lord Halifax, in data 30 agosto, che compare nei Documenti inglesi, 3^ serie, vol. VII, p. 403, citato sotto questa forma da Saul Friedländer, op. cit., p. 41. E Journal del conte polacco Szembeck, Plon, Paris, p. 499.

59. Saul Friedländer, op. cit., p. 37.

60. Un'ora grave (Acta Apostolicae Sedis, XXXI, p. 333, e Documentation catholique, XL, col. 1128).

61. Osservatore Romano, 2 agosto.

62. Documentation catholique, 1943, col. 163, che precisa che questa nota è stata rimessa il 31 agosto alle ore 13.

63. Citato da Paul Duclos, op. cit., p. 110, in base alla Civiltà Cattolica, di Roma, il 15 giugno 1945.

64. Saul Friedländer, op. cit., p. 43.


Note al cap. II. 2

1. Acta Apostolicae Sedis, XXXI, p. 367, e Documentation catholique, XL, col. 1130. La seconda parte del paragrafo è sottolineata da noi.

2. Saul Friedländer, op. cit., p. 47.

3. Acta Apostolicae Sedis, XXXII, p. 509.

4. Idem, XXXII, p. 43 ss., e Wartime Correspondence, 7 gennaio 1940.

5. Idem, XXXIII, p. 5 ss.

6. Idem, XXXIII, pp. 110-112.

7. Idem, XXXIII, pp. 356-358.

8. Idem, XXXIV, p. 10 ss.

9. Idem, XXXIV, p. 154 ss.

10. Idem, XXXV, p. 9 ss.

11. Idem, XXXV, p. 165 ss.

12. Idem, XXXV, p. 17 ss.

13. Idem, XXXV, pp. 277-279.

14. Idem, XXXVI, p. 249 ss.

16. Idem, XXXVII, p. 10 ss.

17. Anne Armstrong, Capitulation sans condition, Presses de la Cité, pp. 280-284.

18. Paul Duclos, op. cit.,  p. 111.

19. Actes de Pie XII, Bonne Presse, vol. I, p. 297.

20. Idem, p. 311.

21. Documentation Catholique, 1945, col. 523.

22. Ibidem.

23. Dino Alfieri, Deux dictateurs face à face, Genève, Cheval Ailé 1948, pp. 30-31.

24. Dichiarazione solenne al Corpo diplomatico il 15 giugno 1946 (Documentation Catholique, 1946, col. 205).

25. Saul Friedländer, op. cit., p. 165.

26. Cfr. qui supra.

27. Si troverà il contenuto integrale negli Actes de Pie XII, Bonne Presse, vol. III.

28. Citato da Saul Friedländer, p. 89.

29. Idem, p. 90.

30. Telegramma di von Bergen a Berlino, 21 marzo 1942, citato da Saul Friedländer, p. 91.

31 Cfr. qui supra.

32. Paul Duclos, Le Vatican et la Seconde Guerre Mondiale, p. 121.

33 M. Mourin, Les tentatives de paix dans la Seconde Guerre Mondiale [I tentativi di pace nella Seconda Guerra Mondiale], p. 21.

34. T. I, p. 32.

35. François-Charles Roux, Huit ans au Vatican [Otto anni in Vaticano], p. 355.

36. Cfr. supra, p. 78.

37. Si consultino i giornali dal 13 al 18 marzo 1940.

38.  Actes de Pie XII, Bonne Presse, vol. XXXII, p. 298, citato da Saul Friedländer, p. 69.

30. Citato da Saul Friedländer, p. 69.

40. Memorandum di Weizsäcker, 26 luglio 1940, citato da Saul Friedländer.

41. Paul Duclos, op. cit., p. 124.

42. Walter Schellenberg, Le Chef du contre-espionnage allemand parle, Plon.

43. Secondo Paul Duclos, op. cit., p. 221.

44. F.W. Deakin, L'Axe  brisé [L’Asse spezzato], Stock, p. 411sg.

45. Telegramma di Weizsäcker a Berlino del 3 agosto 1943, citato da Saul Friedländer, p. 75.

46. Telegramma di Schleier (dell'ambasciata tedesca di Parigi), 18 agosto 1943, citato da Saul Friedländer, p. 177.

* Nota dell'AAARGH: in fatto di liberazione, si tratta dell'invasione del territorio italiano da parte di un'armata straniera anglo-americana...

47. Ibidem.

48. Telegramma di Schleier a Berlino, 31 luglio 1943, citato da Saul Friedländer, p. 175.

49. Questa informazione è presentata nel telegramma come proveniente da «von Krug», il quale l'aveva avuta dal presidente Laval – dice –, il quale a sua volta l'aveva ricevuta da uno dei suoi collaboratori, che l'aveva avuta dal Nunzio a Vichy, Mons. Valerio Valeri, ed è ritrasmessa da un quinto personaggio  sotto firma di Schleier: il salumiere ha detto alla macellaia che ha detto al farmacista... Ciò che segue, poi, è presentato nella forma: «Il ministro von Krug offerse quindi...», vale a dire senza citare la fonte. Infine, Saul Friedländer riproduce questo telegramma con la più grande serietà, come se non si fosse reso conto  che le due informazioni non concordavano: poiché, infine, «è una forte tendenza che regna in Vaticano»? Oppure è il Papa stesso che «si sforza in tutti i modi»? É chiaro che, se si tratta del Papa, non è più soltanto «una forte tendenza»… ma la tendenza che prevale. Ora, la prima frase dice chiaramente che essa non prevalse. Di qui l'incompatibilità tra le due. Se qualcuno «si sforza in tutti i modi» di fare qualcosa, è, nella fattispecie l'autore di questo telegramma, di convincere il suo destinatario che Pio XII è favorevole a un rovesciamento delle alleanze. E lo conclude a partire da un'informazione di quinta mano che, per di più, è molto lontana dall'appoggiarlo, per mezzo di una serie di informazioni tanto più imperturbabilmente presentate come certe in quanto presentano soltanto riferimenti formulati al condizionale («il Nunzio avrebbe risposto..:»)  o non ne presentano affatto. Ultima osservazione: questo Schleier dev' essere una persona particolarmente qualificata per redigere i telegrammi dell'ambasciata tedesca di Parigi: non sa nemmeno il nome esatto dell'informatore che egli cita, il quale non è «Krug»… ma «Krug von Nidda»!

50. Citato secondo Nazi Conspiracy, an Aggression, edizione americana, volume complementare B,  pp. 1203-1204.

51. Zwischen Hitler und Staline (edizione francese sotto il titolo Entre Hitler et Staline [Tra Hitler e Stalin], Plon).

52. Journal de Ciano [Diario di Ciano], p. 352, in data 6 dicembre 1942. Si noterà che Goering è d'accordo con Ribbentrop citato qui sopra e non con Hitler.

53. Rachele Mussolini, Ma Vie avec le Duce [La mia vita con il Duce], Cheval Ailé 1948.

54. Uomini, Cose, Fatti (non tradotto in francese).

55. Data della Conferenza interalleata di Mosca.

56. Peter Kleist, Entre Hitler et Staline, op. cit.

57. Cfr. qui supra.

58. Cfr. qui supra.

59. Cfr. qui supra.

60. Cfr. qui supra.

61. Saul Friedländer, op. cit., p. 68.

62. Idem, p. 221, postfazione di Alfred Grosser.

63. Ibidem.

64. Roger Peyrefitte, Les Ambassades et La Fin des Ambassades, Flammarion.



[1] Nota del curatore: l’exequatur e il placet regium sono, a detta della Catholic Encyclopedia (http://www.newadvent.org/cathen/05707a.htm ) termini sinonimi e indicano la facoltà, che il potere civile si arroga,  di concedere l’esecutività a taluni atti della Santa Sede e specialmente a quelli riguardanti le provvisioni dei benefici maggiori. In realtà quanto riportato da Rassinier riguardo alla Legge sulle guarentigie non sembra essere del tutto esatto: secondo la Catholic Encyclopedia infatti l’exequatur venne conservato, sia pure in forma mitigata, anche nel 1871 e sopravvisse fino al Concordato del 1929.   

[2] Nota del curatore: Charles Guignebert (1867-1939), storico razionalista, professore di storia del cristianesimo alla Sorbona, autore di una vita di Gesù , pubblicata a suo tempo (1950) anche da Einaudi, che riprende alcune delle peggiori dicerie ebraiche contro il Cristo.

[3] Nota del curatore: Prosper Alfaric (1876- 1955), ex sacerdote, ex professore di filosofia nei grandi seminari di Bayeux e di Bordeaux, professore di storia delle religioni all’Università di Strasburgo.

[4] Nota del curatore: allusione all’appartenenza massonica di André Lorulot (1885-1963), presidente della Federazione dei Liberi Pensatori, autore di pamphlets e almanacchi anticlericali.