I. Il Trattato di Versailles responsabile
Il Vicario non è nulla più di un'operazione politica. Per convincersene, basta porre le asserzioni di Rolf Hochhuth, dei suoi sostenitori e dei suoi ammiratori nel loro contesto storico, il che implica un breve ritorno all’indietro, almeno fino all'accesso di Hitler al potere in Germania e al ruolo che vi ha giocato il fattore religioso.
La Germania era stata mortificata dalle ferree clausole economiche e finanziarie del Trattato di Versailles, che, dopo avere smantellato la sua economia rendendole impossibile produrre qualsiasi cosa che potesse essere scambiata, la privava in più dei suoi clienti esterni (colonie, Europa danubiana) per il giorno in cui essa si fosse riassestata, e sottoponeva a condizioni draconiane tutti i trattati commerciali che essa fosse riuscita a stipulare con tutte le altre nazioni. La Germania, dunque, amputata di 102.000 chilometri quadrati, fece nel 1922 un primo fallimento che la crisi mondiale del 1929, con il crollo di Wall Street – a cui la Germania, precisamente a causa del Trattato di Versailles, doveva essere più sensibile di qualsiasi altra nazione – rischiava di rendere definitivo.
Questo anno 1932 fu per la Germania un anno terribile: il 31 luglio, la statistica ufficiale denunciava la presenza di 5.392.248 disoccupati in questo Paese, ossia il 12-15 % della sua popolazione attiva, mentre – come ci ricorda all'inizio di ogni inverno l'esempio attuale degli Stati Uniti – il 5 % è il massimo sopportabile entro le strutture tradizionali dell'economia mondiale. All'inizio dell'inverno 1932-1933 i disoccupati erano già più di 6 milioni e non si vedeva la fine di questa progressione. Non è necessario, credo, porre in evidenza quale instabilità politica fosse la conseguenza di questa instabilità economica; dalla fine della primavera del 1932 non esisteva più una maggioranza parlamentare e le due elezioni legislative alle quali, dopo avere sciolto per due volte il Parlamento, a tre mesi di distanza tra loro, si procedette nella speranza di trovare tale maggioranza, non soltanto si rivelarono inutili, ma anzi non fecero che aggravare la situazione politica.
Oggi si sostiene comunemente – e gli esponenti di spicco tra quanti lo sostengono sono i socialisti e i comunisti che rinnegano i loro antenati del 1919 – che la Germania avrebbe potuto benissimo e molto facilmente adattarsi alle clausole economiche e finanziarie del Trattato di Versailles, ma che ostinatamente non lo volle e che creò deliberatamente la suddetta situazione, unicamente per dimostrare che non avrebbe potuto rispettare tali clausole. L'autore di questo studio ha dimostrato e ridimostrato, troppo spesso per dovervi ritornare ora, che, qualsiasi possano essere la rinomanza e l'autorevolezza dei sostenitori di questa tesi, si trattava soltanto di una stupidaggine. Si limiterà dunque a rinviare i socialisti e i comunisti di oggigiorno ai loro antenati del 1919, il cui ragionamento, su questo punto, era impeccabile e tale è rimasto.
Resta sempre che, in un'atmosfera di problemi sociali che era giunta al parossismo e di cui il Partito nazional-socialista deteneva la chiave, il cancelliere del Reich, Schleicher, che era succeduto a von Papen, il quale era succeduto a Brunning – tutto questo in otto mesi e due elezioni legislative! –, e che a sua volta si trovava senza maggioranza di governo al Reichstag, aveva dato le dimissioni il 28 gennaio 1933, e il vecchio maresciallo Hindenburg, che presiedeva ai destini dello Stato, due giorni dopo, il 30 gennaio, gli diede come successore Hitler.
Non che lo avesse fatto particolarmente volentieri: fino ad allora non aveva mai parlato di Hitler che con disprezzo; «quel caporale di Boemia», diceva. Ma le circostanze imponevano delle scelte. Quando si dice che non c'era più maggioranza di governo, si tratta, beninteso, di maggioranza di centro, con esclusione dei nazional-socialisti e dei comunisti: rispetto al centro, l'unione dei due estremi era numericamente più consistente in tutti gli scrutinî. Ma, aritmeticamente, altre due lo erano, ciascuna costruita su un'ala dello schieramento politico: l'una di sinistra, che avrebbe inglobato comunisti, socialdemocratici e centro cattolico, a cui si sarebbero associati i rari sopravvissuti del Partito democratico; l'altra di destra, che avrebbe costituito un corridoio dal Centro cattolico ai nazional-socialisti. I comunisti che votavano sistematicamente contro tutti i governi senza fare la minima distinzione tra di essi – modo di procedere che, tra parentesi, a partire dal 1919 aveva progressivamente spinto tutte le maggioranze parlamentari verso la destra – rendevano impossibile la prima, ed è questa la ragione che fece decidere al Centro cattolico di ricercare un accordo con Hitler, il giorno in cui si persuase che non c'era alcuna possibilità di ottenere il sostegno dei comunisti contro Hitler in Parlamento. L'artefice di questo accordo fu Mons. Kaas, capo del Centro cattolico. L'episcopato tedesco, nella sua totalità, vi fu ostile. Ma, all'indomani delle elezioni del 6 novembre 1932, alla vista dei risultati che non avevano cambiato nulla, o ben poco, nei rapporti di forze tra i gruppi parlamentari, Mons. Kaas pronunciò un discorso il cui tema era, in sostanza, che bisognava porre fine ai disordini sociali e che c'era un solo modo per raggiungere questo risultato: ed era che la Germania fosse governata, che andare ogni tre-quattro mesi davanti al corpo elettorale comportava soltanto il mantenimento dell'agitazione nel Paese, senza cambiare niente nella situazione parlamentare, e che, siccome non c'era nessuna possibilità di giungere a un compromesso con i comunisti, non restava che tentare di trovarne uno con Hitler. E si adoperò appunto in questo senso. Hitler, il cui pensiero era che, una volta divenuto Cancelliere del Reich, nulla avrebbe potuto impedirgli di ottenere costituzionalmente i pieni poteri, si mostrò disposto a tale compromesso, a condizione che gli fosse concesso il posto di Cancelliere.
Il governo che il nuovo Cancelliere costituì il 30 gennaio 1933 comprendeva, oltre a lui stesso, soltanto altri due nazional-socialisti: Frick, ministro dell'Interno, e Goering, ministro di Stato. Le altre poltrone, in numero di otto, erano attribuite a membri del Partito nazionale tedesco e di altri piccoli raggruppamenti politici di destra; von Papen era vice-cancelliere. E questa composizione apparve come la prova che le intenzioni di Hitler erano di governare costituzionalmente.
Il vero governo nazional-socialista fu costituito soltanto all'indomani delle elezioni che ebbero luogo il 5 marzo 1933, poiché, nella prima riunione del Consiglio che Hitler aveva costituito il 30 gennaio, egli ottenne la decisione di sciogliere nuovamente il Reichstag, il che fu il suo primo atto di governo.
Tali elezioni del 5 marzo 1933 assunsero un andamento particolare e meritano che ci si soffermi un istante su di esse. Innanzitutto, esse si svolsero sotto il controllo del Partito nazional-socialista al potere. E questo è un argomento di notevole peso. Poi, Mons. Kaas, leader del Centro cattolico, era rimasto nella convinzione che Hitler avrebbe governato nel rispetto della Costituzione: glielo aveva promesso personalmente, e, in un grande discorso elettorale che il prelato tenne a Colonia il 2 marzo, sotto la presidenza di colui che sarebbe divenuto il Cancelliere Adenauer, il quale all'epoca era ancora soltanto il sindaco di Colonia e approvava questo punto di vista, Mons. Kaas lo espose dettagliatamente, precisando che, per salvare la Germania, ormai c'era soltanto questa soluzione, visto che i comunisti... Infine, il vice-cancelliere von Papen faceva gruppo con Hitler davanti al corpo elettorale. Risultato: Hitler ottenne 17.265.800 voti, ossia il 43, 7 %, e 288 deputati; von Papen 52 deputati con l'8 % dei voti. Il nuovo Reichstag comprendeva 648 deputati: una maggioranza schiacciante. Quindi la strada era libera davanti a Hitler: i pieni poteri gli furono rapidamente accordati nelle forme costituzionali e il modo in cui egli li usò compattò il popolo tedesco, che, con maggioranze ogni volta vicine all'unanimità, lo votò a più riprese in plebisciti con entusiasmo. È stato detto che tutta l'arte di Hitler era consistita nel convincere il popolo tedesco che il Trattato di Versailles fosse la causa di tutti i suoi mali. Ma su questo punto, dall'estrema sinistra all'estrema destra, tutti i partiti tedeschi affermavano lo stesso. Allora, perché Hitler piuttosto che i social-democratici, il Centro cattolico o i comunisti? La risposta è semplice: Hitler fu molto abile nel fare ammettere al popolo tedesco che l'ostilità dei social-democratici e del Centro cattolico al Trattato di Versailles era più che altro di facciata, in quanto i primi lo avevano firmato, e, associati al potere da una buona dozzina d'anni, i due gruppi insieme non avevano fatto molti sforzi, a quanto pareva, per ottenerne la revisione conformemente all'articolo 19 del Patto della Società delle Nazioni che la prevedeva. Hitler aggiungeva che, se questa ostilità era solo di facciata, era perché questi due partiti erano venduti agli Ebrei, che egli identificava con il grande capitalismo internazionale e che, secondo la sua accusa, erano gli unici beneficiarî di quel Trattato. Quanto ai comunisti, non erano altro che gli agenti di un'iniziativa anch'essa ispirata dagli Ebrei – Marx non era forse un Ebreo? – e finalizzata soltanto ad assicurare loro un dominio ancora più totale sulla Germania, per mezzo di un'agitazione sociale il cui scopo non era altro che disorganizzare la sua vita economica e politica per farla cadere sotto i loro colpi. Una Germania vittima dei giudeo-marxisti la cui capitale era Mosca. Non fu che un gioco per Hitler fare del bolscevismo, rappresentato attraverso Stalin, un vero spauracchio – uno spauracchio dotato di grinfie nelle quali la Germania sarebbe irrimediabilmente caduta, se non fosse riuscita a eliminare tutte le ipoteche che il Trattato di Versailles faceva gravare su di essa.
Tutto questo, esposto al contempo in un tono fermo e deciso, con un linguaggio chiaro, adornato di formule atte a colpire e capace, come riconosce perfino un uomo quale William L. Shirer1, «di raggiungere spesso i vertici dell'eloquenza», ebbene, tutto questo convinse e, agli occhi del popolo tedesco, fece di Hitler l'unico uomo che fosse in grado di far uscire la Germania dalla situazione senza sbocchi in cui la manteneva il Trattato di Versailles. In ogni modo, durante dodici anni, gli altri non l’avevano spuntata, dopo tutto. E quanto al succo? È evidente che, come tutte le dottrine forgiate nel fuoco dell'azione – e il bolscevismo non sfugge a questa regola –, il nazional-socialismo era una dottrina disumana. Bisognerà, tuttavia, pur riconoscere un giorno – vi si sta giungendo, lentamente, ma vi si sta giungendo – che almeno su un punto esso aveva indiscutibilmente ragione: è ben vero, in effetti, che il Trattato di Versailles era la causa di tutti i mali di cui soffriva il popolo tedesco e che risparmiavano gli altri popoli. Questo punto, essendo il tema centrale di tutta la propaganda politica di Hitler, costituì tutta la sua forza. Così tanto e così bene che, dal 1924 (elezioni legislative del 7 dicembre) al 1932 (elezioni legislative del 6 novembre), il Partito nazionl-socialista passò dal 3 % al 33, 1 % dei suffragi. (Alle elezioni del 31 luglio 1932 aveva ottenuto perfino il 37, 3 %).
In materia di propaganda, ho già detto altrove come, a preferenza di tutti i partiti tedeschi che postulavano la revisione del Trattato di Versailles attraverso vie e mezzi più moderati, la finanza internazionale, e non soltanto tedesca, avesse scelto, in particolare a partire dal 1928, di sovvenzionare Hitler e di arrecare ai suoi argomenti economici e politici l'appoggio dei proprî argomenti sonanti e dotati di un buon peso sulla bilancia.
Non tornerò più su questa trama di fondo: l'argomento principale qui è il ruolo del fattore religioso nell'accesso di Hitler al potere.
II. I moventi dei protestanti
A mio parere, nulla può porre in evidenza il ruolo di questo fattore meglio di una panoramica sulle ultime quattro elezioni che suonarono la campana a morto della Repubblica di Weimar: quella del Presidente del Reich il 14 marzo e 10 aprile 1932, e le tre elezioni legislative che ebbero luogo dopo tre scioglimenti del Reichstag il 31 luglio e 6 novembre 1932 e il 5 marzo 1933.
Infine, reso prudente dall'esperienza, incomincerò a citare alcuni testi di un uomo che, come la maggior parte dei personaggi di spicco dell'antinazismo attuale, per non essersi mai battuto contro Hitler ed essersi accontentato di mettere in risalto lo scarto tra lui e noi, ha su di me il vantaggio di non essere sospetto: William L. Shirer, al quale ho già fatto ricorso a due o tre riprese. Come giornalista americano, William Shirer ha seguito, passo per passo, il nazional-socialismo dalle sue origini alla sua caduta. Inoltre, è protestante, ed è a questo titolo che la sua opinione è degna di interesse – solamente a questo titolo, poiché, sul piano della storia... In breve, ecco quello che ha detto, per averla osservata direttamente sul posto, dell'elezione presidenziale del 14 marzo e del 10 aprile 1932:
«Tutte le regole tradizionali delle classi e dei partiti si trovarono sovvertite nell'ardore della battaglia elettorale. Hindenburg, protestante, prussiano, conservatore e monarchico, ebbe l'appoggio dei socialisti, dei sindacati, dei cattolici del partito del Centro di Running, e dei resti dei partiti borghesi, liberali e democratici. Hitler, cattolico, austriaco, antico vagabondo, nazional-socialista, capo delle masse della piccola borghesia, beneficiò, oltre che dell'appoggio dei suoi partigiani, anche del sostegno dei grandi borghesi protestanti del Nord3, degli Junker conservatori proprietarî terrieri e di un gran numero di monarchici, ivi compresi, all'ultimo minuto, quelli dell'antico principe ereditario stesso»4.
O ancora:
«Ad eccezione dei cattolici, la media e l'alta borghesia, con ogni evidenza, avevano votato nazista»5. Si è letto bene: «ad eccezione dei cattolici...».
O ancora, ma questa volta a proposito delle elezioni al Reichstag:
«Durante queste elezioni al Reichstag [si trattava di tre], non si poteva impedirsi di notare che il clero protestante – Niemöller ne era un esempio eclatante – sosteneva molto apertamente i nazionalisti e perfino i nemici nazisti della Repubblica. Proprio come Niemöller, la maggioranza dei protestanti salutò con soddisfazione l'avvento di Adolf Hitler al Cancellierato nel 1933»6.
All'epoca, tutti i corrispondenti particolari di tutti i giornali del mondo diffusero la stessa informazione, in termini spesso molto più precisi, in tutte le capitali. Spesso richiamata in seguito – in una stampa che non ha un grande pubblico, è vero –, non è mai stata oggetto della benché minima smentita. Gli interessati e i loro sostenitori hanno fatto mostra di non capire: il mantello di Noè. [1] È dunque acquisito: il clero protestante tedesco era al fianco di Hitler durante le sue campagne elettorali.
E qual era l'atteggiamento del clero cattolico? Prima di ciascuna di queste quattro elezioni, la Conferenza episcopale cattolica si riunì a Fulda per una presa di posizione politica: ogni volta la conclusione fu una dichiarazione collettiva resa pubblica che condannava il nazional-socialismo, in termini virulenti, come un ritorno al paganesimo, i suoi membri come «rinnegati della Chiesa ai quali bisogna rifiutare i sacramenti», raccomandava di non votare per i suoi candidati e vietava «ai cattolici di essere membri delle sue organizzazioni della gioventù o altre». Nell'aprile 1932, al secondo turno dell'elezione presidenziale, i vescovi cattolici tedeschi raccomandarono perfino di votare per il protestante Hindenburg, mentre, come si è visto, il clero protestante faceva votare per Hitler!
Non si entrerà nel dettaglio dei documenti che attestano questa presa di posizione. Basterà citare un fatto che li riassume tutti, e che beneficiò di una vasta pubblicità nella stampa non cattolica. Esso stabilisce che, fino all'estremo limite, nelle ore cruciali del marzo 1933, anche dopo la vittoria del nazional-socialismo nelle elezioni legislative del 5 di questo mese, a proposito delle quali la Conferenza di Fulda del 22 febbraio aveva raccomandato di votare, come nelle precedenti, contro i suoi candidati, l'episcopato cattolico gli era sempre violentemente ostile.
La seduta di apertura del nuovo Reichstag eletto il 5 marzo aveva avuto luogo il 21 marzo a Potsdam, come di rito, e, sempre come di rito, era stata preceduta da due cerimonie religiose, l'una nella chiesa di San Nicola per i protestanti, l'altra nella Chiesa di San Pietro per i cattolici. Nella prima, la messa fu celebrata dall'arcivescovo protestante di Berlino, il Dr. Dibelius, il quale pronunciò un'omelia con cui accoglieva la vittoria di Hitler, orchestrandola su questo tema molto significativo delle sue disposizioni di spirito: «Se Dio è con noi, chi è contro di noi?». Nella seconda, il vescovo cattolico di Berlino, Mons. Christian Schreiber, che doveva celebrare la messa, si disse malato – malattia diplomatica, si commentò nella stampa nazional-socialista –, e, per evitare uno scandalo, affidò a uno dei suoi vicarî il compito di rimpiazzarlo.
Contrariamente alle usanze, che avrebbero richiesto che il Cancelliere del Reich assistesse alle due cerimonie e che esigevano tanto più la sua presenza alla seconda, egli, sebbene fosse cattolico, non vi assistette. L'indomani, 22 marzo, la Kölnische Volkszeitung, conferendo rilievo a questo fatto, motivava l'assenza di Hitler e del suo ministro della propaganda, Goebbels, con «una dichiarazione dei vescovi cattolici della Germania nella quale i capi e i membri della N.S.D.A.P. [il partito nazional-socialista tedesco] sono considerati come dei rinnegati della Chiesa, e secondo cui si devono rifiutare loro i sacramenti» (Dichiarazione della Conferenza di Fulda alla quale si fa allusione qui sopra).
«Durante la cerimonia – aggiungeva il ministro della propaganda – il Cancelliere e il ministro della propaganda, il Dr. Goebbels, toccati dalla dichiarazione, hanno visitato le tombe dei loro compagni uccisi e seppelliti nel cimitero municipale di Berlino».
Questo mostra che tale condanna del nazional-socialismo non era propria di un episcopato cattolico tedesco che agisse di sua spontanea iniziativa, senza considerazione dell'opinione del Vaticano (dove il Card. Pacelli, futuro Pio XII, era Segretario di Stato), bensì era la posizione tipica della Chiesa cattolica dovunque. Per la Francia, è noto. Per quanto riguarda l'Austria, vi fu letta in tutte le chiese una lettera pastorale di Mons. Giovanni Sföllner, vescovo di Linz, in data 23 gennaio 1933, lettera della quale tutti i giornali austriaci riprodussero ampî estratti, così come tutti i giornali cattolici tedeschi. In questa sede non sarà più riprodotta, ma ecco il cappello che ne forniva la presentazione nella rivista monacense Die schönere Zukunft il 7 febbraio 1933:
«Come si sa, i vescovi cattolici di Germania si sono già pronunciati a più riprese contro il nazional-socialismo. In questo momento, il Dr. Sföllner – il primo tra i vescovi austriaci – ha appena pubblicato una lettera pastorale nella quale condanna il nazional-socialismo come ostile alla Chiesa. E, dal momento che nell'Austria cattolica i nazional-socialisti si sono presentati come autentici cattolici, l'atteggiamento del vescovo di Linz rende un servizio di estrema importanza, smascherando il loro doppio gioco. Precisamente per questa ragione riproduciamo qui di seguito il testo della sua lettera pastorale».
In questa condanna del nazional-socialismo da parte dell'intera Chiesa cattolica non sono stati generalmente sollevati dubbî sui sentimenti di Pio XI, allora Papa, ma esclusivamente su quelli del suo Segretario di Stato, il Card. Pacelli, e solamente dopo la guerra. Ciò fu possibile soltanto perché il Card. Pacelli si preoccupava poco di farsi pubblicità da sé e di mettere in evidenza il proprio ruolo personale. In quanto uomo ben educato, sapeva che quello che doveva essere messo avanti era Pio XI, e che il Papa aveva la precedenza su di lui in tutto. Ma, fortunatamente, altri lo hanno fatto per lui. A proposito di un incidente che ebbe luogo nel 1935 tra lo Stato tedesco e l'episcopato (si trattava di una questione di trasferimento di denaro), alcuni emigrati tedeschi cattolici rifugiati in Svizzera, i quali pubblicarono a Lucerna Die deutschen Briefe, scrivevano nel numero del 26 agosto di questa pubblicazione:
«Il Papa, il Card. Pacelli e una parte dell'episcopato tedesco volevano che la Conferenza di Fulda (riunitasi dal 19 al 23 per prendere posizione su questa questione) rimettesse in vigore il divieto, per i cattolici, di essere membri della N.S.D.A.P. [il partito nazional-socialista tedesco] e delle organizzazioni della gioventù o altre del partito».
Sarebbe stata la rottura del Concordato, firmato l'anno precedente, fra il III Reich e la Santa Sede. Tale rottura fu evitata, non per una concessione del Papa, del Card. Pacelli o dell'episcopato, ma per una concessione del III Reich nel corso di un colloquio tra il Dr. Kerrl, ministro dei Culti, e il Card. Bertram, presidente della Conferenza, a Fulda, lo stesso 19 agosto. Il ministro promise di «mettere al passo gli estremisti anticristiani del partito»7, e Hitler confermò telegraficamente questa promessa. La Conferenza, non di meno, pubblicò una lettera collettiva dei vescovi che fu letta il primo settembre 1935 in tutte le chiese cattoliche di Germania e che, il 19 dello stesso mese, fu pubblicata integralmente dal settimanale parigino Sept (di François Mauriac!) con il commento: «Dichiarazioni franche e nette: si è unanimemente stabilito di combattere il neo-paganesimo [il nazional-socialismo] e di organizzare contro di esso una difesa attiva». Questo, in accordo con Pio XI e con il Card. Pacelli, che, lo si è visto, erano intervenuti. Tutto ciò dimostra che, all'epoca, non veniva in mente a nessuno di pensare che colui il quale fu poi il Papa Pio XII non fosse profondamente ostile al nazional-socialismo, e gli articoli del Populaire (giornale socialista) e de L'Humanité (comunista), che salutarono la sue elezione e che si trovano in appendice8, provano che egli era ancora tale nel 1939: e altri estratti presi dalla stampa e databili a dopo la guerra, che si trovano anch'essi in appendice9, provano, in più, che egli lo rimase ancora per molto tempo dopo la guerra.
Per concludere sul ruolo svolto dal fattore religioso nell'avvento di Hitler al potere, ecco che cosa occorre dire. I protestanti tedeschi che rimproverano a Pio XII un presunto atteggiamento filonazista hanno costituito un fattore del successo di Hitler contro il quale la Chiesa cattolica, Pio XI, il Card. Pacelli e l'episcopato cattolico tedesco sono stati impotenti. Se si tiene conto del fatto che nella Germania del 1932-1933 i protestanti rappresentavano una porzione vicina ai due terzi della popolazione e i cattolici una porzione vicina a un terzo solamente, si può dire che, in effetti, essi rimproverano alla Chiesa cattolica e al Card. Pacelli, Segretario di Stato vaticano e poi Pio XII, di non essere riuscito a rovesciare una situazione che essi stessi avevano creato.
Ma vediamo il seguito.
In questa solenne seduta di apertura del nuovo Reichstag, il 21 marzo 1933, la dichiarazione di politica generale di Hitler fu adottata con 441 voti contro 94. Erano presenti 535 deputati: al totale di 648 mancavano in particolare l'intero gruppo comunista e una dozzina di social-democratici che erano stati arrestati e messi nell'impossibilità di prendere parte al voto. Mons. Kaas, portavoce del Centro cattolico, aveva preso la parola per raccomandare caldamente il voto della dichiarazione, e il suo gruppo parlamentare lo seguì all'unanimità. Ma Mons. Kaas non rappresentava l'opinione dell'episcopato cattolico tedesco; si sa che il 19 febbraio 1933, alcuni giorni prima che egli pronunciasse, il 2 marzo seguente, sotto la presidenza approvatrice del Dr. Konrad Adenauer, allora sindaco della città, il suo discorso con cui raccomandava un'intesa con Hitler e si faceva garante delle sue intenzioni, la Conferenza di Fulda aveva rinnovato l'anatema dell'episcopato contro il nazional-socialismo. D'altra parte, il 2 aprile seguente, Kaas diede le dimissioni dall'incarico di presidente del gruppo parlamentare del Centro cattolico e, il 9, sotto il pretesto di servire da intermediario fra il III Reich e la Santa Sede nei primissimi negoziati del Concordato, accompagnò von Papen e Goering a Roma, dove scomparve come in una botola: non lo si rivide mai più in Germania, e l'opinione più comunemente ammessa è che, scontenta del suo atteggiamento favorevole a Hitler dopo il novembre del 1932, la Santa Sede lo avesse, d'autorità, definitivamente ritirato dalla scena politica. Poiché il suo caso è stato spesso citato come prova delle simpatie della Chiesa cattolica per Hitler, questa precisazione acquista tutta la sua importanza. Si possono, certamente, citare altri casi di vescovi cattolici che a giusto titolo sono stati accusati di compiacenze verso il nazional-socialismo: ad esempio Mons. Gröber di Friburgo, o Mons. Berning di Osnabrück. Ma fu soltanto dopo l'avvento di Hitler al potere, ed essi non furono che rarissime eccezioni alla linea generale. Dal lato protestante, invece, prima del trionfo di Hitler e ancora per molto tempo dopo, sono i casi di ostilità a Hitler che costituiscono l'eccezione tra i vescovi, come si vedrà tra un istante.
Per ritornare al Reichstag, la riunione di apertura solenne del 21 marzo che aveva adottato la dichiarazione di politica generale per 441 voti contro 94 (quelli dei social-democratici, dietro presa di posizione del loro leader) fu seguita due giorni dopo, il 23 marzo, da un'altra, nel corso della quale, con la stessa maggioranza, Hitler ottenne i pieni poteri per quattro anni nella forma di una legge chiamata «Legge finalizzata ad alleviare la miseria del popolo e del Reich» (Gesetz zur Behebung der Not von Volk und Reich). Presentando questa legge, Hitler dichiarò:
«Il governo farà uso di questi poteri soltanto nella misura in cui sono essenziali per prendere le decisioni di necessità vitale. Né l'esistenza del Reichstag né quella del Reichsrat sono minacciate. La posizione e i diritti del presidente [del Reich] rimangono immutati [...] L'esistenza individuale degli Stati della federazione non sarà toccata. I diritti delle Chiese non saranno diminuiti e le loro relazioni con lo Stato non saranno modificate. Il numero di casi in cui una necessità interna esiga il ricorso a una simile legge è, in sé, limitato»10.
Fu in questo discorso che Hitler annunciò la sua «speranza di pervenire ad accordi tra le Chiese e lo Stato» e, più in dettaglio, «di migliorare le nostre buone relazioni con la Santa Sede», il che era un'aperta allusione al suo desiderio di giungere a un Concordato con essa.
La Conferenza di Fulda dell'episcopato cattolico tedesco si riunì il 29 marzo 1933 e dichiarò:
«Bisogna attualmente riconoscere che il rappresentante supremo del governo del Reich e, al contempo, capo autoritario del movimento nazional-socialista ha fatto delle dichiarazioni solenni che tengono conto dell'inviolabilità della dottrina e della fede cattoliche, delle missioni e dei diritti immutabili della Chiesa, dichiarazioni nelle quali egli assicura espressamente che i trattati di Stato conclusi tra alcuni Paesi tedeschi e la Santa Sede rimangono in vigore»11.
Commentando questo testo, Mons. Preysing, arcivescovo di Monaco, soggiunse, il 30 marzo: «Le dichiarazioni fatte dal Cancelliere del Reich il 23 marzo davanti al Reichstag tedesco autorizzano i vescovi a cessare, in questo momento, l'opposizione che hanno dimostrato fino ad ora»12. Si tratta, beninteso, dell'opposizione al governo, e non dell'opposizione alla dottrina nazional-socialista. Inoltre, si noterà la seguente precauzione: il vescovo ha detto «in questo momento», il che non significa «definitivamente».
Tutti i vescovi del Reich trasmisero ai loro fedeli la dichiarazione di Fulda negli stessi termini, e l'Osservatore Romano13, e quindi la Santa Sede, approvò.
Tra la Chiesa e il III Reich la tregua non durò a lungo: il tempo di firmare un Concordato. Era stato appena firmato, e la lotta riprese a proposito delle molteplici violazioni di cui esso fu oggetto da parte delle autorità del III Reich: ed ecco le note di protesta del Card. Pacelli, l'enciclica Mit brennender Sorge, le reiterate condanne del nazional-socialismo da parte del card. Pacelli divenuto Pio XII, etc. Non ci si tornerà più14.
Durante questo periodo, come si comportò la gerarchia protestante nei confronti di Hitler e del nazional-socialismo?
È soltanto all'inizio del 1934 che le relazioni fra il III Reich e la Chiesa protestante incominciarono a guastarsi, e, per di più, solamente fra il III Reich e una piccola minoranza di pastori. La controversia sorse a proposito della costituzione della Chiesa protestante in Chiesa del III Reich, progetto che Hitler accarezzava parallelamente al suo progetto di Concordato con la Santa Sede.
All'inizio, questo progetto ebbe l'adesione di tutta la gerarchia protestante nel suo insieme. Almeno, tra i 17.000 pastori, nessuna voce si levò per protestare. Anzi, come ci informa William L. Shirer, 3.000 di loro, aventi come capo un certo Ludwig Mueller, cappellano militare del distretto della Prussia orientale, amico del Führer e nazista convinto, erano militanti attivi del Partito nazista, «sostenevano, in seno alla Chiesa protestante, le dottrine razziali naziste e il principio della supremazia tedesca, e volevano vederli applicati a una Chiesa del Reich, che riunisse tutti i protestanti»15. Gli statuti di questa «Chiesa del Reich» furono messi a punto dai rappresentanti delle diverse Chiese protestanti tedesche – ce n'erano 28 tipi! –, e questa Chiesa fu riconosciuta ufficialmente dal Reichstag il 14 luglio. Non si è dimenticato che il primo rimprovero rivolto a Pio XII, allora Card. Pacelli e Segretario di Stato del Vaticano, era di essere entrato in rapporto con le autorità del III Reich proprio in quest'epoca in vista della firma di un Concordato, malgrado tutti i misfatti del nazismo: ma c'erano entrati anche i protestanti che gli hanno mosso questo rimprovero. Analogamente, è già stato detto che, sempre malgrado i misfatti del nazismo, le democrazie inglese e francese vi erano entrate alla stessa epoca, anch'esse, in vista della firma del celebre Patto a Quattro. La logica di tutta questa gente è dunque, a quanto sembra, che, durante l'anno 1933, tutti avevano il diritto morale di negoziare con il III Reich tranne la Santa Sede! Osserviamo soltanto che questa logica è straordinaria.
Poiché negli ambienti protestanti non era stata sollevata nessuna obiezione di principio, fu inaugurata la tappa seguente: la nomina del 'papa' della nuova Chiesa. Vi si procedette all'inizio di settembre, nel sinodo di Wittemberg. Ed è là che incominciarono le difficoltà. Il favore dei delegati a questo sinodo sarebbe andato a un pastore, Friedrich von Bodelschwing, mentre quello del Führer, che lo manifestò pubblicamente alla radio alla vigilia dello scrutinio, andava al suo amico Ludwig Mueller. Il pastore Friedrich von Bodelschwingh ritirò la sua candidatura, e così Ludwig Mueller fu eletto all'unanimità. Né il Führer né alcuno dei suoi pari aveva pensato al Rev. Dr. Martin Niemöller. Certe malelingue hanno sostenuto che egli se ne risentisse molto, ma, se fosse vero che questa decisione portava in germe la sua opposizione a Hitler, bisognerebbe riconoscere che egli non la manifestò poi direttamente. Niemöller aveva contribuito a creare un'associazione di pastori, Der Pfarrernotbund [N.d.t.: Unione dei pastori contro la miseria], della quale era divenuto il presidente, e, perché non ci si inganni sulle sue intenzioni, in séguito alla nomina del Dr. Ludwig Mueller a capo della Chiesa del Reich, egli indirizzò a tutti i pastori una circolare nella quale era detto: «I membri dell'Unione dei pastori contro la miseria si schierano incondizionatamente a fianco del Führer Adolf Hitler»16.
Il 14 ottobre seguente, poiché la Germania aveva lasciato la Società delle Nazioni sbattendo la porta, il Presidente Niemöller, a nome dell'Unione dei pastori contro la miseria, telegrafò a Hitler:
«In quest'ora determinante per il popolo e per la patria tedesca, salutiamo il nostro Führer, e gli assicuriamo il nostro sostegno fedele e i nostri pensieri sinceri»17.
La sua attività in nome di questa organizzazione lo porta a capo di una delle 28 sette protestanti tedesche, la Chiesa confessante, che tenta di cristallizzare un'opposizione alla Chiesa del Reich recentemente creata.
Ma questa opposizione rivolge i suoi colpi molto più contro questa stessa Chiesa che contro Hitler e il nazional-socialismo, poiché, essendo Hitler riuscito, il 25 gennaio 1934, a mettere le due parti, in sua presenza, in vista di un accordo, il protocollo di questa riunione, stabilito da Niemöller, dice ancora a Hitler:
«Non abbiamo bisogno di assicurarLe quanto Le siamo riconoscenti di avere strappato il popolo tedesco alla disintegrazione interna ed esterna, e di avere liberato le sue forze per una nuova fioritura»18.
E lo si replica stancamente, all'ombra di Hitler, mentre i dissensi tra la Chiesa confessante e le altre sette protestanti rimangono quelli che erano. In realtà, questi dissensi in seno alla gerarchia, come ci dice ancora William L. Shirer, traducevano soltanto, da parte delle Chiese protestanti, «la resistenza alla nazificazione di una minoranza di pastori e di una ancor più debole minoranza di fedeli»19.
Nel luglio del 1935 Hitler tentò nuovamente di eliminare tutti questi dissensi che, pur senza inquietarlo, lo irritavano. Incaricò pertanto il suo ministro dei Culti, il Dr. Kerrl, di promuovere una nuova riunione. Ne risultò un Consiglio della Chiesa, presieduto dal Dr. Zöllner, un venerabile pastore che tutte le fazioni protestanti stimavano e rispettavano. Il Dr. Martin Niemöller, pur sostenendo che la sua Chiesa protestante fosse la sola vera Chiesa protestante, accettò di collaborare in quella sede.
Nel maggio 1936 egli indirizzò una nota cortese a Hitler per protestare contro le tendenze anticristiane del regime e per richiedergli che si ponesse fine all'ingerenza dello Stato negli affari ecclesiastici. Hitler non si comportò rigidamente con lui.
Soltanto il 27 giugno 1937 egli passò pubblicamente all'opposizione con un sermone pronunciato sul tema della sua nota del maggio 1936, nella sua chiesa di Berlino-Dalhem. Questa omelia conteneva un passo che costituiva una sfida: «Noi non pensiamo di usare i nostri proprî poteri per sfuggire al braccio dell'autorità più di quanto non lo abbiano fatto gli apostoli un tempo. Non più di quanto non siamo decisi a serbare il silenzio dietro ordine umano quando Dio comanda di parlare, poiché, oggi e sempre, dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che all'uomo»20.
Il primo luglio fu arrestato e imprigionato, poi il 2 marzo 1938 venne processato davanti a un tribunale speciale (Sondergericht) che lo condannò a sette mesi di prigione e a duemila marchi di ammenda. Il carcere preventivo copriva la pena della detenzione: alla sua uscita dall'aula delle udienze, fu preso dalla Gestapo e inviato in un campo di concentramento (Sachsenhausen per qualche mese, poi Dachau) come «prigioniero personale del Führer», il che non era una protezione da poco. Uscì da questo campo soltanto quando fu liberato dalle truppe americane.
Il meno che si possa dire è che, da parte di un uomo che aveva aderito al nazional-socialismo nel 1924, che lo aveva poi sostenuto in tutte le circostanze, specialmente, come si è visto, durante le sue campagne elettorali, autore di un libro che era un'apologia del nazional-socialismo, che terminava con una nota esprimente la sua soddisfazione che la rivoluzione nazional-socialista avesse finalmente trionfato e avesse trascinato con sé questa rifioritura nazionale, ebbene, tale presa di posizione del pastore Martin Niemöller veniva un po' tardi.
Se si fosse certi che questo passaggio all'opposizione non fosse sospetto, si direbbe volentieri: «Meglio tardi che mai». Ma che cosa si deve pensare di quella lettera che Niemöller scriveva al suo amico, il grande ammiraglio Raeder, nel settembre del 1939, dopo lo scoppio della guerra, quando si trovava internato dal luglio del 1937?
«Poiché attendo invano da tempo il mio ordine di richiamo in servizio, mi presento espressamente come volontario. Ho 47 anni, sono perfettamente sano di corpo e di spirito, e La prego di volere affidarmi un ruolo qualsiasi nei servizî della guerra»22.
Volontario nelle armate del nazional-socialismo, pur nella piena consapevolezza degli scopi che questo perseguiva, ecco che getta una luce singolare sulla natura e la sincerità della sua «opposizione al regime».
Tale è, in Germania, uno degli uomini più eminenti, il quale, dopo avere impegnato nel corso degli anni gli uomini sui quali aveva qualche influenza a consolidare il nazional-socialismo e, essendosi a quanto pare ritirato forzatamente dall'avventura, soltanto perché Hitler non lo volle nelle sue armate, successivamente richiese che fossero epurati senza pietà coloro che avevano imitato la sua decisione. Ebbene, egli figura tra gli accusatori più importanti di Pio XII e tra i sostenitori più ardenti di Rolf Hochhuth, il quale è, d'altronde, uno dei suoi parrocchiani.
L'arresto del pastore Niemöller fece precipitare la Chiesa confessante, così decapitata, nello smarrimento: non se ne sentì più parlare. Nell'altro clan protestante, il 12 febbraio 1937 il Dr. Zöllner aveva dato le dimissioni dal Consiglio della Chiesa, poiché la politica del III Reich gli aveva impedito di presentarsi, per un'inchiesta, a Lubecca, dove nove pastori protestanti erano stati arrestati. Alla fine dell'anno, il Dr. Marahrens, vescovo di Hannover, che lo aveva sostituito, dichiarò pubblicamente: «La concezione nazional-socialista della vita è l'insegnamento nazionale e politico che determina e caratterizza il comportamento del popolo tedesco. Per questo è indispensabile che i cristiani tedeschi vi si pieghino anch'essi». Nella primavera del 1938 egli giunse perfino a ordinare a tutti i pastori della sua diocesi di prestare giuramento di fedeltà personale al Führer. «Nel giro di poco tempo – ci informa William L. Shirer – la grande maggioranza degli ecclesiastici protestanti prestarono questo giuramento»23. E lo stesso avvenne in tutta la Germania. Non c'è dubbio che alcuni pastori abbiano resistito alla nazificazione della Chiesa protestante tedesca: a centinaia furono arrestati e spediti nei campi di concentramento. Ma anche i sacerdoti cattolici, a centinaia, furono arrestati e spediti nei campi di concentramento. Quello che intendo dire è soltanto che i protestanti i quali opposero resistenza andavano contro la linea generale della loro Chiesa, mentre i cattolici che opposero resistenza si inserivano nella linea generale della propria. Mi si scuserà di aver fatto così spesso ricorso a William L. Shirer, ma, infine, è un protestante egli stesso e, nonostante questo, nessuno meglio di lui ha saputo caratterizzare il comportamento generale dell'insieme dei protestanti tedeschi, pastori e gregge insieme, stiracchiati tra i partigiani di una Chiesa protestante trasformata in Chiesa del Reich nazional-socialista e quelli della sua totale indipendenza politica. «In mezzo – egli scrive – c'era la maggioranza dei protestanti che sembravano troppo timorosi per unirsi ai ranghi di uno dei due gruppi combattenti e che, nella maggioranza, finirono per approdare nelle braccia di Hitler, accettando di vederlo intervenire negli affari della Chiesa e obbedendo ai suoi comandi senza protestare apertamente.
E nemmeno in altri modi.
Queste constatazioni non hanno un valore indicativo molto grande: occorre tenere conto del timore che il regime ispirava al clero24 e alla massa dei protestanti tedeschi. Ma infine, questo regime, che ispirava gli stessi timori ai cattolici, non ottenne di essi che «la maggioranza». Clero in testa, cadessero «nelle braccia di Hitler» e accettassero «di vederlo intervenire negli affari della Chiesa». Bisogna anche convenire che i cattolici avevano sui protestanti un vantaggio notevole: un Nunzio a Berlino e un Papa a Roma, il primo inviolabile e il secondo al di fuori della portata delle rappresaglie, i quali potevano protestare a nome loro, e in effetti non mancarono di farlo. Detto questo, è comunque un vescovo cattolico, Mons. von Galen di Münster, e non un vescovo protestante, che si è levato contro l'eutanasia...
Era necessario richiamare in dettaglio il comportamento della Chiesa protestante, del suo episcopato e dei suoi 17.000 pastori presi nel loro insieme. Non lo si è fatto a cuor leggero: «Di fronte ad ogni peccato, si usi misericordia», se è la legge del Dio dei Cristiani, è anche quella della coscienza degli atei, benché, sfortunatamente, non sia quella degli uomini in generale. Se, dimenticando questa legge del suo proprio Dio fino a gravare la coscienza di un innocente di un peccato che essa ha commesso e che egli non ha commesso, questa Chiesa non si ponesse oggi come accusatrice, ci si sarebbe ben guardati dal farlo [sc. dal richiamare il comportamento della Chiesa protestante, n.d.t.]. E, se lo si è fatto, non è al modo di un Hochhuth, per gettare contro di essa un qualsiasi anatema, ma solo per ricordare il vecchio proverbio del ladro che biasima il ladro. Discendendo dal piano dei principî a quello dei fatti, si sa bene, d'altra parte, che, sotto una dittatura così come in guerra, il comportamento degli uomini perde tutto il suo senso e sfugge ad ogni giudizio di valore. Io l' ho provato personalmente nel campo di concentramento (negli stessi termini di Louise Michel) e nelle operazioni di guerra. Non interviene più nessun fattore razionale, tanto più presso gli uomini di Fede. Ed è questo che, nel caso di Pio XII, impone il rispetto, nel senso che il comportamento di quest'uomo di Fede è stato a lui dettato da principî razionali, i quali, all'opposto di quelli della Fede, sono sempre umani.
Sotto Hitler, dunque, prendiamo atto della situazione e passiamo oltre. Ma prima?
Prima, rimane che, nel suo insieme, il clero della Chiesa protestante e perfino, nel suo seno, la piccola minoranza che – troppo tardi, di gran lunga troppo tardi – entrò nell'opposizione e di cui il pastore Martin Niemöller è il tipo più rappresentativo, prese le parti di Hitler e costituì uno dei fattori del suo successo quando la Germania era ancora una repubblica e non si stava esercitando nessuna pressione. Invece il clero cattolico, la Santa Sede, Pio XI e il Card. Pacelli, futuro Pio XII25...
Anche questa pecca sarà perdonata alla Chiesa protestante: nel disordine di quei tempi... E, in ogni caso, sta scritto anche nella Bibbia: «A chi ha peccato molto, molto sarà perdonato». In virtù di questo, le sarà perdonato anche il peccato ben più grave che consiste nel porsi oggi come accusatrice. Ma, dopo avere dato un colpo di spugna in questo modo, pur perdonando, si rimane comunque in diritto di dire che si sarebbe proprio desiderato che essa non avesse commesso quest'ultimo peccato. Che si fosse resa conto che se, in questa faccenda, qualcuno poteva eventualmente permettersi di accusare, questo qualcuno non era certo lei. E che se, per caso, uno dei suoi fedeli, sviato al punto di avere perduto ogni senso morale, come è il caso di Rolf Hochhuth, si fosse lasciato andare fino a questa infamia che è Il Vicario, essa ne prendesse atto soltanto per ribadire la propria colpa e, il più umilmente possibile, rendere omaggio a un uomo che, per essere stato Papa, non fu per questo meno grande davanti al nazional-socialismo e alla guerra, anzi molto più grande di qualsiasi dei suoi pastori, e perfino più grande di quanto questi ultimi, riuniti in un gigantesco fascio, non lo siano stati tutti insieme.
So bene perché essa non lo ha fatto.
In primo luogo, c'è questa disposizione generale di spirito, già segnalata, che pochissime persone riescono a vincere e che, in quanti hanno un senso di colpa, consiste nel cercare di sistemarsi la coscienza ricercando qualcun altro che sia più colpevole di loro. È una reazione istintiva e senz'altro umana – nel senso in cui questo aggettivo qualifica una debolezza dell'uomo sul piano dell'intelligenza delle cose, in un senso che è agli antipodi dell'umanesimo. Nel caso particolare che stiamo trattando, c'è poi l'antipapismo congenito dei protestanti, che costituisce l'essenza del loro credo. E, infine, c'è la situazione politica completamente nuova che è stata prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale e nella quale si trova oggi la Chiesa protestante tedesca.
Figlia della Prussia protestante, nata sotto il segno del Kulturkampf, la Germania del 1914 era un impero nel quale i protestanti si trovavano accanto ai cattolici nella proporzione di due contro uno: l'imperatore era protestante, il cancelliere imperiale era protestante, i capi dell'esercito e della polizia erano protestanti. La Chiesa protestante esercitava in quel contesto un influsso considerevole sulla politica: non si sarebbe neppure immaginato un incarico importante ricoperto da un cattolico.
Espressione di un principio liberale, nato da una reazione di Bismarck contro la politica di Pio IX e in particolare contro il dogma dell'infallibilità pontificia che questo Papa fece promulgare da un Concilio, il Vaticano I, il 18 luglio 1870, il Kulturkampf (il termine significa «battaglia per la cultura») si tradusse a livello governativo in una serie di leggi eccezionali contro i cattolici – soppressione della libertà della Chiesa, pur garantita dalla Costituzione prussiana del 1850, ad esempio – che non riguardavano i protestanti e che, se si fosse trattato soltanto della Prussia, non avrebbero potuto comportare inconvenienti gravi, sebbene fossero palesemente ingiuste, ma che, trattandosi dell'intera Germania, cristallizzarono contro di essa la parte cattolica della sua popolazione, che ammontava ad un terzo, precisamente nel momento in cui il marxismo crescente riusciva a cristallizzarne quasi un altro terzo. Per non essere messo in minoranza nel Reichstag, dovette cedere (1880: legge detta di pace religiosa) e, poiché i cattolici non avevano fatto nessuna concessione, fu la prima sconfitta politica del protestantesimo tedesco, che, una volta terminato il Kulturkampf, perdeva il suo strumento di propaganda più efficace
A partire da quel momento, la Chiesa cattolica non cessò più di esercitare e di accrescere progressivamente la sua influenza sulla politica tedesca. In competizione con la Chiesa protestante. I progressi furono lenti, perfino troppo lenti: le cariche dei più importanti funzionarî rimasero ancora per molto tempo una riserva di caccia per i soli protestanti, e bisognò attendere il 1930 perché un cattolico, il Dr. Brunning, accedesse alla carica di cancelliere. Al momento dell'avvento di Hitler, tuttavia, l'influenza della Chiesa protestante era ancora preponderante sul piano religioso, e, pur essendo di origini cattoliche, Hitler stesso nutriva molta più simpatia per questa Chiesa che per quella cattolica. Anche il solo fatto che egli abbia pensato di farne una Chiesa nazionale del Reich lo conferma indiscutibilmente. Si potrebbe perfino aggiungere che, da quando la Germania esiste, da sempre, furono gli ambienti protestanti, pressoché all'unanimità, ad esprimere il nazionalismo tedesco nella sua forma più esasperata, e questo costituiva, ancora una volta, un ponte tra Hitler ed essi. Di questo nazionalismo è stato detto che fosse «prussiano».
D'accordo, ma, domando io: prussiano perché era protestante o protestante perché era prussiano?
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale ebbe termine anche l'influsso preponderante del protestantesimo sulla politica tedesca. In primo luogo, la Germania fu tagliata in due: diciassette-diciotto milioni dei suoi abitanti dalla parte orientale della Cortina di ferro; cinquantuno-cinquantadue milioni dalla parte occidentale. Ma i diciassette-diciotto milioni di Tedeschi di cui la Germania è stata amputata sono precisamente i protestanti, e questo fatto ha due conseguenze:
1. Dall'altra parte della Cortina di ferro, sottomesso alla dittatura comunista, il clero protestante si vede interdire certe prese di posizione e, a quanto sembra, sopporta questa interdizione con la stessa buona volontà con cui sopportava un tempo quelle che gli erano imposte dal regime hitleriano. In particolare, si lascia orientare, molto di buon grado, verso la dottrina della pace che è quella dell'Unione Sovietica. E, nella Germania occidentale, il clero protestante si allinea con lui: il pastore Martin Niemöller, comandante di un sottomarino durante la Prima Guerra mondiale, autore di un libro che è una professione di fede di un nazionalismo forsennato e che si conclude con una nota entusiasta di adesione alla «Rivoluzione nazional-socialista», che in qualità di volontario si offrì di assumere nuovamente il servizio nelle armate hitleriane nel 1939, è oggi il vescovo più influente del protestantesimo e... alla testa di un movimento pacifista che riprende sistematicamente, facendole sue, tutte le parole d'ordine dell'Unione Sovietica in materia di pace. I pacifisti tedeschi non hanno trovato nulla di meglio che potesse presiedere ai loro destini. Insomma, lungi dall'essere stato un fattore di divisione supplementare per i ventotto 'pezzi' della Chiesa protestante tedesca, la Cortina di ferro è stata un fattore di unione, nel senso che permette loro di manifestare, di quando in quando, un'unità di vedute almeno su un punto: la pace. D'altronde, questa è una tradizione del protestantesimo in generale: diviso in un'infinità di sette opposte sui dogmi, non ha mai trovato il modo di affermare la sua unità se non su problemi che non sono proprî della religione che esso professa.
2. Ridotta dal regime al ruolo di agente della Pax Sovietica nelle sue prese di posizione pubbliche dall'altra parte della Cortina di ferro – il quale regime, fra parentesi, come a tutte le Chiese, non accorda ad essa maggiore libertà nell'esercizio del suo culto di quanta non ne accordi a titolo di persona privata –, la Chiesa protestante tedesca è tale per un rapporto di numeri, nella sua influenza politica nella Germania Ovest: nel 1965, protestanti e cattolici non vi si trovano più, come nella Germania di prima del 1914 o del periodo tra le due guerre, in una proporzione di due protestanti per un cattolico, ma soltanto di sei protestanti per cinque cattolici26, ossia in numero quasi uguale, con un leggero vantaggio per i protestanti. Sul piano politico, questa situazione si traduce così: quando il Presidente della Repubblica è protestante (Heuss), il Cancelliere è cattolico (Adenauer), e a questa squadra succedettero un Presidente cattolico (Lübke) e un Cancelliere protestante (Erhard). È come se tra le due Chiese si fosse giunti a un compromesso, un compromesso che non piaceva né all'una né all'altra, e ciascuna sorvegliava l'altra, pronta a cogliere la minima occasione che le permettesse di avere la meglio su di essa. Il successo straordinario del Cancelliere Adenauer gioca in favore dei cattolici, i quali già si trovano in una buona posizione per il loro atteggiamento di fronte al nazional-socialismo: hanno il vento in poppa. Contro i protestanti giocano l'aiuto che essi arrecarono a Hitler nella sua ascesa al potere e quel criptocomunismo per mezzo del quale avevano creduto di poter giungere a sdoganarsi. Se ne sono resi conto. Allora, fu Il Vicario ad avere lo scopo di infliggere ai cattolici un colpo dal quale non si risollevassero più, facendo al contempo apparire i protestanti come uno degli elementi essenziali della resistenza a Hitler.
Tale è il primo aspetto dell'operazione Vicario: un argomento dei protestanti nella lotta che essi vanno conducendo nella Germania Ovest per combattervi l'influenza politica dei cattolici, e certamente – cosa essenziale in questa battaglia – per accrescere o almeno conservare una clientela che il loro comportamento politico di ieri e di oggi ha finito per rendere estremamente fluttuante. Che tutte le Chiese protestanti del mondo abbiano ripreso all'unanimità l'argomento per farlo proprio è semplicemente del tutto naturale: è l'argomento antipapista per eccellenza, nell sua forma. Nella sostanza, invece, si è appena visto che è tutta un'altra storia, come direbbe Kipling.
Si tratta di un argomento da bottegaio, del resto – e degno di un bottegaio degli albori del commercio: «A pari prezzo, tutto è di qualità migliore qui che non nel negozio di fronte: provi un po'...». Davanti a questo tipo di argomento, l'avventore odierno passa oltre, limitandosi a sorridere di questa scempiaggine. Nel corso del dibattito, una delle innumerevoli sette protestanti, con molta ingenuità, ha confessato, secondo la moda antica, lo scopo perseguito, invocando le Scritture: «Uscite da essa [dalla Chiesa catolica], popolo mio, se non volete prendere parte con lei ai suoi peccati e se non volete ricevere i suoi flagelli. Poiché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo, e Dio si è ricordato di questi atti d'ingiustizia»27.
Traduzione: uscite da essa e venite da noi.
È a questa conclusione che tutti arrivano: nel più sperduto dei nostri villaggi, l'ultimo dei bottegai del nostro tempo è più abile.
III. Il fronte unico contro il Papa
È ora necessario analizzare i moventi ai quali hanno obbedito gli avversarî della Chiesa cattolica che si sono associati alla Chiesa protestante in questa specie di «Fronte unico».
Soltanto per rinfrescare la memoria ci si soffermerà su quel movimento di pensiero che, all'inizio di questo secolo, allorché il socialismo aveva realizzato la sua unità e il sindacalismo aveva trovato la sua strada, quando il mondo del lavoro si apprestava a lanciarsi all'assalto del regime con la parola d'ordine: «Ecco il nemico: il capitalismo!», lo stornò da questa idea, dimostrandogli che il nemico non era il capitalismo, bensì il clericalismo: «Ecco il nemico: il clericalismo!». La diversione riuscì proprio bene: da allora, la sinistra europea non si sarebbe più distinta dalla destra se non per un anticlericalismo che, trent'anni dopo, sarebbe stato pressoché una riedizione del Kulturkampf. Mentre il mondo del lavoro era impegnato a combattere contro i curati cattolici, il regime consolidava tranquillamente le sue strutture e preparava, non meno tranquillamente, la Prima Guerra Mondiale. Si sa che cosa ne seguì: il movimento operaio non se ne è mai più risollevato! Quanto a questo stesso movimento, ha avuto la medesima sorte del Kulturkampf: come Bismarck aveva dovuto cedere davanti a Leone XIII, allo stesso modo i conservatori sociali che lo avevano lanciato per dispensarsi di fare le riforme che avevano promesso per giungere al potere, dovettero cedere davanti a Pio XI, ristabilire da se stessi le relazioni con il Vaticano e abolire progressivamente le leggi eccezionali che avevano di mira la Chiesa cattolica, etc. L'anticlericalismo ne morì. In Francia, dove fu più violento ed ebbe i maggiori successi, alcune piccole sette tentarono di resuscitarlo. Invano: le loro armi più temibili sono il piccolo grembiule di cuoio, la squadra, il compasso e il salsicciotto del venerdì santo. Non è vero che il ridicolo non uccide più.
In linea di principio, tuttavia, la separazione della Chiesa e dello Stato era una cosa molto buona. Bisognava soltanto che essa significasse una «libera Chiesa in libero Stato», secondo la formula di Vittorio Emanuele II: una Chiesa, insomma, ridotta alla condizione di un partito politico con gli stessi diritti di tutti gli altri. Ora, al momento dell'applicazione, la suddetta separazione significò invece l'estromissione della Chiesa cattolica per il profitto di un'altra la cui religione sarebbe lo Stato, con i maestri elementari come suoi sacerdoti nella comunione del grande Architetto dell'universo. A forza di leggi eccezionali, per di più. Soltanto di sorpresa si poté riuscire a far passare l’inghippo all'inizio del secolo. E non per molto tempo. I salsicciai con il piccolo grembiule di cuoio, la squadra e il compasso del venerdì santo che sognano di ritornare a quel tempo felice del loro splendore devono farsene una ragione: la storia non passa i piatti una seconda volta. O comunque non li ha passati una seconda volta in questo caso: il piccolo padre Combes non è uscito dalla sua tomba e i suoi discepoli ritardatarî non sono stati un fattore determinante nell'ampiezza della disputa provocata da Il Vicario. Questa ampiezza alla disputa è stata conferita dal bolscevismo e dal movimento sionista internazionale. E, sebbene le loro rispettive prese di posizione in questa faccenda non siano caratterizzate dalla medesima intenzione, risultano entrambe ispirate loro dal problema tedesco, così come esso è stato posto dall'esito della Seconda Guerra Mondiale. Riflettendo le stesse vedute, inoltre, esse non possono mancare di giungere allo stesso risultato finale: la morte della libertà in Europa a motivo della caduta dell'Europa stessa sotto i colpi del bolscevismo.
Ho spesso detto e scritto che, sotto il manto di una rivoluzione mondiale intesa a liberare tutti i popoli dal giogo capitalista, il bolscevismo non era altro che la forma moderna del panslavismo. Sotto Stalin si giunse al punto che ad essere perseguita non era più la liberazione dei popoli per mezzo della rivoluzione, bensì, con l'aiuto di una guerra, l'estensione della dominazione bolscevica a tutta l'Europa, che sarebbe stata imprigionata nelle strutture economiche e sociali, ben ripiegate su quelle del capitalismo liberale, che attualmente imperversano in Russia. Ciò definisce la qualità di tale socialismo, riconducendo al contempo la suddetta rivoluzione alle sue giuste proporzioni di astuzia grossolana.
Alla prova dell'esperienza, i calcoli di Stalin si sono rivelati falsi soltanto per metà: se egli non riuscì a tenere la Russia fuori dalla Seconda Guerra Mondiale, quest'ultima consegnò comunque metà della Mitteleuropa al panslavismo, e portò le sue frontiere a cinquanta chilometri da Amburgo. Basta che la Germania Ovest crolli e davanti ad esso è libera la via verso l'Atlantico. Dunque, ogni volta in cui si fa un passo verso la reintegrazione della Germania Ovest – e perfino di quella dell'Est, per mezzo della riunificazione delle due – nella comunità dei popoli europei, per altro aperta a tutti, i successori di Stalin si profondono in invettive contro il militarismo tedesco, contro i neo-nazisti di Bonn in cerca di una rivincita, contro la Germania responsabile della Seconda Guerra Mondiale, contro i criminali di guerra, etc. È il loro argomento morale. È finalizzato a mantenere nell'opinione pubblica la menzogna evidente che i tredici processi di Norimberga hanno promosso al rango di verità storica, ossia che, siccome la Germania sarebbe l'unica responsabile della Seconda Guerra Mondiale, essa sola debba assumersi l'onere della riparazione dei danni.
Far pagare alla Germania, ancora e sempre, significa provocare il disastro economico. Approfittando del caos che ne seguirà, i successori di Stalin sperano bene di mettere le mani su di essa.
E sarà la morte dell'Europa liberale, poiché, senza una Germania libera, indipendente e reintegrata, con parità di diritti, nella comunità dei popoli del vecchio continente, quell'Europa è inconcepibile. Allora, le frontiere del panslavismo risulteranno spostate di un notevole passo avanti verso occidente e il bolscevismo non avrà più bisogno di fare nulla perché esse si confondano con la costa atlantica.
Tali sono i calcoli del bolscevismo.
E tale è l'impresa alla quale, con Il Vicario, il clero protestante nel suo insieme ha appena arrecato un argomento di propaganda per ragioni di prestigio religioso in seno a uno Stato, mentre il Movimento sionista internazionale vi si è associato per motivi di interesse. Riaffermare la colpevolezza della sola Germania significa in effetti giustificare il pagamento delle indennità che permettono ad esso di consolidare lo Stato d'Israele e di «ricostruire la via giudaica» nel mondo. Segnaliamo, incidentalmente che queste «riparazioni» sono pagate soltanto dalla Germania Ovest. Il loro ammontare è tale che quello che esigeva il trattato di Versailles nel 1919 era una bazzecola in confronto (si veda l'appendice V).
Ma i Cristiani progressisti? Nella preoccupazione di dotarsi di una coscienza pulita e di farsi perdonare l'atteggiamento che essi, sordi all'appello di Pio XII, avevano adottato prima e durante la guerra – atteggiamento spesso equivoco durante la guerra: conosco casi di persone che oggi parlano con molta supponenza e che, tuttavia... –, costoro sono provati dalla tentazione del marxismo, i cui metodi, a loro avviso, sono gli unici in grado di salvare la Chiesa cattolica: l'apertura a sinistra. E questo, nel preciso momento in cui l'esperienza della Russia ha provato fallimento del marxismo, e in cui, nel resto del mondo, la sinistra, dal punto di vista sociale, è ormai soltanto un mito artificialmente tenuto in piedi dal bolscevismo, che nel ventaglio politico si situa non a sinistra, ma all'Est, vale a dire all'estrema destra e, molto probabilmente, ancor più di quanto non lo siano i vecchi partiti che abitualmente classifichiamo in quella posizione. Infatti, ciò che è all'estrema destra è il totalitarismo, sotto qualsiasi colore dottrinale si ammanti, e, in materia di totalitarismo, i suddetti vecchi partiti sono lontani, ben lontani, rispetto al bolscevismo, dall’arrivargli alla caviglia. Quello che si intende dire qui è che, a partire dal momento in cui, parlando di apertura a sinistra, ci si rivolge soltanto al bolscevismo, in primo luogo è alla più estrema delle destre, e dunque alla peggiore, che si attua l'apertura; in secondo luogo, si vuol dire che tutto ciò a cui si può pervenire è a fare il gioco di questa estrema destra. Se, per preoccupazione dottrinale, si vuole per di più dotare la Chiesa di un sistema di pensiero marxista, non si può che arrivarci ancor più sicuramente. E più rapidamente: si sa in quale avventura, praticata con la benedizione di quello che viene chiamato il Papa buono Giovanni XXIII, l'apertura a sinistra abbia rischiato recentemente di far precipitare l'Italia. E si freme al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se il clero italiano fosse stato marxista! La politica della «mano tesa ai cattolici» da parte del bolscevismo – che all'Est li tratta a frustate – non è altro, in Occidente, che una riedizione del «pollame da spennare» che con tanto successo esso pratica con il socialismo da cinquant'anni. L'esperienza insegna che, in questo campo, la sua tecnica è delle più collaudate. Il minimo contatto che si ha con esso, la minima concessione fatta ai suoi metodi o alla sua dottrina finisce per introdurre il lupo nell'ovile, dove esso è più forte di tutti i montoni messi insieme.
È un semplice problema di proporzione di forze.
E, per quanti cedono alla tentazione, è una questione di cecità politica.
Detto questo, nel fatto che la Chiesa cattolica si evolva, ossia che essa scompaia dalla vita spirituale dei popoli come è scomparsa, o quasi, dalla loro vita materiale, il lettore ha già compreso che l'autore di questo studio non vede alcun inconveniente, al contrario. Ma se lo fa cedendo la sua clientela al bolscevismo, è tutt'altra cosa.
A questi motivi di ordine puramente politico che, sul tema del Vicario, hanno riunito protestanti, Ebrei, Cristiani progressisti e bolscevichi in una comune offensiva contro la Chiesa cattolica, occorre aggiungerne uno di ordine puramente religioso, che richiama in causa un dogma del Cristianesimo e che è proprio del Movimento sionista internazionale: l'accusa che da duemila anni pesa sul popolo ebraico e fa di esso un popolo deicida in tutta la Cristianità. A questo Movimento sionista internazionale l'annuncio della convocazione del Concilio da parte di Giovanni XXIII non poteva mancare di suggerire che si presentava una splendida occasione di fare eliminare ufficialmente tale accusa, tanto più che la sorte subìta dagli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale per il solo fatto di essere Ebrei aveva provocato nel mondo intero un'indignazione generale che non rimarrebbe meno giustificata perfino se questo evento fosse spogliato di tutte le esagerazioni che lo hanno ingigantito a dismisura, e ricondotto alle sue giuste proporzioni; e nell'opinione pubblica, grazie alla simpatia non meno generale che questa sorte ha valso agli Ebrei, aveva creato un'atmosfera favorevole alla revisione del suddetto giudizio di anatema.
IV. Per la pace
Tali sono le differenti parti dell'«operazione Vicario», e tale è il modo in cui esse si articolano tra loro in un meccanismo politico.
In sintesi, si hanno: la preoccupazione della Chiesa protestante di riconquistare, a discapito di quella cattolica, il predominio politico che essa ha perduto in Germania; le ambizioni panslaviste del bolscevismo; il colpo di fulmine dei Cristiani progressisti per il marxismo in salsa bolscevica e, infine, l'interesse del Movimento sionista internazionale rispetto alle indennità di guerra richieste alla Germania e la sua volontà di far eliminare l'imputazione del crimine di deicidio – o, più propriamente, di cristicidio – che gravava sul popolo ebraico.
Tutto questo si trova innestato sul problema tedesco tale quale è stato posto al termine della Seconda Guerra Mondiale, vale a dire sulla responsabilità unilaterale della Germania rispetto al suo scoppio: non essendo riusciti a dimostrare giuridicamente questa responsabilità unilaterale a Norimberga, ora si pensa soltanto a dimostrarla davanti all'opinione pubblica a suon di processi spettacolari e di libelli scandalistici, avvalendosi dei delitti che i Tedeschi sono accusati di avere commesso durante la guerra, vale a dire dopo il suo scoppio. Attenendosi allo stesso procedimento, si potrebbe provare altrettanto bene che sono gli Inglesi, i Francesi o i Russi – oppure tutti insieme, e in connivenza – ad essere i soli responsabili di questa guerra: basterebbe sostituire Auschwitz con Dresda, Lipsia e cinquanta altre città tedesche, senza dimenticare Hiroshima e Nagasaki, oppure con Katyn, etc., e il gioco sarebbe fatto. Ciò che lascia maggiormente costernati in questo modo del tutto inedito di ragionare è che esso è adottato da professori eminenti, tanto abbondantemente incartapecoriti quanto decorati, i cui meriti sono quotidianamente celebrati in modo solenne, con l'invito a inchinarci rispettosamente davanti alla loro scienza. Così da togliervi per sempre la voglia di divenire uomini di scienza...
Non ci soffermeremo ulteriormente sull'inconsistenza della tesi secondo la quale, quando scoppia una guerra, la responsabilità incomberebbe inevitabilmente su un solo popolo o sui dirigenti di un solo popolo. È quello che Pio XII aveva compreso perfettamente, ed è questa concezione che egli tentò di far prevalere nei fatti che gli vengono rimproverati prima di ogni altra cosa.
Al termine di questo studio, rimane soltanto un'alternativa: o si ammette che, agendo sempre senza discernimento, i popoli siano sempre innocenti rispetto alle decisioni prese dai loro governanti – non solo in materia di guerra o di pace, d'altronde28 –, e che, quando scoppia una guerra, sono i loro dirigenti, tutti senza eccezione, da una parte e dall'altra della linea del fuoco, ad esserne gli unici responsabili, e in tal caso il processo non si svolge più tra i popoli vincitori e il popolo vinto, bensì tra la comunità dei popoli, vincitori e vinti riconciliati, e la comunità dei loro dirigenti; oppure si continua a girare sulle rotaie del passato, si rinuncia a uscire da quel circolo infernale e vizioso della guerra che genera guerra e bisogna, per conseguenza, condannare di nuovo all'istante il popolo ebraico, almeno per il crimine di Cristicidio.
Nel primo caso, il problema sarà presto risolto: i popoli sono generosi, ignorano il rancore: il perdono è la loro disposizione naturale di spirito. «Amnistia generale», decreteranno, rinviando i litiganti spalla a spalla, senza neppure che ci sia bisogno di litigare: «tutti quanti si impegnino a riparare i danni e si finisca una buona volta con questo genocidio a ripetizione, perennemente sospeso sulle nostre teste». È evidentemente molto dubbio che i governanti dei popoli intendano questo linguaggio senza esservi costretti, ed è qui che, in questo ragionamento, sta il punto dolente, poiché nelle strutture tradizionali alle quali, per egoismo, tengono tanto, essi dispongono ancora di forze sufficienti, occulte o meno, per metterlo in scacco. Ma, presto o tardi, lo spirito avrà la meglio sulla spada, e gli spaventosi progressi della scienza atomica testimoniano già, con le reazioni che provocano, che questo momento non è più troppo lontano: ancora un piccolo tocco finale e sarà guadagnato. Quello che, al contrario, non è dubbio ed è estremamente confortante, è che i popoli usino questo linguaggio: basta solo guardare al favore che godono nell'opinione pubblica francese le campagne per l'amnistia di tutti i fatti imputati a crimine a coloro che, sia per il profitto del F. L. N. [Front de Libération Nationale], sia per quello dell'O. A. S., sono stati coinvolti nella guerra dì Algeria, già ora che essa è appena terminata. Al punto che il potere, il quale non ne avrebbe la minima intenzione, è costretto a cedere all'opinione pubblica. Il giorno in cui qualcuno si leverà, dirà ad alta voce quello che tutti pensano tra sé e sé e parlerà di amnistia europea per tutti i fatti relativi a una guerra vecchia oggi di venticinque anni, un'amnistia applicabile alla guerra stessa, ivi compresi i suoi responsabili, allora tutti i popoli avranno le stesse reazioni che ha il popolo francese davanti alle conseguenze di una guerra che è soltanto di ieri. La via della speranza, allora, sarà nuovamente aperta in direzione della vera pace.
Nel secondo caso dell'alternativa, non c'è altro che la legge del taglione propria dell'Antico Testamento, che allega i denti dei bambini fino alla settantasettesima generazione per punirli delle radici verdi che i padri hanno mangiato, una legge che è caratterizzata esclusivamente dal più basso spirito di vendetta spinto al parossismo, e che, per quanto conservata come preziosa e venerata nell'arsenale degli argomenti della teologia e del diritto ebraici, ciò non di meno risale agli albori dell'umanità e, nel XX secolo, non è altro che una rozza ingiuria ai più nobili principî di una civiltà che, se non è ancora giunta ai suoi fini nei fatti, ha almeno il merito di avere posto, in teoria, la dignità umana al primo posto tra le sue preoccupazioni. Questa legge del taglione, che trascina l'umanità di ignominia in ignominia, da quella che è consistita nell'inventare il crimine individuale della guerra dopo avere condannato tutti gli uomini senza eccezione ad essere ineluttabilmente dei criminali, reclamando a gran voce per mare e per terra e poi giustificando questo grande crimine collettivo che è la guerra stessa, a quella che, vent'anni dopo, inventa la sua esenzione dalla prescrizione; e, ancora, dal processo di Auschwitz al Vicario. Tra i fautori di ciascuno dei due termini dell'alternativa, il dibattito continua. Poiché la caratteristica propria dell'odio e dello spirito di vendetta è quella di non procedere mai al disarmo29, non c'è in vista nessuna fine di questo dibattito. La polemica che va sviluppandosi attorno al Vicario tende a provare, sì, che i più rigidi sostenitori di questi due pareri stanno perdendo brillantezza, ma....
Ma, se la verità e il buon senso compiono pian piano il loro cammino, e se, sul piano dello spirito, la massa di questi bacchettoni e gattomammoni malefici si è sensibilmente assottigliata, tuttavia i loro capi sono molto potentemente organizzati. Sul piano fattuale, essi detengono sempre il coltello dalla parte del manico e hanno in loro potere le sorti del mondo. Basta che arrivino a riformare la situazione o che tardi troppo quel mutamento di opinione di cui si sono già potute discernere le prime avvisaglie, e sarà il trionfo del bolscevismo panslavista, vale a dire l'assassinio della Germania, di questa Europa che – contrariamente a tutto quello che attestano gli scrutinî e gli altri sondaggi di opinione non meno truccati – è, a livello di speranza e allo stato velleitario, nel cuore di tutti gli Europei.
Il lettore converrà che tale prospettiva valeva bene questo avvertimento.
Tutto ciò, in fin dei conti, per fare della germanofobia sistematica la legge fondamentale della politica europea, e per creare un focolaio supplementare di guerra in Medio Oriente.
Mentre dopo...
Ma è meglio non pensare a quello che avverrebbe in séguito.
20 febbraio 1965
***
POST SCRIPTUM
Al presente studio era appena stato apposto il punto finale che, come uscendo da un vaso di Pandora, un nuovo Procuratore, ancora più minaccioso e categorico di tutti i suoi predecessori, si è alzato dal banco dell'accusa: «Sì, il Papa sapeva», ha dichiarato con un tono che non ammetteva repliche: «sapeva, eppure ha taciuto».
Si tratta, questa volta, del «più stimato tra i giornalisti italiani che si occupano di questioni religiose». Il suo nome è Carlo Falconi, il che significa, molto probabilmente, per un ragguardevole numero di persone colte e di buon senso, che questa reputazione era comunque un segreto molto ben custodito. Il suo impresario è Candide: e, per una pubblicazione che finora era stata incline, piuttosto, verso la tesi contraria, è abbastanza inatteso. Ma il giornale assurdo non è forse quello che non cambia mai?
In breve: a titoli cubitali, sull'intera prima pagina, con una foto di Pio XII a sostegno, Candide30, che pubblica gli estratti della tesi, ancora inedita31, del nuovo Procuratore, fa seguire, stampata in un rosso aggressivo, la sua rivelazione categorica di questa mazzata: «Il documento che svela tutto», con l'aggiunta, quale sottotitolo dei suddetti fogli, di quest'altro, la cui formulazione la dice lunga sulla pretesa di presentare il colpo di grazia: «Il documento definitivo sul Vaticano e sui campi nazisti».
Non si può formulare un giudizio di valore relativo a un libro soltanto sulla scorta dei suoi estratti. Tutto quello che in tali estratti si può trovare è, almeno, quello che il libro in questione ha di più significativo e di più allettante per l'eventuale lettore. Nel caso specifico, questo «documento definitivo che svela tutto». Dunque, si leggono i suddetti estratti. E si apprende che l'autore ha scoperto «negli archivî della Santa Sede» la prova che «sì, il Papa sapeva». Ma di documenti, nemmeno l'ombra: il documento – teniamoci forte! – è... la tesi stessa del Procuratore!
Si ammirerà la metodologia seguita.
Per contro, in questi estratti si trovano due nuovi testimoni, con le loro fotografie: l'ammiraglio Canaris, il quale fu capo del controspionaggio nazista, e von Papen, antico ambasciatore di Hitler ad Ankara, dove intratteneva le più strette relazioni con Mons. Roncalli (il futuro Giovanni XXIII, ora defunto), che in quella sede era Nunzio apostolico di Pio XII.
La metodologia seguìta qui non è meno notevole. Sotto la fotografia del primo c'è questa legenda: «Canaris, capo dei servizî segreti di Hitler, avrebbe informato il Vaticano delle atrocità naziste». Il solito condizionale ipotetico di tutti gli accusatori di Pio XII. Si cerca nel testo quello che giustifica quest'affermazione: la formula vi si trova ripresa, sì, ma non c'è nessun riferimento preciso. Dunque, si tratta di una semplice insinuazione.
Quanto a von Papen, la legenda che compare sotto la sua fotografia è assertoria: «L'ambasciatore di Hitler aveva trasmesso indiscrezioni al delegato del Vaticano, Mons. Roncalli». Si va a vedere il testo e si apprende che questo si sarebbe verificato soltanto «secondo ogni probabilità». E senza la benché minima indicazione su queste «indiscrezioni».
Nel caso di von Papen, riguardo a ciò che poté comunicare a Mons. Roncalli, disponiamo fortunatamente di ragguagli precisi grazie a quanto egli dichiarò a Norimberga:
«Quello di cui eravamo conoscenza, in linea generale, era che gli Ebrei erano stati trasportati nei campi di concentramento in Polonia, ma non sapevamo nulla di uno sterminio organizzato32 [...] io credevo che dovessero essere deportati in Polonia, signor Presidente, ma non sapevamo a quell'epoca, nel 1944, che dovessero essere uccisi [...] Non sapevamo che il proposito fosse quello di annientarli»33.
E von Papen aveva precisato, nella fase istruttoria del processo, il 19 settembre precedente, che era soltanto «qui», ossia a Norimberga, che aveva «saputo di tutti questi crimini»34.
Dunque, non poté rendere noto qualcosa di più, in merito, a Mons. Roncalli. Ma il lettore sa bene dai testi di Pio XII citati nel presente studio (in particolare, le sue allocuzioni rituali del 2 giugno di ogni anno, ivi comprese quelle del 2 giugno 1945 e la sua lettera al Card. Preysing) che tutto questo era noto in Vaticano, in forma d'altronde molto più precisa, assai prima del 1944 (a partire dal 1939 per la Polonia, dal 1941 per la Slovacchia, dal 1942 per l'Olanda, etc.). La lettera del Card. Tisserant attesta, d'altra parte, che in Vaticano non si seppe nulla di più, soprattutto su Auschwitz, «se non dopo l'arrivo degli Alleati in Germania»35, vale a dire, al più presto, alla fine del 1944 o all'inizio del 1945.
A giudicare dai suoi estratti, la tesi del giornalista Carlo Falconi non arricchisce dunque il dibattito con l'apporto di alcun documento nuovo, salvo su un punto: quella dei suoi predecessori al banco dell'accusa si limitava a passare sotto silenzio alcuni fatti, o ad interpretarli in modo tendenzioso; la sua non esita a inventarne. Al condizionale di senso suppositivo nella loro esposizione, all'indicativo presente di senso affermativo nelle sue conclusioni. Ed è soltanto in questo che risiede la sua originalità.
Quanto ai fatti reali citati da Carlo Falconi, non c'era affatto bisogno di andare a cercarli negli archivî della Santa Sede: tutti li conoscevano bene, dato che li avevano trovati nella stampa, prima che ce li rivelasse Falconi. Si tratta, insomma, di segreti di Pulcinella. Nessuno, per di più, ha mai sostenuto che Pio XII li ignorasse. Ciò che è degno di nota, qui, è il fatto che il nostro autore, pur essendo abbastanza onesto da convenire (cosa che i suoi predecessori spesso non hanno fatto) che tali fatti provocarono, tutti, delle proteste diplomatiche da parte del Vaticano, tuttavia conclude con un titolo sensazionale: «Le vere ragioni del silenzio di Pio XII»36.
Esponendo, nel prosieguo, queste «vere ragioni», perché nessuno si inganni sulle sue intenzioni, Carlo Falconi ci previene subito, asserendo al contempo che «Pio XII aveva un coraggio straordinario», che era «di temperamento timido e riservato» e infine che «non seppe mai osare».
Dopo avere posto in principio questa idea, caratterizzata da una logica così strana, egli soggiunge ancora che «i motivi avanzati ne Il Vicario sono contrarî alla realtà», ma ecco quelli che egli ha trovato:
– «la preoccupazione di Pio XII di assicurare alla Chiesa, in tutta l'Europa, la possibilità di sopravvivere, e di farlo con forze sufficienti per influire in modo decisivo, nel dopoguerra, sul futuro del continente e del mondo intero»;
– «la sua convinzione che l'indebolimento del nazismo sarebbe stato utile al comunismo, soprattutto considerando la cieca fiducia che riponevano nei suoi capi i capi degli alleati»;
– la sua germanofilia [sulla quale, egli dice,] si è scritto molto, e in modo estremamente persuasivo».
In virtù di questo, non si vede che cosa distingua questa tesi da quella di Rolf Hochhuth, di Saul Fiedländer, di Jacques Nobécourt e compagnia, i cui capi d'accusa sono precisamente, pressoché alla lettera, gli stessi di cui sopra.
Dunque, di Carlo Falconi non si dirà più che una sola parola, che vale per tutti coloro i quali lo hanno preceduto, come per tutti coloro che lo seguiranno – perché ne verranno ancora, non dubitiamone! –: una parola del seguente tenore.
Se accuse del genere, sempre le stesse, sostenute da procedimenti simili, anch'essi sempre uguali, possono continuare ad essere messe in circolazione e a catturare l'attenzione del pubblico, è soltanto perché i difensori di Pio XII non hanno avuto il coraggio di elevare il dibattito al di sopra di questa questione minore: quello che egli sapesse o non sapesse, ragion per cui hanno permesso ai loro avversarî di farne «la chiave del problema» (Carlo Falconi dixit) della sua condotta. Ora, si sa che la chiave di questo problema non consiste affatto in questo, bensì nella sua teoria della Pace – del ritorno alla Pace quando c'è la guerra –, esposta d'altronde in modo molto brillante e molto a proposito in un libro che è stato appena pubblicato37 e che alcuni di quanti hanno preso le difese di Pio XII, per quanto si siano finora rivelati superficiali, potrebbero forse leggere non senza profitto.
NOTE AL CAPITOLO III
1. William L. Shirer, Le IIIe Reich, des origines à la chute [Il Terzo Reich, dalle origini alla caduta], op. cit.
2. Le Procès Eichmann ou Les Vainqueurs incorrigibles [Il Processo Eichmann o I vincitori incorreggibili], Les Sept Couleurs.
3. Sottolineato da me, P[aul] R[assinier].
4. William L. Shirer, op. cit., tomo I dell'edizione francese, pp. 175-176.
5. Idem, p. 185.
6. William L. Shirer, op. cit., tomo I dell'edizione francese, pp. 2-59.
7. Die deutschen Briefe [Le lettere tedesche], op. cit.
8. Cfr. qui infra, appendice I.
9. Cfr. qui infra, appendice II.
10. Citato in base a William L. Shirer, op. cit., p. 219.
11. Citato in base a La Documentation Catholique, 8 aprile 1933.
12. Idem, 8 aprile 1933.
13. Idem, 3 aprile 1933.
14. Cfr. supra, cap. I, p. 67 ss.
15. Op. cit., p. 258.
16. «Die Mitglieder des Pfarrernotbundes stehen unbedingt zu dem Führer Adolf Hitler» [I membri dell’associazione delle parrocchie sono incondizionatamente dalla parte del Fuhrer Adolf Hitler] (Deutsche National Zeitung, 16 aprile 1963).
17. «In dieser für Volk und Vaterland entscheidenden Stünde grüssen wir unseren Führer (...) geloben wir treue Gefolgschaft und fürbittendes Gedenken» (op. cit.). [In questo momento decisivo per il popolo e per la patria, noi salutiamo il nostro Fuhrer...]
18. «... wir brauchen Ihnen nicht zu versichern wie danken und wir Ihnen sind, daß Sie unser aüsserlich und innerlich zersetztes Volk vom Abgrund weggerrissen und zu neuer Entfaltung seiner Kräfte freigemacht haben» (op. cit.) [Non abbiamo bisogno di assicurarLa di come La ringraziamo e siamo a lei devoti, poiché Ella risolleva dall’abisso il nostro popolo, minato dall’esterno e all’interno, ed ha affrancato le sue forze per un nuovo sviluppo].
19. Op. cit., p. 260.
20. Citato in base a William L. Shirer, op. cit., p. 261.
21. Vom U-Boot zur Kanzel (dal sottomarino all'altare: il pastore Martin Niemöller era stato comandante di sottomarini durante la Prima Guerra Mondiale), Berlin, Warneck 1934. Questo libro fu un vero bestseller nella Germania nazionalsocialista, e conobbe numerose edizioni. A fargli pubblicità era la stampa nazional-socialista.
22. Deutsche National Zeitung, 16 aprile 1963. Testo originale: «Da ich bislang vergeblich auf meine Einberufung zum Dienst gewartet habe, melde ich mich nunmehr ausdrücklich als Freiwilliger. Ich bin 47 Jahre alt, körperlich und geistig völlig leistungsfähig und bitte um irgendeine Verwendung im Kriegsdienst».
23. W.L. Shirer, op. cit., p. 262.
24. Idem, p. 258.
25. Cfr. supra, p. 190 ss. le decisioni delle conferenze successive di Fulda.
26. In cifre arrotondate, la popolazione della Germania può essere valutata così sul piano religioso: totale = 53 milioni di abitanti; protestanti = 27-28 milioni; cattolici: 3-24 milioni; indifferenti e diversi = il resto.
27. Svegliatevi (organo dei Testimoni di Geova), 22 luglio 1964, p. 19. Il riferimento dato è: Rivelazione [cioè Apocalissi], 18, 2. 4. 5.
28. A questo proposito sarà opportuno riferirsi anche a La psychologie des foules [La psicologia dei pazzi], di Bouglé.
29. A Roma piazzano bombe sotto le finestre del Papa e nessuno di questi buoni apostoli che si indignavano – d'altronde a giusto titolo – dei boli maleodoranti dell'Ateneo a Parigi ha protestato. Indubbiamente è perché le bombe rispondono meglio alla questione rispetto ai boli maleodoranti (!!...).
30. 31 maggio 1965.
31. Edizioni Du Rocher.
32. Resoconto dei dibattiti del processo dei grandi criminali di guerra, 19 giugno 1946, tomo XVI, p. 438.
33. Idem, p. 439.
34. Idem, p. 354.
35.Cfr. supra. Carlo Falconi, ciò non di meno, utilizza il Cardinale per dimostrare che il Papa «sapeva».
36. Candide, 7 giugno 1965.
37. Théorie de la Paix selon Pie XII [Teoria della pace secondo Pio XII], per opera di G. Herberichs, ed. Pedone.
APPENDICI DOCUMENTARIE
APPENDICE I
QUELLO CHE SI PENSAVA GENERALMENTE DI PIO XII FINO A ROLF HOCHUTH
I. LE POPULAIRE (3.III.1939)
Scacco a Mussolini
Il Card. Pacelli, contro cui il conte Ciano aveva posto il veto, è stato eletto dopo la prima giornata del Conclave. Per sottolineare la continuità della sua politica di pace e di resistenza al razzismo, prende il nome di Pio XII.
Sotto questo titolo e questi due sottotitoli significativi di un'opinione ben consolidata e di una soddisfazione non mascherata, si poteva leggere sul giornale Le Populaire del 3 marzo 1939, e in prima pagina, su tre colonne, un articolo di Pierre Brossolette, il quale si rallegrava che, in un momento in cui la pace era così gravemente compromessa, il Conclave, eleggendo il Card. Pacelli futuro Pio XII, avesse «apportato alla salvaguardia della pace un contributo pressoché inestimabile»:
«Se l'unico dramma che si sta giocando in questo momento non fosse quello della pace, avremmo potuto assistere con indifferenza all'elezione del Papa. Liberale o autoritaria, sappiamo che la Chiesa è sempre la Chiesa, che la sua fede la oppone alla libertà degli spiriti, che rari sono i casi in cui la sua prassi non l'abbia opposta alla libertà degli uomini. Chissà se un domani [qui è riprodotto un facsimile dell'articolo con cui, sotto la firma di Pierre Brossolette, Le Populaire (organo del Partito socialista francese) annunciava, il 3 marzo 1939, l'elezione di Pio XII] il socialismo dovrà farne esperienza, come l' ha fatta la Repubblica per tanto tempo e così amaramente?
Tuttavia, non è entro questa battaglia che si inseriva la designazione del successore di Pio XI. "Pace! Pace!", aveva mormorato, morendo, il defunto Pontefice. Non si trattava di una voce pia e vana: la gravità della minaccia che i dittatori mantengono sospesa sul mondo aveva turbato i suoi ultimi anni. Indubbiamente, il colpo inferto dai regimi totalitarî agli interessi spirituali e materiali della Chiesa aveva sollecitato in lui questa chiara intelligenza del pericolo, ma che importa? Quello che rimane fermo è che, non appena ebbe presentito il rischio, la sua ardente pietà lo indusse ad ergersi con tutte le sue forze contro di esso, e, nel corso di quegli ultimi mesi, la tenace azione del papato, così come la sua condanna solenne del fanatismo e della violenza, ha arrecato alla salvaguardia della pace un contributo pressoché inestimabile».
Pierre Brossolette aveva molto temuto:
«La Chiesa, tuttavia, avrebbe fatto propria la perspicacia del suo ultimo pastore? Tra i successori di Pio XI che ci si poteva immaginare, avrebbe scelto colui che sembrava il più capace di proseguire la sua politica, dopo esserne stato lo strumento più attivo e il più illustre? Gli intrighi, le trattative, la pressione esercitata dal governo fascista su un collegio di cardinali in maggioranza italiani non sarebbero stati sufficienti ad impedire che sul Card. Pacelli cadesse una scelta plebiscitaria, in favore dell'atteggiamento fermo che era stato quello di Pio XI? Tutto il senso del Conclave doveva consistere nella risposta a questi interrogativi.
«Si sa, comunque, che il Card. Pacelli era sfavorito dalla sua stessa qualità di Segretario di Stato del Papa defunto. La Chiesa non ama le dinastie. Un solido pregiudizio le impedisce, solitamente, di dare a un Papa come successore colui che è stato il suo più stretto collaboratore. Dopo l'elezione di Leone XIII, né il Card. Rampolla, né il Card. Merry del Val, né il Card. Gasparri erano riusciti a vincere questo ostacolo. Il Segretario di Stato di Pio XI è stato più fortunato: la tradizione ha ceduto in suo favore, davanti alla necessità di affermare con un gesto clamoroso la continuità di una politica che non intende accordare alla violenza il diritto né di turbare la pace né di dettarla».
Malgrado le suddette considerazioni, che sfavorivano il Card. Pacelli, «la cui ardente pietà lo aveva portato ad ergersi contro il pericolo rappresentato dai regimi totalitarî», malgrado «gli intrighi e la pressione» esercitata, la risposta del Conclave era stata...
«... strepitosa. A dispetto del veto formulato dal Telegrafo (o forse a causa di questo veto), a dispetto della campagna perseverante condotta negli ambienti fascisti contro l'elezione di un papa «politico», il Card. Pacelli è stato eletto al soglio di san Pietro. Evento pressoché unico negli annali della Chiesa, la decisione è stata presa dopo meno di una giornata di deliberazioni, soltanto alla terza tornata elettorale.
Un poco umiliati da questo scacco, a partire da ieri sera gli ambienti fascisti hanno incominciato a insinuare di avere mantenuto, in fin dei conti, in favore del Card. Pacelli una neutralità benevola, e non occorrerebbe fare molta pressione su di loro per far loro dire che essi contavano molto sul nuovo Pontefice, dato che, dopo tutto, è più facile intendersi con un "politico" che con un "santo". Non spetta certo a noi disingannarli, quantunque siamo convinti che l'azione dei "politici", se è forse portata a fare colpo in misura minore rispetto a quella dei "santi", tuttavia su quest'ultima ha almeno il vantaggio di esplicarsi più utilmente, poiché si realizza prima. Non abbiamo bisogno che le dittature vengano fulminate il giorno in cui esse avranno dichiarato la guerra. Quello che richiediamo ardentemente è di essere aiutati ad impedire loro di scatenare questa guerra.
«Ora, nel mondo intero vige la convinzione che il successore di Pio XI contribuirà a questo scopo con uno zelo altrettanto ardente quanto quello dello stesso Pio XI. Il nuovo Papa, d'altronde, ha rinforzato quesa convinzione scegliendosi quale nome quello che aveva portato il suo immediato predecessore.
«Possa solo capirlo Mussolini! Possa capirlo Hitler, insieme con lui! Possano comprendere che, nella persona del suo nuovo capo come in quella dei suoi Cardinali, il cattolicesimo si è appena pronunciato senza appello contro le dittature e contro la politica della minaccia, della violenza e della guerra. E possano fermarla in tempo, pensando che nulla al mondo, che si chiami Hitler o Mussolini, può vincere una partita nella quale si troverebbe contro al contempo i popoli e il Papa!».
Pierre Brossolette
(Le Populaire, 3 marzo 1939, p. 1)
***
I. L'HUMANITÉ (3.III.1939)
Rapida elezione del Cardinal Pacelli
Pio XII come successore di Pio XI
L'insolente veto posto contro di lui dai governi fascisti di Berlino e di Roma ha ricevuto la sua risposta.
Questo titolo e questo sottotitolo in prima pagina, su tre colonne, sul giornale L'Humanité del 3 marzo 1939 non sono meno significativi e non attestano minore soddisfazione di quelli de Le Populaire dello stesso giorno. L'autore dell'articolo, Pierre-Laurent Darnar, è ancora più categorico di Pierre Brossolette: «È un Papa antirazzista, amico della libertà di coscienza e rispettoso della dignità umana» quello che egli ci presenta nella persona del Card. Pacelli divenuto Pio XII.
«Con il suo nome, non intende riprendere l'azione di colui del quale fu il più stretto collaboratore, il Segretario di Stato di tutti questi ultimi anni?». Infatti, non si poteva separare il Card. Pacelli dal Papa, quando si trattava di condannare l'assurdità del razzismo, la persecuzione hitleriana, gli attentati del fascismo contro la libertà di coscienza e la dignità umana.
[A questo punto è riprodotto un facsimile dell'articolo con il quale, sotto la firma di P.L. Darnar, L'Humanité (organo del Partito comunista francese) annunciava l'elezione di Pio XII il 3 marzo 1939.]
«Ricevuto dal governo socialista del Fronte Popolare con grandi onori nel 1937, il Segretario di Stato di ieri – il Papa di oggi – inclina all'avvicinamento alle democrazie per la difesa comune dei beni più alti degli uomini liberi minacciati o perseguitati.
«I comunisti francesi – il cui capo Maurice Thorez aprì la sua mano tesa, divenuta il simbolo della denominazione stessa di una politica di unione a partire dall'aprile 1936 – come avrebbero potuto non apprezzare un appoggio recato, secondo le parole di omaggio del Presidente Herriot, alla causa della pace e della libertà?
«L'elezione compiuta subito il primo giorno del Conclave e la scelta appuntata immediatamente sul Card. Pacelli acquistano ancora più senso quando si sa quali insolenti veti Hitler e Mussolini avessero posto contro la sua persona e contro quanto essa significa per loro.
«"Troppo amico della Francia": così lo designava con astio il Telegrafo del conte Ciano due giorni dopo la morte di Pio XI...».
I governi fascisti erano ostili all'elezione del Card. Pacelli non meno di quanto quest'ultimo non fosse ostile a loro:
«... I governi fascisti avrebbero voluto dare un taglio netto alla tendenza del Vaticano, mettere le mani sul Papato, ridurlo ai loro ordini, nella speranza di piazzarvi, in mancanza di una creatura propria, almeno qualcuno che fosse debole, timoroso e docile.
«Hanno trovato la risposta che meritavano.
«E questa risposta è tanto più sferzante in quanto i cardinali italiani sono la maggioranza e, per eleggere il Papa interdetto da Mussolini, un buon numero di loro ha dovuto dare immediatamente il proprio voto.
«Già Berlino e Roma fanno discendere il loro furore. Pioveranno sicuramente oltraggi su questo "giudeo-marxista"! Come se ci fosse una collusione di dottrine quando gli uomini semplicemente si uniscono per la loro salvaguardia e quando la libertà di coscienza cerca asilo presso la libertà tout court.
«Ma già Pio XI era "il Papa di Mosca" per la Gestapo! L'elezione di Pio XII sarà indubbiamente "una manovra bolscevica"!
«Poveracci! Questo avvenimento è ben altrimenti profondo e significativo!».
P.-L. Darnar.
(L'Humanité, 3 marzo 1939, p. 1)
Come se l'articolo di P.L. Darnar non bastasse da solo, nella terza pagina dello stesso numero de L'Humanité Gabriel Péri rincarava ulteriormente la dose sotto il titolo La reazione hitleriana.
La reazione hitleriana
«Berlino, 2 marzo. L'elezione del Card. Pacelli ha provocato una grandissima agitazione negli ambienti politici tedeschi, che sostengono che i cardinali "hanno compiuto un gesto insolito elevando un 'politico di professione' alla carica suprema del mondo cattolico".
«È noto che il nuovo Papa è sempre stato molto attaccato dai nazisti.
«In effetti, negli ambienti diplomatici stranieri di Berlino egli ha giocato un ruolo molto importante nel dopoguerra, ed è lui che ha negoziato e firmato il nuovo Concordato tra la Santa Sede e la Germania dopo la rivoluzione del 1918...».
Salvare il fascismo o salvare la pace...
«... è un altro fatto che il Conclave ha appena eletto colui che è stato il collaboratore più stretto di Pio XI, e questo a dispetto dei consigli di von Bergen e dei veti del Telegrafo».
Gabriel Péri
(L'Humanité, 3 marzo 1939, p. 3)
***
APPENDICE II
PIO XII PARLA IN PRIMA PERSONA
Lettera di Pio XII a Mons. Preysing, arcivescovo di Berlino
Il 30 aprile 1943 Pio XII indirizzava a Mons. Preysing, arcivescovo di Berlino, la seguente lettera:
«Vogliamo innanzitutto, venerabile Fratello, ringraziarVi degli augurî che Ci avete indirizzato, personalmente o a nome del Vostro clero e della Vostra diocesi, in diverse circostanze, e in particolare in dicembre, per le feste di fine anno e per l'anniversario della Nostra elezione al sovrano pontificato. Sappiamo da che cuore fedele e colmo di fede provengano. Vi ringraziamo in particolare, Voi e i Vostri fedeli, delle Vostre sante preghiere. Nella Vostra lettera dello scorso 27 febbraio Ci assicurate delle Vostre insistenti preghiere, nella chiara consapevolezza che "raramente Dio ha imposto un carico così pesante sulle spalle di un Papa per l'inizio del suo pontificato, con questa tremenda guerra mondiale e tutti i mali e i peccati che ne sono la conseguenza". Certamente, occorre sempre dar prova di prudenza quando si vuole confrontare il presente al passato, e Noi non desideriamo in alcun modo sottovalutare le preoccupazioni e le miserie che hanno gravato sulle spalle dei Nostri predecessori. Tuttavia, la sincera volontà del Papa di porsi, in totale imparzialità, al cospetto di tutte le potenze di questo mondo, nel vasto e sconvolgente conflitto che le oppone, e al contempo di proteggere con ogni cura la Santa Chiesa dalle sue conseguenze, ha raramente costituito per la Santa Sede una prova così pesante come adesso. Ma ciò che preoccupa maggiormente sono "tutti i mali e i peccati che sono conseguenza della guerra", secondo la Vostra giusta espressione. La crudeltà della tecnica della guerra, che si sviluppa in modo sfrenato, rende insopportabile la prospettiva che questo massacro reciproco possa protrarsi ancora per lungo tempo. Giorno dopo giorno veniamo a sapere di atti disumani che non hanno nulla a che vedere con le reali necessità della guerra, e che ci riempiono di sgomento e di terrore. Solo il ricorso alla preghiera presso Dio, che tutto vede, presso il tabernacolo del Redentore, fa trovare la forza morale che permette di superare psichicamente l'impressione causata da tali atti».
L'atteggiamento nazista di fronte agli sforzi del Papa vòlti a rendere la guerra meno disumana
«Anche Voi avete dovuto conoscere l'esperienza terribile della guerra sotto questa forma così dolorosa costituita dai bombardamenti aerei. Ancora una volta, diciamo a Voi e ai Vostri diocesani quanto deploriamo, insieme con voi, la distruzione della cattedrale di Santa Hedwige in seguito all'ultimo raid su Berlino. I fedeli devono sapere che ogni giorno abbiamo una preghiera e una benedizione speciale per coloro che, in quel giorno, in un campo o in un altro, cadono vittime dei bombardamenti aerei. Noi facciamo tutto quello che è in Nostro potere per alleviare i mali della guerra, e Ci adoperiamo incessantemente a che la popolazione civile sia risparmiata il più possibile, senza lasciarci scoraggiare dalle esigue possibilità di successo. Non è colpa Nostra se la totale equità davanti ai problemi posti dalla guerra Ci obbliga, ora che è la Germania quella che maggiormente deve soffrire per gli attacchi aerei, a intraprendere una mediazione discreta, indipendentemente dal fatto che le autorità tedesche, in conseguenza della presenza a Roma dell'arcivescovo di New York, o piuttosto in conseguenza delle voci corse a proposito della sua visita a Roma, abbiano fatto sapere pubblicamente che la Germania non era interessata agli sforzi del Papa finalizzati a rendere la guerra più umana. Nelle Nostre iniziative vòlte a rendere la guerra più umana, Noi abbiamo pari sollecitudine per tutte le vittime della guerra, per tutti coloro che soffrono materialmente o moralmente a causa di essa. Queste persone, in Germania, come pure nel resto del mondo, ripongono la loro speranza nel Nostro aiuto.
«Noi avremmo desiderato vivamente che il Nostro servizio di notizie dei prigionieri potesse giovare alla Germania come agli altri Paesi. È in seguito a domande di intervento rivolte alla Santa Sede, e alle quali molto spesso altre autorità non avrebbero potuto rispondere, che questo servizio si è sviluppato da sé per divenire quello che è oggi. Insieme a tutte le nostre opere di guerra – e di ciò renderemo grazie a Dio –, questo servizio ha potuto fare del bene, molto. Non arriviamo a comprendere quale motivo abbia potuto indurre le autorità tedesche a interdire alle opere pontificie l'accesso al territorio tedesco. Questa interdizione ha fatto sentire i proprî effetti soprattutto quando si è trattato di una grande quantità di notizie relative a prigionieri tedeschi, che sono state indirizzate al Nostro servizio per essere trasmesse alle famiglie dei prigionieri, in Germania. Siamo finalmente riusciti a trasmetterle, ma per vie indirette, e con le più grandi difficoltà. A partire dall'autunno del 1942, giungono dalla Germania, in numero sempre crescente, domande relative a dispersi o a prigionieri che erano sul fronte russo, soprattutto a Stalingrado. Queste pratiche provocano un'angoscia sconvolgente. Per parte Nostra, faremo tutto il possibile per avere notizie dei prigionieri che sono in Russia, ma, sfortunatamente, fino ad oggi non abbiamo ottenuto nessun risultato».
Le lettere pastorali dei vescovi tedeschi
«Vi siamo riconoscenti, venerabile Fratello, delle parole chiare e franche che, in diverse circostanze, avete indirizzato ai Vostri fedeli, e attraverso di essi al pubblico. Pensiamo in particolare, fra le altre, alla Vostra dichiarazione del 28 giugno 1942 sulla concezione cristiana del diritto; a quella della domenica dei morti dello scorso novembre sul diritto di ogni essere umano alla vita e all'amore; pensiamo specialmente alla Vostra lettera pastorale dell'Avvento, che è stata parimenti adottata nelle province ecclesiastiche tedesche dell'Ovest, sui diritti sovrani di Dio, i diritti dell'individuo e della famiglia.
«Non si venga a pretendere che le coraggiose prese di posizione dei vescovi nuocciano alla Vostra patria davanti all'opinione mondiale, quando questi vescovi rivendicano, rispetto ai loro governi, i diritti della religione, della Chiesa, della persona umana, in favore di coloro che sono privi di difesa e oppressi dalla forza pubblica, sia che le vittime siano figli della Chiesa o che non lo siano. Lungi dal compromettere la Vostra patria, questa coraggiosa difesa del diritto e dell'umanità varrà, ad essa e a voi, il rispetto dell'opinione mondiale, e potrà, in futuro, rivelarsi benefica.
«In quanto Pastore supremo dei fedeli, Noi abbiamo la preoccupazione che le convinzioni e la fede dei Vostri cattolici rimangano non contaminate dal compromesso con principî e atti che sono contrarî alla legge di Dio e allo spirito di Cristo, e che anzi addirittura deridono questa legge e questo spirito. Per portare un esempio recente, fu per Noi una consolazione apprendere che i cattolici, e in particolare quelli di Berlino, avevano dato prova di grande carità davanti alle sofferenze dei "non-ariani". Sia questa per Noi l'occasione di esprimere la Nostra paterna riconoscenza e la Nostra profonda simpatia a Mons. Lichtenberger, che si trova in prigione.
«Ma ci fa male il solo pensiero che progressivamente, e forse inconsciamente, tali concezioni possano penetrare nella mentalità dei cattolici, specialmente dei giovani, in forza dell'abitudine e di un'incessante propaganda. Voi sapete che la Santa Sede ha considerato le questioni liturgiche che si sono poste presso di Voi come sufficientemente importanti perché se ne preoccupasse. Riconosciamo, tuttavia, di attribuire un'importanza infinitamente maggiore a che le coscienze cristiane siano protette contro tutti questi veleni che le minacciano. A che servirebbe rendere più bella la liturgia della Chiesa, se, fuori dalla chiesa, il pensiero e gli atti dei fedeli divenissero, nella loro vita, estranei alla legge e all'amore di Cristo?».
Le ragioni della riserva del Papa
«Per quanto concerne le dichiarazioni episcopali, lasciamo ai pastori che esercitano sul posto la loro funzione la cura di valutare se, e in quale misura, il pericolo di rappresaglie e di pressioni, e forse anche di altre circostanze dovute alla lunghezza e alla psicologia della guerra, consiglino la riserva – malgrado le ragioni che ci sarebbero di intervenire – al fine di evitare mali maggiori. È uno dei motivi per i quali Noi stessi ci imponiamo dei limiti nelle Nostre dichiarazioni. L'esperienza che abbiamo fatto nel 1942, lasciando riprodurre liberamente, ad uso dei fedeli, alcuni documenti pontifici, giustifica il nostro comportamento, per quanto possiamo vedere.
«Vi abbiamo parlato a lungo di queste questioni, non perché Voi abbiate bisogno della Nostra esortazione per agire, ma perché, da una parte, conosciamo bene il Vostro coraggio e la Vostra grande attenzione per l'onore della Santa Chiesa, e, dall'altra parte, perché sappiamo che voi giudicate la situazione con prudenza e sangue freddo. Per il rappresentante di Cristo, il sentiero sul quale deve camminare per mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze contraddittorie della sua carica pastorale è sempre più disagevole e scosceso.
«Pensiamo alle misure prese contro la Chiesa, delle quali Ci avete informato nella Vostra lettera: confische di beni ecclesiastici, sequestro del Vostro seminario di Hedwigshöhe, limitazione o interdizione dell'apostolato presso alcuni Polacchi deportati in Germania, o dell'insegnamento religioso ai bambini polacchi; proibizione di celebrare matrimonî tra Polacchi, etc. Tutto questo, sempre e ancora, non è che una parte di un vasto piano che mira a soffocare la vita della Chiesa sul territorio in cui si esercita l'autorità tedesca. La più duramente colpita, come sapete, è la Chiesa cattolica della Warthegau. Noi soffriamo vivamente per l'angoscia indescrivibile dei fedeli di questa regione, tanto più che tutti i tentativi di intervento in loro favore presso il governo si sono scontrati con un rifiuto brutale. Le considerazioni di cui abbiamo parlato in precedenza – e, nel caso particolare della Warthegau, il timore che perfino quel poco di vita pastorale che vi rimane sia minacciato – Ci hanno finora trattenuto dal denunciare apertamente la situazione imposta alla Chiesa in quei luoghi.
«Siamo relativamente bene informati sulla situazione e sulla sorte dei sacerdoti che si trovano nei campi di concentramento, tra i quali i Polacchi sono di gran lunga i più numerosi. Se in qualche modo se ne presentasse la possibilità, sarebbe opportuno far sapere a ogni sacerdote e ai loro compagni di prigionia che essi sono l'oggetto della Nostra più profonda simpatia, che in questo periodo di sofferenze e di crudeltà pochi destini sono altrettanto vicini al nostro cuore quanto il loro, e che ogni giorno preghiamo molto per loro.
«Abbiamo davanti a Noi il testo della richiesta indirizzata dall'episcopato tedesco al governo del Reich. Ora, potete vedere da Voi le scarse possibilità di successo che può avere una supplica confidenziale indirizzata al governo. Tuttavia, in ogni caso, questo documento servirà a giustificare l'episcopato davanti al mondo, dopo la guerra».
L'azione della Santa Sede in favore degli Ebrei
«Per i non-ariani cattolici, così come per quelli di confessione ebraica, la Santa Sede ha esercitato, nella misura delle sue responsabilità, un'azione caritatevole sul piano materiale e morale. Da parte degli organismi di esecuzione delle Nostre opere di soccorso, questa azione ha richiesto molta pazienza e disinteresse per rispondere all'attesa – si potrebbe anche dire: alle esigenze – di quanti richiedevano aiuto, e anche per venire a capo delle difficoltà diplomatiche che insorgevano. Non parliamo delle somme ingenti che abbiamo dovuto versare, in valuta americana, per il trasporto navale degli emigranti. Abbiamo donato volentieri tali somme, poiché queste persone si trovavano nella sventura. Sono state donate per l'amor di Dio, e abbiamo fatto bene a non contare sulla riconoscenza quaggiù. Tuttavia, alcune organizzazioni ebraiche hanno ringraziato calorosamente la Santa Sede per le sue operazioni di salvataggio.
«Nel Nostro Messaggio di Natale abbiamo detto una parola su quello che si sta facendo attualmente contro i non-ariani nei territorî sottomessi all'autorità tedesca. Era una parola breve, ma è stata ben compresa. Che il Nostro amore e la Nostra sollecitudine di Padre siano oggi maggiori verso i cattolici non- ariani o semi-ariani, i figli della Chiesa come anche gli altri, quando la loro esistenza esteriore è distrutta ed essi conoscono l'angoscia morale, non c'è nemmeno bisogno di dirlo. Disgraziatamente, nella situazione atuale, non possiamo arrecare loro altro soccorso efficace all'infuori della Nostra preghiera. Siamo comunque determinati, secondo quanto indicheranno o permetteranno le circostanze, a levare nuovamente la Nostra voce in loro favore».
L'educazione nazista
«Abbiamo udito in questi ultimi giorni notizie molto consolanti riguardo alla fedeltà incrollabile dei cattolici tedeschi alla loro fede e alla loro Chiesa. Al di là di tutti i motivi di inquietudine e di speranza, l'unico grave interrogativo che per Noi rimane, per quanto concerne il futuro, è questo: dopo essere stata completamente sottomessa all'influsso e all'educazione di un sistema chiuso, estraneo al Cristianesimo, emanante dall'organizzazione del partito e dalle prescrizioni già note del futuro Volksgesetzbuch [codice civile], la gioventù cattolica, la generazione emergente, come potrà mantenere e trasmettere intatta la sua fede cattolica? Troviamo la Nostra consolazione soltanto in questa promessa della Scrittura: "Dio è fedele; non permetterà che voi siate tentati al di là delle vostre forze: insieme con la tentazione, vi darà anche il mezzo di uscirne e la forza di sopportarla" [1Cor 10, 13].
«Quale pegno di questo "mezzo di uscirne", "sotto il segno della Croce", come dite nella Vostra lettera pastorale per l'ultima "Domenica del Papa", diamo a Voi, venerabile Fratello, ai Vostri collaboratori nell'apostolato e a tutti i Vostri diocesani, con affetto paterno e di tutto cuore, la Benedizione apostolica implorata»1.
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APPENDICE III
I PRINCIPALI ARGOMENTI
DEI DIFENSORI DI PIO XII
Maïmonide. Bulletin de l'Athénée israélite de Bruxelles [«Bollettino dell'Ateneo Israelita di Bruxelles»], n° 2, giugno 1963
I fatti furono tali che, dal 1937, i giornali tedeschi potevano scrivere: «Pio XI era ebreo per metà, il Card. Pacelli (Pio XII) lo è interamente».
Édith MUTZ.
Dr. SAFRAN, rabbino capo di Romania:
La mediazione del Papa «salvò gli Ebrei dal disastro nel momento in cui la deportazione dei Rumeni era decisa». Maïmonide, loc. cit.
Paul KLETZKI condusse a Roma, il 26 maggio 1955, novantaquattro musicisti ebrei, originarî di quattordici diversi Paesi, i quali vennero ad eseguire la IX Sinfonia di Beethoven
«in riconoscenza dell'opera umanitaria grandiosa compiuta da Sua Santità per salvare un grande numero di Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale».
PINCHAS LAPIDE, console d'Israele a Milano ai tempi di Pio XII
«Il Papa personalmente, la Santa Sede, i Nunzî apostolici e tutta la Chiesa cattolica hanno salvato da 150.000 a 400.000 Ebrei da morte certa. Quando fui ricevuto a Venezia da Mons. Roncalli, che doveva divenire Giovanni XXIII, e gli espressi la riconoscenza del mio Paese per la sua azione in favore degli Ebrei, espletata quando ancora era Nunzio a Istanbul, egli mi interruppe a più riprese per ricordarmi che ogni volta aveva agito su preciso ordine di Pio XII. Non riesco a capire, d'altra parte, come si possa accusare oggi Pio XII, mentre per tanti anni, qui in Israele, ci si è compiaciuti di rendergli omaggio. All'indomani della liberazione di Roma, ho fatto parte di una delegazione di soldati della brigata palestinese che è stata ricevuta dal Papa e gli ha espresso la gratitudine dell'Agenzia ebraica, che era l'organismo dirigente del Movimento Sionista mondiale, per quello che aveva fatto in favore degli Ebrei». Pinchas Lapide pone in evidenza che, il giorno della morte di Pio XII, Golda Meir, ministro degli Esteri d'Israele, aveva ringraziato cordialmente il Pontefice «poiché la sua voce si era levata in favore degli Ebrei». «Con la parola "voce"», prosegue Lapide, «la Meir intendeva sicuramente riferirsi alle numerose mediazioni del Papa in favore degli Ebrei, e considerava questa voce molto più preziosa di una protesta pubblica. Una cosa è certa: molti capi di Stato e principi della Chiesa – anche di altre Chiese cristiane –, che pure si sarebbero trovati nella condizione di aiutare il Giudaismo con parole e con azioni, hanno fatto molto meno di Pio XII contro «la crocifissione di innumerevoli fratelli del Signore».
Le Monde, 3 gennaio1964.
«Si deplora il fatto che il Papa non parli. Ma non può parlare; se parlasse, sarebbe peggio». Citando queste parole pronunciate da Pio XII durante un colloquio avuto con lui, il Padre Paolo Dezza, ex rettore dell'Università Gregoriana, segnala che l'arcivescovo di Cracovia, il Card. Adam Sapieha, e altri vescovi polacchi fecero sapere al Santo Padre che sarebbe stato meglio non pubblicare le lettere che egli aveva inviato loro per denunciare le atrocità naziste, e questo – dicevano – per non aggravare la sorte delle vittime. Il religioso ricorda quindi che il rabbino capo di Roma si fece battezzare, dopo la liberazione della Città eterna, in segno di riconoscenza per quello che il Papa aveva fatto per i suoi correligionarî. Egli osserva che fu Zolli, dopo aver ricevuto il battesimo, a sollecitare da Pio XII l'eliminazione dell'espressione «perfidi» che qualificava i Giudei nella liturgia della Settimana Santa.
I giornali dal 2 al 5 gennaio 1964
IL GRANDE RABBINO ULLMANN, dopo la Liberazione, fa visita al Card. Van Roey per ringraziarlo di averlo salvato personalmente dalla deportazione, e anche per tutto quello che ha fatto in favore degli Ebrei in Olanda.
IN SLOVACCHIA, le «pressioni» della Santa Sede dopo il 1941 ottengono «l'arresto delle deportazioni degli Ebrei nell'estate del 1943, e la sopravvivenza di un quarto del loro numero complessivo».
IL RABBINO CAPO DI ROMA, ISRAEL ZOLLI, si è convertito e si è fatto battezzare con il nome di Eugenio, lo stesso di Pio XII, per esprimere la sua gratitudine al Papa. «Il 29 settembre 1945 si vide entrare in Vaticano un gruppo di Ebrei con il volto segnato dalla sofferenza: 70 uomini scampati dai forni crematorî venivano a ringraziare Pio XII del suo comportamento durante la guerra».
Maïmonide, giugno 1963
IL PROCURATORE GENERALE ROBERT M.W. KEMPNER DICHIARA:
Robert M.W. Kempner, Israelita tedesco ed ex procuratore generale americano al processo di Norimberga, ha fatto le seguenti dichiarazioni circa la pièce teatrale di Rolf Hochhuth Der Stellvertreter [N.d.t.: Il Vicario]. Egli si fonda sia su documenti ufficiali sia su conversazioni private:
«1° Soltanto una rapida disfatta militare del regime hitleriano, e non una protesta di Pio XII, il quale non poteva appoggiarsi su forze armate, avrebbe potuto salvare dallo sterminio gli Ebrei d'Europa risparmiati fino ad allora. Questo, il Papa lo sapeva molto bene, come lo sapevano anche Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill. Se Pio XII pervenne a questa convinzione è perché era notevolmente informato ed era al corrente di certi fatti, dei quali citeremo qui soltanto qualcuno.
«2° Nel 1942 e 1943, il Presidente Roosevelt, i governi in esilio e la "dichiarazione di Mosca" avevano ufficialmente minacciato di punizione gli assassini degli Ebrei e altri criminali. Ma questa minaccia era rimasta senza effetto. Il regime nazista non si lasciò intimidire, e, come abbiamo appreso a Norimberga, i suoi funzionarî scrissero in margine alla dichiarazione note del tipo: "Mi sento molto onorato", o "Da archiviare".
«3° Sfortunatamente, il Papa aveva registrato soltanto risultati scoraggianti per quanto concerne le sue numerose proteste relative alle persecuzioni inflitte a sacerdoti cattolici e ad alcuni Ebrei. Queste proteste rimasero prive di effetto, e il Servizio di Sicurezza del Reich, così come i meccanismi della "giustizia" nazista, assassinarono in Germania, in Austria, in Polonia, in Francia e in altri Paesi occupati, più di 3.000 sacerdoti cattolici, come attesta una Cronaca dei sacerdoti martiri pubblicata dalla Signora B.M. Kempner.
«4° Quando il Ministro degli Esteri del III Reich, Joachim von Ribbentrop, il quale aveva a più riprese dato risposte menzognere agli interventi e alle proteste del Papa, apprese che il Vaticano progettava eventualmente una presa di posizione ufficiale su tali questioni, inviò all'Ambasciatore della Germania presso il Vaticano, Ernst von Weizsäcker, la seguente nota comminatoria (telegramma n° 181 del 24 novembre 1943): "Se il Vaticano giungesse, sul piano politico o della propaganda, a prendere posizione contro la Germania, sarebbe indispensabile fargli capire inequivocabilmente che un deterioramento delle relazioni (tra la Germania e la Santa Sede) non nuocerebbe soltanto alla Germania: il governo del Reich, infatti, dispone di un materiale di propaganda sufficientemente persuasivo e di possibilità d'azione abbastanza ampie per rispondere efficacemente ad ogni tentativo di attacco del Vaticano contro la Germania".
«5° Al più tardi dopo la vittoria di Hitler, si sarebbero dovute prendere determinate misure, tra le quali le seguenti: a) ogni Stato cattolico deve eleggere il proprio Papa; b) il vescovo di Münster sarà fucilato3; c) la peste giudeo-cristiana deve avere presto fine. Queste dichiarazioni di Hitler, così come altre simili, sono tratte da passi ancora inediti del diario di Alfred Rosenberg (cfr. la rivista Der Monat, n° 10, 1949). Rosenberg stesso, nel 1943, attirò l'attenzione su questo punto: "Il Vaticano continua instancabilmente con la zappa il suo lavoro di scalzatura".
«6° A causa di questa presa di posizione e dell'avanzata degli Alleati, Pio XII non poteva levare una protesta ufficiale. Era meglio operare, al contrario, per mezzo degli arcivescovi, interventi locali appropriati, come ad esempio in Slovacchia, in Ungheria e in alcuni altri Paesi. Quanto al Papa, doveva ufficialmente tacere, agire ufficiosamente (come d'altronde fece) e attendere una rapida avanzata degli Alleati. Ogni intervento ufficiale non sarebbe soltanto equivalso a un "suicidio provocato", secondo la dichiarazione di Rosenberg, ma avrebbe anche affrettato l'esecuzione di un numero ancora maggiore di Ebrei e di sacerdoti cattolici».
Katholische Nachrichten Agentur, n° 22, 1963.
Maurice EDELMANN, presidente dell'Associazione anglo-giudaica e deputato laburista:
«Londra, 21 gennaio. - Maurice Edelmann, deputato laburista, presidente dell'Associazione Anglo-giudaica, ha dichiarato oggi, in un discorso al Consiglio londinese dell'Associazione, che l'intervento di Pio XII aveva permesso di salvare decine di migliaia di Ebrei durante la guerra. Ha rivelato che il Papa lo aveva ricevuto, dopo la fine del conflitto, e gli aveva annunciato di avere impartito ordini, segretamente, al clero cattolico, per proteggere gli Israeliti dalla persecuzione nazista».
Gazette de Liège, 23 gennaio 1964.
Armand BARUCH ha pubblicato negli Stati Uniti un opuscolo stampato, in via del tutto speciale, dalla grande associazione giudaica Benai Berith [N.d.t.: «Figli dell'Alleanza»] per difendere la memoria di Pio XII.
«Rompo il silenzio poiché, nei mesi in cui si svolge l'azione del Vicario, io ero membro dell'ambasciata tedesca presso la Santa Sede, e poiché, con la mia esperienza di dodici anni di nazismo e di terrore, credo di poter contribuire a portare un giudizio sui fatti di Roma.
«Il compito della nostra ambasciata presso il Vaticano non era facile, dato che Hitler era capace di ogni sorta di crimine, nel suo isterismo. Aveva sempre tenuto presente la possibilità di fare prigioniero il Papa e di deportarlo nel "Grande Reich", nel periodo compreso tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, vale a dire fino all'arrivo degli Alleati. Se il Papa si fosse opposto a questa misura, era possibile che Hitler lo facesse "freddare durante la fuga", come asserì in quel momento a proposito di certe morti... "auf der Flucht erschossen"!
«Noi pensavamo che il nostro principale dovere fosse di impedire almeno questo crimine (l'assassinio del Papa), misfatto che sarebbe stato perpetrato in nome del popolo tedesco.
«L'Ambasciatore von Weizsäcker doveva combattere su due fronti: da un lato, doveva raccomandare alla Santa Sede – quindi al Papa – di non intraprendere nessuna azione sconsiderata, vale a dire un'azione delle cui ultime e catastrofiche conseguenze forse non si rendeva conto... D'altra parte, l'Ambasciatore doveva cercare di persuadere i nazisti, attraverso rapporti diplomatici fatti ad arte, che il Vaticano dava prova di "buona" volontà, e che le innumerevoli azioni particolari della Santa Sede in favore degli Ebrei erano fatti insignificanti, da non prendere sul serio.
«Noi membri dell'ambasciata tedesca presso il Vaticano, benché nutrissimo pareri diversi sulla situazione, eravamo tutti d'accordo, senza eccezione, su un punto: una protesta solenne di Pio XII contro la persecuzione degli Ebrei lo avrebbe probabilmente esposto, lui e tutta la Curia romana, ad un pericolo estremamente grave, e per di più allora, nell'autunno del 1943, tale protesta non avrebbe certamente salvato la vita a nessun Ebreo. Hitler, scatenato com'era, reagiva tanto più orribilmente quanta più resistenza trovava...».
Albrecht VON KESSEL, collaboratore di Weizsäcker, Ambasciatore della Germania presso il Vaticano.
(Osservatore della Domenica, 28 giugno 1964)
Sarebbe ingiusto non citare anche i due libri Pour ou contre «Le Vicaire» [N.d.t.: In favore o contro «Il Vicario»] di Dom Claude Jean-Nesmy (Desclée de Brouwer) e Pie XII, le pape outragé [N.d.t.: Pio XII, il Papa oltraggiato] di Alexis Curvers (Robert Laffont), che, pur avendo mancato di affrontare il vero problema storico, ciò non di meno sono due notevoli arringhe difensive filosofiche. Ad essi si rinvia il lettore.
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APPENDICE IV
IL CARDINAL MERRY DEL VAL
E LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Il 27 luglio 1914, il conte Palffy, consigliere dell'ambasciata austriaca in Vaticano, si è appena informato presso il Segretario di Stato di Pio X sulle sue impressioni riguardo all'ultimatum del 23 luglio alla Serbia. A partire dall'indomani, 28 luglio, corrono voci secondo cui il Cardinale avrebbe «espresso la speranza che la Duplice Monarchia vada fino in fondo», vale a dire che entri in guerra. Subito, allora, il Cardinale consegna a un giornale il resoconto della conversazione che ha avuto con il conte Palffy, per se stesso e per la storia.
«Era venuto da me [il conte Palffy] per conoscere le mie impressioni sull'ultimatum alla Serbia, e io risposi che sembrava molto duro. "Vostra Eminenza ritiene che la Serbia lo accetterà?", mi domandò il conte. "Ne dubito molto", risposi io, "soprattutto riguardo ad alcuni punti"3. "Tutto o niente!", esclamò il conte. "Ma allora è la guerra", osservai io. "Sì", replicò il conte, "e io spero che la Serbia non accetti l'ultimatum". "Ma, in tal caso, c'è il pericolo di una conflagrazione generale", notai. "Venga pure la catastrofe: sarà sempre meglio che continuare nella situazione attuale", affermò il conte.
«Io risposi soltanto che questo mi sembrava estremamente grave. È vero che, dopo il crimine atroce di Sarajevo, io dissi al conte Palffy che l'Austria doveva tenere duro e che aveva diritto alle più solenni riparazioni4 e a salvaguardare la propria esistenza, ma non espressi mai la speranza o il parere che l'Austria facesse ricorso alle armi. Non fu detto null'altro. Questa è la verità»5.
Ecco ora il testo del telegramma che il conte Palffy inviò, il 29 luglio, al conte Berchtold, Ministro degli Esteri austro-ungarico:
«Durante la conversazione che ho avuto due giorni fa con il Cardinale Segretario di Stato, questi ha portato spontaneamente il discorso sui grandi problemi e le grandi questioni che agitano l'Europa in questo momento. Sarebbe stato impossibile avvertire, nelle parole di Sua Eminenza, un qualunque spirito d'indulgenza e di conciliazione. Egli ha caratterizzato come molto duro l'ultimatum alla Serbia, è vero, tuttavia lo ha approvato senza alcuna riserva, ed ha espresso al contempo, in maniera indiretta, la speranza che la Monarchia vada fino in fondo. Certo, ha aggiunto il Cardinale, è stato un peccato che la Serbia non sia stata umiliata molto prima, poiché, allora, questo si sarebbe potuto verificare senza mettere in gioco possibilità tanto immense, come invece sono in gioco oggi. Questa dichiarazione corrisponde anche al modo di pensare del Papa, poiché, nel corso di questi ultimi anni, Sua Santità ha espresso a più riprese il rammarico che l'Austria-Ungheria abbia trascurato di punire il suo pericoloso vicino danubiano»6.
Il confronto tra questi due testi ci dice tutto il credito che si possa accordare ai messaggi con i quali gli ambasciatori rendono conto ai loro governi delle conversazioni che hanno con i personaggi qualificati dei governi presso i quali sono accreditati – messaggi che, nel caso dell'accusa addotta contro Pio XII, costituiscono interamente l'argomento di Saul Friedländer.
Nelle sue Memorie, pubblicate nel 1923, il conte Sforza, che fu ambasciatore dell'Italia a Parigi prima del fascismo e ministro degli Esteri di questo Paese nel 1945, cita il telegramma del conte Palffy per mostrare che «il Vaticano vide con soddisfazione, almeno all'inizio, un'impresa [la guerra] in cui la disfatta della Serbia avrebbe comportato una diminuzione di influenza della Russia», poiché vedeva in questa «l'ostacolo principale a una riconciliazione della Chiesa d'Oriente con la Sede di Roma». Ma non cita la precisazione del Card. Merry del Val, che, d'altronde, egli non conosceva, poiché fu resa pubblica soltanto il 23 maggio 1936. Per contro, egli cita un altro messaggio, datato 26 luglio 1914, del barone Ritter, incaricato d'affari dalla Baviera in Vaticano, messaggio che corrobora, nei seguenti termini, quello del conte Palffy: «Il Papa approva che l'Austria proceda severamente contro la Serbia. Non ha una grande stima degli eserciti della Russia e della Francia in caso di guerra contro la Germania. Il Cardinal Segretario di Stato spera che, questa volta, l'Austria non ceda. Non vede quando l'Austria possa muovere guerra, se essa non si decide ora a respingere con le armi un'agitazione straniera che ha condotto all'assassinio del successore al trono e che, dopo tutto, nelle condizioni attuali minaccia l'esistenza dell'Austria. Tutto questo prova anche la grande paura che la Curia ha del panslavismo»7.
Il Cardinale Merry del Val era ancora a questo mondo. Ecco quello che gli rispose: «Il ricordo delle angoscianti giornate tra il 29 giugno e il 20 agosto 1914 è ancora così vivo in me che mi ricordo tutto quello che dissi nelle mie conversazioni, sia con il barone Ritter sia con altri diplomatici, e rammento con quale cura io abbia misurato le mie parole. È assolutamente vero che, dopo l'orribile crimine di Sarajevo, io dichiarai a più riprese che l'Austria doveva tenere duro, che aveva pieno diritto alle più solenni riparazioni e a salvaguardare efficacemente la sua esistenza. Ma non mi servii in alcun modo delle espressioni che mi vengono attribuite nel telegramma del barone Ritter, né espressi mai la speranza che l'Austria facesse ricorso alle armi. Questo costituisce una glossa e un'interpretazione che io non ammetto in alcun modo»8.
Pierre Dominique9 e Jacques Nobécourt10, che, nel 1964, conoscono tutti questi testi, li citano e ammettono entrambi che i telegrammi del conte Palffy e del barone Ritter sono sospetti, e che la versione del Cardinal Merry del Val invece non è tale, ma non rimangono comunque interdetti per questo: pongono entrambi l'accento sull'espressione «tener duro» («tener forte» [in italiano], nel testo originale), come se fosse stata pronunciata il 27 luglio 1914, e non, come dice il Cardinale, «dopo il crimine atroce di Sarajevo».
Lo scopo di questa distorsione è concludere che il Vaticano ebbe una sua responsabilità nel primo conflitto mondiale.
Ma è chiaro che, situata alla sua vera data, tale espressione non ha il senso che essi le conferiscono e non implica in nessun modo la responsabilità del Vaticano.
Quando mai la si finirà, dunque, con questi modi di scrivere la storia?
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APPENDICE V
IL PROBLEMA DEI RISARCIMENTI CHE LA GERMANIA DEVE FORNIRE
Allo stato attuale delle cose, un accordo firmato a Londra il 27 febbraio 1953 tra gli ex-Alleati e la Germania ha rinviato al momento della firma del trattato di pace con la Germania riunificata il regolamento di tutte le soddisfazioni che potrebbero essere ad essa presentate da tutti i Paesi che si ritengono lesi da essa a causa della guerra. In cambio di questo, la Germania Occidentale ha accettato di indennizzare sin d'ora tutte le persone che hanno subìto confische o che sono state perseguitate per ragioni di razza, di religione o di opinione politica, e questo si è tradotto in leggi di indennizzazione (Entschädigungsgesetz) e di restituzione (Reicherstattungsgesetz), precisate a più riprese da leggi complementari (Bundesergänzungsgesetz), in particolare il 1° ottobre 1953, il 29 giugno 1956, il 19 luglio 1957 e, ancor più di recente, il 29 giugno 1964. Ci si sarebbe potuti attendere che la Germania dell'Est si associasse a queste misure. E invece no. Niente affatto. Eppure dappertutto si stanno preparando delle fatture, le une a nome degli Stati lesi, da presentare almeno in via teorica, al momento della conclusione del Trattato di Pace, che si spera consacri definitivamente la divisione attuale della Germania, il che comporta che la Germania Occidentale sarà la sola a pagare; le altre redatte a nome delle vittime individuali del nazismo, che si possono già presentare, esclusivamente alla Germania Occidentale.
Tra le prime, sono state rese pubbliche soltanto quelle della Jugoslavia (70 miliardi di dollari, ci dice L'Express del 20 febbraio 1964) e della Grecia (20 miliardi di dollari). Si può stare certi che, quando la Russia e i suoi satelliti avranno messo a punto le loro, il conto che sarà presentato alla Germania, riunificata o meno, sarà eccezionalmente salato.
Tra le seconde figurano i risarcimenti per danni fisici (morti, aventi diritto, invalidità, etc.) ed economici (sottrazioni di beni) causati alle vittime del nazismo. In seguito ad accordi stipulati in Lussemburgo il 10 settembre 1952 tra la Germania Occidentale da una parte e, dall'altra, la Conference on Jewish Material Claims against Germany [N.d.t.: Consulta sulle richieste di risarcimento materiale degli Israeliti verso la Germania] e lo Stato d'Israele, accordi che sono stati precisati in seguito a tutte le successive leggi citate qui poco prima, la Germania Occidentale ha finito per portare a 5.000 marchi (1250 dollari) l'indennità per danni fisici alla quale aveva diritto ciascuna vittima del nazismo, oppure, in caso di morte, a 3.000 marchi (750 dollari) per ciascuno dei suoi aventi diritto. E, nel corso dell'anno 1964, tutte le vittime del nazismo, ebree o meno, sono state risarcite in base a questi parametri.
Con i 3 miliardi di marchi pagabili in 10 annualità che sono stati accordati allo Stato d'Israele in base ai patti del Lussemburgo, e che in seguito diversi negoziati (soprattutto quello che il processo Eichmann rese inevitabile nel 1960-61) hanno portato a quattro, pagabili in quindici annualità, lo Stato d'Israele, che si è istituito erede di quei sei milioni di Ebrei considerati sterminati dai nazisti, si ritiene leso. Calcolando 1250 dollari per ciascuno, va da sé che non ha il suo tornaconto. Di qui le continue proteste finalizzate a un aumento dell'indennità che gli è stata accordata. Se ottiene soddisfazione...
Da parte sua, la Conference on Jewish Material Claims against Germany non perde di vista il problema della restituzione, da parte della Germania, dei beni che quest'ultima è accusata di avere sottratto agli Ebrei del mondo intero. Riunita a Bruxelles l'8, 9 e 10 marzo 1964, la Conference ha stilato il bilancio delle somme che la Germania dovrà restituire agli Ebrei del mondo intero a questo titolo, e La Terre retrouvée del 1° aprile 1964 ce ne offre un resoconto dettagliato:
Ebrei tedeschi 2.000 milioni di dollari
Ebrei slovacchi 140 milioni di dollari
Ebrei polacchi 3.000 milioni di dollari
Ebrei belgi 618 milioni di dollari
Ebrei rumeni 1.000 milioni di dollari
Ebrei cecoslovacchi 650 milioni di dollari
Ebrei ungheresi 570 milioni di dollari
Ebrei francesi 950 milioni di dollari
Ebrei olandesi 450 milioni di dollari
Ebrei greci 120 milioni di dollari
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Totale 9.498 milioni di dollari
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All'incirca 10 miliardi di dollari.
In base a questi dati noti e fortemente incompleti, il totale generale che si ottiene arriva già a proporzioni astronomiche: più di 100 miliardi di dollari! Si freme al pensiero di quanto diverrà questo totale quando il mondo intero avrà presentato la sua fattura.
In confronto – è stato detto –, quello che fu richiesto alla Germania dal trattato di Versailles era soltanto una bagattella.
La prova è fatta.
NOTE ALLE APPENDICI DOCUMENTARIE
1. Il testo di questa lettera è stato pubblicato nella Documentation catholique del 2 febbraio 1964. Parimenti, anche Saul Friedländer lo ha menzionato.
2. Mons. von Galen, noto per la sua opposizione al regime hitleriano.
3. Affinché non sussista alcun dubbio sul significato della domanda che precede e di questa risposta, è importante sottolineare che la conversazione ha luogo il 27 luglio; che l'ultimatum alla Serbia data al 23 luglio, che quest'ultima l'ha accettato tranne che su un punto, che comporta un'infinità di punti più specifici; che il 27 luglio le conversazioni diplomatiche tra la Duplice Monarchia e la Serbia hanno per scopo, da parte della prima, di portare la seconda a cedere su tutta la linea, e che precisamente sulla scia di queste conversazioni diplomatiche il conte Palffy sollecita il parere del Cardinale. Si sa che tali abboccamenti non ebbero successo e che l'indomani, 28 luglio, l'Austria-Ungheria attaccò la Serbia.
4. Sottolineato da noi allo scopo di far notare che il Cardinale non consigliò all'Austria di «tener duro» il 27 luglio, il che avrebbe significato il suo assenso alla guerra, bensì il 28 giugno. Il 27 luglio le sue parole esortano chiaramente alla conciliazione: il lettore vede bene dal testo stesso che non c'è dubbio su questo.
5. Citato in base all'Osservatore Romano, 23 maggio 1936.
6. Memorie del conte Sforza.
7. Memorie del conte Sforza.
8. Osservatore Romano, 22 ottobre 1923.
9. Crapouillot, aprile 1964, p. 61.
10. Op. cit., p. 120.
11. A questo proposito, una controversia tra organizzazioni ebraiche che si è sviluppata su diversi numeri del giornale Le Monde (11, 19 e 29 marzo 1964) ci rende noto che le annualità fin qui versate dalla Germania alla Conference on Jewish Material Claims against Germany non erano ripartite tra le vittime del nazismo, ma, a turno, tra le organizzazioni ebraiche aderenti a questo organismo (quest'anno è il turno delle organizzazioni ebraiche della Francia), per «aiutare la ricostruzione della vita giudaica» (erigere sinagoghe, creare biblioteche, sovvenzionare organizzazioni della gioventù etc.). È così che – ci dice il presidente delle organizzazioni giudaiche francesi (Le Monde, 19 marzo 1964) – il Dr. Nahum Goldman ha ricevuto cento milioni di dollari (!) per l'organizzazione giudaica americana di cui è presidente e di cui alcuni membri non hanno subìto il minimo danno da parte della Germania. Di tanto in tanto, si viene anche a sapere che, senza avere subìto alcun danno, un Israelita si fa rimborsare un preteso furto stabilito su... falsa testimonianza: ecco gli scandali Auerbach, Deutsch, etc. Una mafia senza freni. Il regno dell'immoralità in tutto il suo splendore. Ma che importa? Tanto, paga la Germania – e soltanto la Germania Occidentale!
[1] [Nota del traduttore: l’espressione si riferisce all’episodio di Genesi 9, 20 ss. in cui Noè, piantata una vigna e bevuto del suo vino, si ubriacò e giacque nudo nella sua tenda, dove fu visto da Cam, che riferì la cosa ai suoi fratelli Sem e Iaphet. I due, allora, presero il mantello e, camminando a ritroso per non vedere la nudità del padre, glielo deposero addosso. Passata l’ebbrezza, Noè si adirò con Cam e maledisse suo figlio Canaan, benedicendo invece Sem e Iaphet, e dichiarando Canaan loro schiavo.]